Creato da fattodiniente il 01/06/2007

Gloriosa spazzatura

31 canzoni più qualcuna

 

 

Eugenio Finardi, 'Musica Ribelle'

Post n°28 pubblicato il 18 Gennaio 2008 da fattodiniente

(ascoltala, ammesso che ce ne sia bisogno) 

Adoro questa canzone. A dir la verità, mi piace proprio Finardi, anche se per paradosso sono in tutto tre o quattro le canzoni sue che mi piacciono, e trovo il resto piuttosto insignificante e trascurabile.
È ovviamente una canzone legata al suo periodo, che ho vissuto in pieno, e anche questo me la rende cara. Non che abbia nostalgia di quest’aspetto degli anni ’70, che poi è il suo aspetto saliente direi, ma insomma le cose andavano e sono andate così. E naturalmente, non si può amare una canzone come questa senza condividerne in qualche modo il significato, visto che a renderla mirabile è la perfetta corrispondenza di contenuto musicale e significati che veicola: il testo, cioè, esprime, rende razionale, lo stato d’animo che la musica suscita; e la musica viene sempre prima, se è buona musica quantomeno.
Finardi insomma mi piace per lo stesso motivo per cui mi piacciono gli Who
, anche se con uno spessore musicale ed artistico ben diverso (e vorrei vedere). In effetti, se il disagio e il ribellismo italiano è cantato da Finardi, e quello inglese dagli Who, per noi italiani la figura da provincialotti è dietro l’angolo. Certo, se poi paragoniamo cosa sta dietro a tutto questo, le cose stanno in maniera del tutto opposta: gli anni di piombo e i loro conflitti, rendono al confronto gli inglesi un popolo di bambinetti che fanno i capricci… Ma è così che sono andate le cose.
Ricordo di aver assistito, era il ’77, ad un confronto tra Finardi e un gruppetto di autonomi, alla fine di un suo concerto. Non è che capissi bene il motivo del contendere: dubito che a chiederlo ora a quegli autonomi saprebbero spiegarlo loro stessi; me lo auguro almeno. Di sicuro, Finardi difendeva il suo diritto a far musica, e di voler essere pagato per questo, visto che le spese che doveva sostenere non erano certo indifferenti (“sto solo facendo il mio mestiere…”), difeso da Lucio Fabbri – quello che suona lo strepitoso violino di questo brano. Le cose ovviamente iniziarono a prendere una brutta piega, e quando volò il primo insulto (“muso da mona”), lanciato dal capo , fu il segnale che la discussione finiva lì, e i contendenti vennero separati prima che le cose degenerassero irrimedibilmente. Altri tempi. Poi, volendo, la canzone mantiene una sua certa attualità, e sarà anche questo a renderla affascinante - se questo è un aggettivo appropriato. Ma la cosa essenziale è che se è sopravvissuta a discussioni come quella cui ho assistito (e a quelle infinite che dovevo reggere io, che tutto sommato ero interessato prima di tutto alla musica), senza perdere niente del suo significato e della sua capacità di prenderti dentro, ecco la prova provata che di ottima canzone trattasi.
Oggi, possiamo dire, la questione intorno alla musica si è aggiornata coi temi delle lotte allo strapotere delle majors, del downloading gratuito (o pirateria musicale, a seconda dei punti di vista), e non direi che dietro non ci sia lo stesso assunto di trent’anni fa: la musica è un bene primario, e non dovrebbe essere occasione di speculazione economica da parte di chicchessia. Poi, è solo una questione di radicalità di posizioni, e casomai di mettersi d’accordo sui termini. Io sono restato, su questo tema almeno di sicuro, lo stesso moderato di allora: gran cosa il pragmatismo. Sono il primo a dire che pagare 20 euro per un cd inciso trenta e passa anni fa, sia un nonsenso; e pagarli per ascoltare una canzone che parla di ribellione al sistema, è una beffa. Non so quanti di quei 20 euro vadano a Finardi, e neanche mi interessa saperlo. Spero parecchi, ma temo il contrario, alla faccia di chi straparla di “danno per l’artista”. Certo, da questo punto di vista, le incongruenze non mancano: farsi la stessa domanda pagando le stesse cifre per un cd di Rino Gaetano che è morto, aiuta a capirle. Certe cose nella loro essenza non cambiano mai; magari cambia solo un po’ il contesto. Ed ecco che la musica ribelle non invecchia. Di Anne dalla faccia triste, che sognano di notte avventure che qualcun altro scrive, ce ne sono ancora, ed è pieno il mondo di gente che ritrova le parole delle canzoni ogni volta che va fuori. E la buona musica, le buone canzoni, restano un potente strumento di consapevolezza, a saperle ascoltare, e a capirle.
Io? Io, sono Marco, quello che di dischi fa la collezione, e conosce a memoria ogni nuova formazione, e che sogna di andare in California o alle porte del cosmo che stanno su in Germania. Oggi come allora, certo.

 
 
 

Incredible String Band, 'The Minotaur Song'

Post n°27 pubblicato il 12 Gennaio 2008 da fattodiniente

(ascoltala) 

Angelo Branduardi disse una volta che uno suona soprattutto ciò che non sa di sé; il che è naturale, giacché la musica esprime il nucleo, il caos primordiale di sensazioni e sentimenti che ci costituisce. Specularmente, la scrittura esprime ciò che di noi sappiamo benissimo.
Non essendo io un musicista, non mi sono nemmeno mai posto il problema di cosa suonerei se lo fossi; del resto, mi piace talmente tanta di quella roba, e così diversa sotto tutti i punti di vista, che non saprei nemmeno da che parte prendere il problema.
Tuttavia qualche esperimento musicale, ora che ci penso, l’ho pur fatto. Durante un viaggio in Irlanda, una ventina d’anni fa, imparai a suonare il bodhran – il tamburo irlandese – e il tin whistle – il piffero di latta. Un musicista del piffero, in sostanza. Amor di verità vuole che si ammetta che divenni in breve sufficientemente abile da riscuotere il consenso dgli indigeni nelle mie interpretazione al bodhran, anche se non escluderei l’ipotesi che si trattasse di una forma di cortesia, visto che al di là del bello stile con cui usavo il tamburo (eh beh), dal punto di vista musicale le interpretazioni erano poco meno che scolastiche. Quanto al piffero, l’abilità che acquisii in quel mese mi permise di crearmi un mio repertorio, che da parte sua, diciamo, era alquanto eclettico: ricordo tra l’altro Bandiera Rossa, I’ll Tell Me Ma (un traditional irlandese), Scotland the Brave, Cuore matto di Little Tony e Italia Italia di Mino Reitano, che suppongo rappresentasse la nostalgia per il mio paese lontano. In generale, suonavo – e credo suonerei – qualunque cosa mi passasse per la testa.
Ora, se Branduardi aveva ragione, questo dovrebbe dire parecchio di me. Che cosa precisamente, non saprei dire. Di sicuro mi piacciono le stramberie, l’inaspettato, e le cose suonate per divertimento. Che sia una forma di diverso pensare, lo so anche senza esser sbocciato in quel musicista che promettevo di diventare. Di certo, sarei (stato) un bel problema per l’industria discografica, e la sua mania di catalogare generi, stili e musicisti. In scala più modesta, ammetto di essere un bel problema per chi – per lavoro, o altro – deve aver a che fare con me. Rendo la vita varia, insomma, la mia e quella altrui. E questo è tutto quello che dirò su questa faccenda.
Tornando alla musica, mi piacciono ad esempio da impazzire cose come quelle che faceva – è ormai quasi una quarantina d’anni fa – l’Incredible String Band, nomen omen. Suppongo che sarei un musicista suppergiù di questo taglio. Mantra indiani, medievalezze, filastrocche infantili dadaiste, inni religiosi e marce militaresche, traditional di qualunque posto, e tutto quanto possa essere interessante: il tutto, naturalmente, tutto insieme , ché il bello è quello.
E meno male che preferisco in assoluto la musica alla cucina, o sa Dio cosa ne sarebbe potuto venir fuori.

 
 
 

Robert Wyatt, 'I'm a Believer'

Post n°26 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

C’è modo e modo di dire le cose. Puoi dire una stessa cosa in cento modi diversi, e otterrai cento reazioni diverse, sicché finirai con l’aver detto cento cose diverse. Il modo è importante, e da questo punto di vista la forma è senz’altro sostanza. (Che poi è quello che sapeva benissimo Don Vito Corleone con la sua mistica del rispetto, e se vogliamo è una delle ragioni per cui Il Padrino parla e ha qualcosa da dire a tutti.) Insomma, non è con la verità che convinci qualcuno, ma riuscendo ad emozionarlo, facendogli sentire le cose nel modo in cui le senti tu, e toccandogli i precordi. Cosa ovviamente tutt’altro che semplice, e tanti saluti alla luminosa evidenza della verità.
La cosa vale naturalmente anche per le canzoni, ed è quel che chiamiamo interpretazione. Sicché l’interpretazione in generale conta più della canzone in sé.
Robert Wyatt, ad esempio, è uno straordinario interprete, come dimostra la sua strepitosa versione di questo bel motivetto dei Monkees (in Italia per tutti è Sono bugiarda, nell’immortale interpretazione di Caterina Caselli). Certo, può non piacere, e qualcuno arriva senz’altro a trovarlo un tantino noioso, se non persino disturbante. Poi, è un comunista militante, “la risposta del rock’n’roll a Lenin” nell’icastica definizione di Nick Mason – il batterista dei Pink Floyd e suo fraterno amico - e magari questo può alienargli altre possibili simpatie. Ma io non ho di questi problemi: mi emoziona, e tanto basta.
Una volta, un conoscente disse di Van Morrison che riusciva ad emozionare pure se cantava la lista della spesa. Ottima definizione, e aveva ragione. Robert Wyatt mi emoziona anche quanto interpreta Frontera di Phil Manzanera, il cui testo è una lettera commerciale in spagnolo (!).
Che abbia una voce particolare, e un modo ancor più peculiare di usarla, è un fatto. Ma che le sue siano interpretazioni nel vero senso del termine, cioè il suo modo di sentire e vedere le cose, profondo e sincero, è altrettanto sicuro. Ascoltare il modo in cui porge Comfortably Numb dei Pink Floyd per credere.
Robert Wyatt ha quel modo di convincerti coinvolgente nel senso che racconta sentimenti che non sai di saper provare. A me piacciono le persone così.

 

 
 
 

Echo & the Bunnymen, 'My Kingdom'

Post n°25 pubblicato il 20 Dicembre 2007 da fattodiniente

(ascoltala) 

Quantunque conservi un odio ideologico per gli anni ’80 – motivato anche musicalmente – devo riconoscere che in quel decennio si è prodotta dell’ottima musica. Anzi, è l’ultimo decennio in cui si è prodotto qualcosa di realmente nuovo e significativo, almeno secondo i miei canoni e i miei standards; anche se non ho nessuna difficoltà ad ammettere che altri possano avere idee diverse in merito, essendo che non me ne frega un beneamato cazzo. Sono un tipo tollerante, io.
Tra le cose degne di memoria, ci metto senz’altro un paio di dischi di Echo & the Bunnymen. Ovviamente, non i primi dischi, ovviamente osannati dalla critica, ma quelli diciamo della seconda fase della loro carriera – il loro periodo blu: Ocean Rain, e il loro album eponimo. Altrettanto ovviamente dalla critica schifati alquanto. E sempre secondo la medesima logica di tolleranza, la cosa non mi interessa minimamente. Un disco è bello quando mi piace, inizio e fine della mia poetica.
Del resto, ho imparato a fregarmene dei giudizi critici già dalla mia verde età, quando i dischi per cui impazzivo erano sistematicamente stroncati da chi si suppone ne sapesse più di me. Ma per l’appunto, non ho mai, già da allora, messo in discussione le buone ragioni dei critici, quanto il fatto che dovessi tenerne conto. E da subito, e con maggior virulenza pure, la cosa si è estesa a libri e film. E a tutto quanto avesse anche vagamente a che fare con l’operosità e l’ingegno e l’intelletto umano. Non che questo abbia fatto di me un uomo felice, ma dubito che seguire l’opinione di chicchessia, per quanto qualificata, avrebbe contribuito a cambiare lo stato delle cose.
Poi, è vero che nel tempo certi miei giudizi e gusti son cambiati, il che suppongo sia inevitabile per chiunque: di certe cose che adoravo, a distanza di tempo, mi chiedo che ci trovassi mai; e di altre che mal tolleravo, o non tolleravo affatto, ho scoperto un fascino che al tempo m’era sembrato alquanto elusivo. A mia maggior gloria, devo dire che non solo la cosa continua tuttora, ma soprattutto che sono assai più le cose che appartengono alla seconda categoria, di quanto non siano quelle che appartengono alla prima; sicché son assai più le cose che apprezzo ora, di quelle che apprezzavo allora. La saggezza consiste anche di questo. Certo, v’è anche il fatto che certe cose si legano al loro tempo, e mi piacciono proprio perché mi ricordano momenti che furono.
Come che sia, questo disco (anno domini 1984) mi piace da sempre e sempre allo stesso modo: è un gran disco, e questo non si discute. Non a casa mia, quantomeno. Dove peraltro a nessuno frega una pippa di quel che ascolto (e figuriamoci in giro). Per stare a Ian McCulloch e soci, Ocean Rain e il disco successivo hanno una sequenza di canzoni strepitose: notevolmente più cantabili dei primi tre album (la cosa che probabilmente inorridiva i critici), splendidamente arrangiati, solari e persino allegri, al limite della filastrocca. Ma vitali, musicali, coinvolgenti. Dovendo sceglierne uno, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Inizialmente m’ero orientato su tre brani del disco dell’87 (per far dispetto ai critici, eheh), ma alla fine ho scelto My Kingdom, che racchiude e racconta l’epos di quel periodo meglio di tutti. Mia personale opinione: ma siccome il blog è mio, non c’è discussione.
E poi c’è quell’assolo di chitarra che stacca il brano da tutti gli altri: e la gara è con Killing Moon, Seven Seas e Nocturnal Days, mica pizza e fichi voglio dire. Grande melodia, bei suoni, ritmo serrato e composto, pathos interpretativo e originalità; che Echo & the Bunnymen siano benedetti.
E che siano benedetti gli anni ’80, con tutto quel che di male possono rappresentare. Dopotutto, nei diciassette anni successivi abbiamo visto, e sentito, molto di peggio.

 
 
 

Benny Goodman, 'And the Angels Sing"

Post n°24 pubblicato il 26 Novembre 2007 da fattodiniente

Il grande successo dell’inverno del ’38 fu “Bei mir Bist du Schön”, delle Andrews Sisters.
Era un brano yiddish scritto circa otto anni prima; ne venne tradotto il testo, e fu un enorme successo, il loro maggiore: vendette oltre 350.000 copie, restando per cinque settimane in testa alle classifiche di vendita.
Una semplice canzoncina d’amore, una dichiarazione, allegra, gioiosa, ma dalla melodia venata di quella malinconia che la cultura yiddish esprime forse meglio di ogni altra.

«Bei mir bist du schön, please let me explain
Bei mir bist du schön means that you're grand
Bei mir bist du schön, again I'll explain
it means you're the fairest in the land…»

La versione delle Andrews ne rispetta con grande sensibilità lo spirito, e Patty, la solista, accarezza le note accompagnandole nel loro significato:

«I could say ‘bello, bello’ even say ‘wunderbar’,
each language only helps me tell you how grand you are…»

ammorbidendo la pronuncia sul testo italiano, e trascinando alla Marlene la citazione in tedesco. Il tutto in una strofa musicale. Che gran cosa. Un gioiellino.
In quelle stesse settimane, il 16 gennaio del ’38, Benny Goodman dà un storico concerto alla Carnegie Hall, e da divertito ma sapiente fagocitatore di tutto quel che è interessante e curioso (straordinaria in quel concerto la versione jazzy di ‘Loch Lomond’, IL traditional scozzese), inserisce nel programma il successo del momento.
La voce è naturalmente quella morbidissima, gentile, di Martha Tilton, accolta da ovazioni ad ogni suo ingresso in scena. Ma il colpo di genio è l’affidare alla tromba solista di Ziggy Elman, alla metà del brano, un assolo di frahlich tanz, la danza nuziale ebraica: un assolo vertiginoso, drammaticamente gioioso, stordente. Il brano si interrompe, parte il tipico rullare quasi tribale, e l’assolo esplode purissimo, inaspettato, trascinante, stupefacente, emozionante. L’assolo termina, il brano si interrompe. La platea ristà stupefatta per un attimo, ed esplode in una standing ovation, interrotta dal riprendere del tema, che Martha porta alla trionfante conclusione con la strofa finale.
La cosa non può finire lì. Si prende un’altra frahlich, ‘Frahlich in Swing’, uno strumentale dello stesso Ziggy Elman, si chiama a scriverne le parole il grande Johnny Mercer, e la si fa diventare ‘And the Angels Sing’:

«We meet, and the angels sing.
The angels sing the sweetest song I ever heard.
You speak, and the angels sing.
Or am I breathing music into every word?»

Sempre Martha Tilton a porgere la melodia soffusa, apparentemente banale, ma avvolgente. E nel mezzo, ancora, un assolo di Elman, più compiuto, che prende il brano per mano, e lo porta in alto e oltre, e stupisce, in quel modo che solo la musica klezmer sa fare.

«We kiss, and the angels sing.
And leave their music ringing in my heart!»

La voce di Dio ogni tanto parla, e anche quando dice cose minute, apparentemente banali, quotidiane, resta la voce di Dio.
E certe volte, dice le cose una volta sola.

 
 
 

Herb Alpert & Tijuana Brass, 'A Taste of Honey'

Post n°23 pubblicato il 05 Novembre 2007 da fattodiniente

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Spiegare chi era Roberto Bortoluzzi, e cosa significasse la sua voce, a chi non l’ha mai sentita prima, o a chi semplicemente non ha significati particolari legati ad essa, non ha molto senso. Eppure per milioni di italiani, un significato ce l’aveva, e l’ha avuto per anni; decenni addirittura. Ed era un significato profondo, perché raccontava una passione, il tifo calcistico, che per definizione va al di là di ogni razionale spiegazione. Le domeniche pomeriggio della mia giovinezza. Domeniche invernali fredde e nebbiose, nella quiete silenziosa in casa, o col sottofondo delle chiacchiere dei parenti; o al freddo degli spalti di un campo di calcio di paese; o in auto. In attesa della sigla iniziale. Cinque battute, l’ingresso della tromba, e Tutto il calcio minuto per minuto iniziava: l’adrenalina già alta, saliva ancora di tono. La voce pacata, seria ma tranquilla a far da contrappunto all’attesa del primo, parziale verdetto: il risultato dai campi del primo tempo. Bortoluzzi in studio, Ameri dal campo principale, e Ciotti. Un rito personale e collettivo. Che altro c’è da spiegare?
Ora sono cambiati i metodi, e son cambiati gli officianti. Ma il senso è rimasto quello, e son rimasto lo stesso anche io. La stessa spasmodica attesa della partita, del risultato. La bellezza del calcio. L’emozione è la stessa, anche di fronte alla sigla iniziale di Sky. Certo, se la sigla fosse A Taste of Honey il gioco sarebbe più emozionante. E pazienza se Fabio Caressa non è, e non sarà mai Roberto Bortoluzzi. D’altronde, neanche io avrò mai più dodici anni, e non passo più le domeniche a casa della nonna, o sulle gradinate scalcinate di uno scalcinato campo di calcio di paese. Ad aspettare la voce austera di un signore che mi comunicava il verdetto temuto, o sperato. Non puoi far niente per cambiare il risultato di una partita, e questo sembra rendere sciocco il tifo calcistico; ma non puoi nemmeno far niente per i tuoi dodici anni, quando li hai, e neanche dopo, comunque tu li abbia passati. E non so quanto questo sia più sciocco, o non lo sia affatto.

E, sì, mi son comprato da quel dì anche il cd anche di Herb Alpert. Per risentire negli echi della magica tromba mariachi, quella che è stata una delle voci più amate della mia gioventù.

 
 
 

Amorphous Androgynous, 'The Mello Hippo Disco Show'

Post n°22 pubblicato il 03 Novembre 2007 da fattodiniente

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È una cosa strana, al limite del paradosso, che la musica dia un significato alla vita, quando dovrebbe essere il contrario. La musica, come diceva Débussy, proviene dall’Ombra, ed è la manifestazione di quel che caos primordiale di sentimenti ed emozioni che ci costituisce, e su cui dopo costruiamo tutti i significati razionali.
Ora, la quasi totalità della musica che significa qualcosa per me ha almeno dieci anni. Quando va bene. In effetti, è ormai da un decennio che ho smesso di seguire nuove uscite discografiche. Non che non si producano più dischi nuovi, e che non ci siano più artisti che continuano a produrre dischi – figuriamoci! Solo che non mi interessano, e al massimo si può dire che si è smesso da un bel po’ di produrre cose realmente interessanti da ascoltare. Meglio, che semplicemente interessi ascoltare a me. L’età probabilmente, nel senso che è a vent’anni che si costruiscono i nostri significati definitivi del mondo; e la musica che ascolti a quell’età è quella per l’appunto che colora il tuo rapporto con le cose: dopo, subentrano altri atteggiamenti, e non hai più voglia, e la capacità, di vedere le cose in modo diverso.
Così, che alla fine, rimani quel che sei diventato, e ti porti dentro quel che ti sei costruito. E se il sentimento religioso è quel che hai imparato dai Genesis, o nei modi che i Genesis ti hanno evocato, di là non ti muovi. Il che non vuol dire perciò che la musica che ti porti dentro sia migliore di altre: è semplicemente la tua, e alla fine è “solo” una musica come un’altra. E conosco gente che impazzisce per – o con – la disco, e qualcun altro per cui Beethoven è il massimo della vita (pare che il Fidelio sia il massimo del massimo, ma non saprei dire, né credo approfondirò la cosa in futuro). Personalmente, non ho niente contro tutto questo, ma nemmeno mi interessa granché ascoltare davvero qualcosa di nuovo, nel senso di recente.
Non è prevenzione, sia chiaro. Potrei dire che i nuovi gruppi rifanno semplicemente (e dal mio punto di vista, meno bene), ciò che i Led Zeppelin facevano trentacinque anni fa. Ma è anche vero che i Led Zeppelin rifacevano a modo loro il blues, e gli Yes (si) rifacevano al modo di cantare dei gruppi vocali americani, seguendo magari la lezione di Stravinskij. E Ian Anderson rifaceva paro paro le gimmicks di Roland Kirk, e Bob Dylan rifaceva Pete Seeger, e… Insomma non si inventa niente, e non si vede perché ora dovrebbe essere diverso.
Certo, l’industria musicale è cambiata, è cambiata l’idea di “album” e ora si va di iPod ed mp3, ma neanche la forma-album fu consegnata a Mosé durante il famoso tour che fece sul Sinai, tremila e passa anni fa (una tournée passata alla storia, e manco un live che documenti l’evento). Con questi criteri non si va da nessuna parte.
E poi io non sono un passatista, e il laudatis temporis actibus è un atteggiamento che mi irrita in qualunque salsa, figuriamoci in questa. Capisco che i ragazzi d’oggidì hanno un atteggiamento diverso – e hanno tutto il diritto di averlo. E a chi obietta che non sanno cosa si perdono – o si son persi – rispondo che so bene cosa mi son perso invece io ad esser giovane in un’epoca in cui le possibilità tecniche e culturali attuali erano più che un sogno, e mannaggia a me se l’ho sognato! E tanto peggio – o tanto meglio - se i Genesis son stati giovani tre decenni e passa fa.
Poi, capita anche di trovare qualcosa di nuovo che ti prende davvero. Questi due tizi, ad esempio, che dopo essersi evidentemente stufati della techno spinta e molto art che facevano sotto il nome di Future Sound of London, si son messi a produrre dischi come questo The Isness, sotto il nome di Amorphous Androgynous. Eh beh.
Ok, li ascolti e pensi “sì, ma questa è la space guitar di Hillage con i Gong, quest’altro è il folk psichedelico di Donovan (o dell’Incredible String Band), e qui invece rifanno Led Zeppelin III, e qui poi…” Beh, chissenefrega. Tanto torniamo al discorso di prima.
Alla fine della giostra, io continuo ad avere la mia bella età, le occasioni per cambiare la mia vita le ho avute, ma non sono andate come ho cercate di farle andare, o come credevo – o banalmente sono andate come dovevano andare -, e tutto quel che posso dire è che il tempo passa, e ora anche gli Amorphous Androgynous hanno un posto nella mia storia, dopo aver già avuto un posto nella mia vita. Col mio atteggiamento, certo, pare abbastanza improbabile incontrare ancora qualcosa del genere in futuro. Ma non si può mai dire.

 
 
 

Focus, 'Hamburger Concerto'

Post n°21 pubblicato il 22 Ottobre 2007 da fattodiniente

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Il bagno della casa dei miei è esposto a nord. In autunno e in inverno è un posto freddo e piuttosto umido; un ambiente non molto accogliente, che l’aspetto fine anni ’50 – piastrelle bianche con una linea nera, e sanitari con i rubinetti separati – rendeva ancor più spartano. Allora usava così, e del resto non è che ci si potesse permettere molto altro.
Certi giorni, tornavo da scuola, dopo sei ore di lezioni di cui non poteva fregarmi di meno, e che mi avrebbero dovuto garantire un lavoro che detestavo nel profondo; avevo la testa piena di altre cose, e un disagio che quell’ambiente e la casa vuota – i miei lavoravano, ovviamente – rendevano palpabile.
Il giorno che arrivò questo disco (acquistato per posta, 2990 lire: curioso come a distanza di tre decenni le cose siano tornate al punto di partenza) pioveva a dirotto, come spesso fa ottobre da queste parti. Ero zuppo come un pulcino, in una giornata scura e ventosa. Mi rifugiai in bagno per cambiarmi, prima di ascoltare con ansia il nuovo arrivo.
Pensavo fosse un live, ma non era così: non c’era nessuna delle migliori canzoni dei Focus che conoscevo: Sylvia, Hocus Pocus, Answer? Questions!… Era chiaramente un disco minore del gruppo, e non mi piacque granché. Diciamo pure che non mi piacque affatto. Del resto, all’epoca non era mica così facile avere informazioni su dischi e gruppi; si acquistava quel che si trovava, e il live che credevo di aver acquistato (Focus at the Rainbow, per la cronaca) era in realtà semplicemente introvabile da queste parti. Ma se già avevo l’idea di essere un tipo sbagliato, un idiota che faceva e avrebbe fatto una vita sbagliata, tutta la situazione lo dichiarava senza tanti se e tanti ma.
Un paio di anni dopo, i miei rimodernarono il bagno: le migliori condizioni economiche, l’ambizione di avere una casa più confortevole… Da parte mia, quell’anno fui giustamente bocciato, e quella che doveva essere la mia carriera grazie a Dio terminò così, per prendere la strada che avevo sempre desiderato. Intanto conservavo il disco, senza ascoltarlo praticamente mai. Finii per venderlo molto dopo, senza peraltro dare alla cosa nessuno speciale significato.
Poco più di cinque anni fa, l’ho ritrovato in cd sugli scaffali di un grosso negozio di Padova, ora chiuso: edizione giapponese da collezione, rara e piuttosto costosa. Nel frattempo, avevo acquistato e già venduto il mitico live al Rainbow: non m’era piaciuto nemmeno quello, e la cosa forse rendeva giustizia all’equivoco di tanti anni prima. Sorrisi, e lo lasciai lì. Ma portandomi dentro il ricordo del vecchio bagno, e di una giornata autunnale di pioggia battente, che mi aveva infradiciato le ossa e l’anima.
Dopo un mese, tornai per acquistarlo. Non c’era molto altro da acquistare, a dire il vero, ma volevo farlo. E curiosamente, dopo aver inizialmente sorriso ancora risentendo i vecchi suoni che non m’erano piaciuti mai, scoprii che invece non era affatto male come ricordavo. Anzi.
Ora ho la discografia completa dei Focus, in edizione giapponese e tutto il resto, e li ascolto sempre con grande e reale piacere. La vita a volte va un po’ meno peggio di come ci immaginiamo. E da allora, provo una grande nostalgia per quel bagno, e per quel giorno cupo e piovoso.

Un bagno, e un disco: forse non fanno una vita, ma possono bastare a raccontarne il senso.

 
 
 

The Blue Nile, 'Tinseltown in the Rain'

Post n°20 pubblicato il 21 Ottobre 2007 da fattodiniente

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Questo è in assoluto il disco che ho ascoltato di più in vita mia. Lo dico con assoluta cognizione di causa. Dunque dovrebbe anche essere, nel mio giudizio, il disco più bello mai realizzato; se non fosse che questo genere di classifiche mi risultano sempre piuttosto ostiche da accettare, potrei anche dire che sono tutto sommato d’accordo con l’affermazione.
È un disco del 1983, anche se l’ho ascoltato per la prima volta poco più di anno dopo: il che significa che da oltre ventidue anni è il disco che in qualche modo ha significato, e significa, di più per me. Anche questa affermazione è decisamente apodittica, ma prendo anche questa per buona. La cosa che però da questo punto di vista mi colpisce di più, è che, ancor oggi, considero A Walk Across the Rooftops un disco nuovo, un disco recente insomma. Non è un disco della mia adolescenza, il fatto è questo. Il che vuol anche dire che negli ultimi ventidue anni o giù di lì, non sono cambiato abbastanza da giudicare un disco come appartenente al passato: un modo come un altro per dire che non mi sembra di essere cambiato affatto, e sarà anche per questo che dimostro dieci anni di meno, ahahah.
Del resto, questo disco ha lo stesso significato di ventidue anni fa, e di tutto il tempo trascorso nel frattempo. L’ho ascoltato in tre case diverse, ma i sentimenti che descrive son sempre gli stessi: la solitudine notturna, la malinconia nostalgica, e l’osservare la vita che passa un po’ dall’alto e un po’ di lato, aspettando quello che verrà.
Certo, nel frattempo un po’ di cose son successe, un bel po’ di persone sono arrivate, e tutte passate: chi per scelta, chi per necessità, e molte per scelta mia. Che tutto sommato sto bene come sto; e sto bene da solo, fondamentalmente, a quanto pare.
In effetti, ogni disco è collegato ad una stagione: meteorologica o cronologica, ma questo no. Per cui non è un disco che mi ricordi qualcuno, o qualcosa, e anche questo lo rende speciale. In effetti, se non avessi più la possibilità di guardare di notte i tetti bagnati di pioggia, non sarebbe più la mia vita. E avere qualcuno che dorme nel mio letto, aspettandomi o anche no, con la sicurezza e la voglia che ci sia, non è una cosa così essenziale come credevo un tempo; e magari sarà anche che ho scoperto che certi momenti di raccoglimento, di solitudine, sono la sola cosa di cui davvero non so fare a meno.
Già. Senza la musica, senza i miei dischi, non saprei stare. Senza A Walk Across the Rooftops proprio non sarebbe vivere.

 
 
 

Deep Purple, 'Burn'

Post n°19 pubblicato il 18 Settembre 2007 da fattodiniente

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È facilissimo ed impossibile sapere cosa fosse “essere della Riviera”, alla metà degli anni settanta.
Un mondo disincantato, duro, piuttosto grezzo che gretto, tendenzialmente violento. Un mondo di ragazzi apparentemente “difficili”, o almeno prossimi ad esserlo, dove c’era sempre il caso di buscarle; anche se in vita mia avrò visto sì e no un paio di scazzottate, e nemmeno troppo cattive, giusto una manifestazione di folklore locale. Però la mala della Riviera del Brenta, Felice Maniero e tutto il resto, esistevano eccome, talvolta assurti a eroi maledetti (il mitico Kociss!…), così che c’era sempre da stare attento con chi avevi a che fare.
Ma era un mondo anche ilare, ridanciano, con quel sansofiumor ad alzo zero, sempre prossimo al dileggio, e comunque disposto a prender davvero sul serio solo le faccende davvero importanti: il calcio, la figa, e la musica. Una provincia dell’anima, per dirla con Canetti.
Bene, tralasciando le prime due cose, non è che dicendo “la musica” si intenda poi chissà poi quale cultura. I ragazzi della Riviera ascoltavano i Deep Purple. E basta. (I ragazzi. Le ragazze non si sa: non si sapeva un cazzo delle ragazze della Riviera. Che è un modo gentile per dire che non si sapeva un cazzo delle ragazze. Molto probabilmente, le ragazze semplicemente non ascoltavano musica, ed in ogni caso non era una faccenda rilevante; era un mondo troppo misogino da questo punto di vista).
Ora, non è che si ascoltassero solo i Deep Purple. Volendo, c’erano gli Uriah Heep, o i Black Sabbath o gli Zep. Ma quella era la pietra di paragone. Non si scappava.
In realtà, se aveste chiesto chi fossero i Deep Purple, forse molti non avrebbero saputo dirvelo. Essendo un mondo rigorosamente in dialetto – variante brentana, che non ha niente a che fare né col nobile veneziano (quella sì, una lingua), né col posticcio mestrino, e men che meno col supponente ma pesantissimo padovano, Dio ci scampi –, ebbene, tutto passava attraverso il filtro della interpretazione linguistica, che è assai più che un trasferir concetti da un idioma all’altro. Esprimere un concetto, nomare una cosa, significava ridurla a piani di significati “altri” rispetto all’originale: nessuno ha mai espresso una dichiarazione d’amore in Riviera. Come cazzo si fa infatti a dire “ti amo” in rivierasco? Roba da rovesciarsi sulle sedie dal ridere. Ed era ridicola tanto la locuzione (“so inamorà de ti”? Ma per favore), quanto dunque il concetto espresso. L’educazione sentimentale delle giovani generazioni rivierasche ha seguito vie impervie e improbabili, ma di fatto quella gente si è sposata tutta, ed è indubbio che in qualche modo avrà fatto. Cosa ci si dicesse, allora, è lungo da dire: dev’essere lì che ho sviluppato il mio gusto, e le mie capacità, di usare le perifrasi.
Così, in effetti i ragazzi ascoltavano semmai “Idipàrple”, mentre i più versati nella lingua, o coloro che semplicemente cercavano di dare un senso ad ore e ore di altrimenti inutili lezioni di inglese, ascoltavano “Idipàppol”. Così come del resto ascoltavano “Iuraiaìp”, “Iblesàba” e “Ilesèpeli” (E in ciò, non facevano che tramandare tradizioni di famiglia, per cui le nonne sognavano con i film di Elisa Beteo - Elizabeth Taylor -, Caga Blè - Clark Gable, e lasciamo perdere l’osceno gioco di parole - o Tiròn Paue - Tyrone Power, dove ‘tiròn’ sta per ‘strappo violento’, un termine di assoluto uso comune. Ma non divaghiamo).
In realtà, tra i ragazzi della Riviera esisteva una élite intellettuale che ascoltava il progressive, e i cui eroi massimi, i Campioni dei Campioni erano invariabilmente “Ipifloi” (i Pink Floyd), che peraltro raccoglievano taciti consensi anche presso l’altra schiera, quella del popolo crasso, per via di
Dark Side of the Moon
.
Ma i “Ipifloi” erano amati dai proggers per le cose più cerebrali, psichedeliche e tutte quelle menate esoteriche lì, che certo non potevano incontrare il gusto rude dei più, per i quali nelle loro cose sperimentali “i me pare che i zé drio dare i ultimi” (“mi sembra che stiano tirando le cuoia”), secondo l’icastica recensione che ancora ricordo a distanza di tanti anni.
Perché poi
Idipàppol
godessero di tanta venerazione, non è nemmeno difficile da immaginare. Le schitarrate assassine di “Rìci Blècmor” (Ritchie Blackmore), il drumming pesante ma puntuale di “Ianpès” (Ian Paice), e soprattutto gli estremismi vocali di “Ianghìlan” (Ian Gillan), eccitavano quei cuori semplici cantando e mettendo in sentimento i loro valori veri. Fatti di sguardi sbiechi, frasi smozzicate e pesanti, rudezza di modi, e poco altro. Ah, che uomini!
E non sono poi mica cambiati, a trent’anni di distanza, per quanto alla fine si siano rivelati per quel che erano: paste d’uomini, sempre disponibilissimi a dar una mano quando serve, dalla socialità spiccata, lavoratori, e ancorché non particolarmente portati per l’eloquio, in grado di capire anche ragionamenti mediamente complessi. A patto di spiegare le cose una alla volta, e lentamente. E col dovuto modo. 
E sono anche sentimentali. Il mio vicino era quasi commosso al racconto del concerto dei suoi (nostri) eroi, che aveva appena visto a Udine, la passata estate. Al racconto dei venti minuti di assolo di batteria (!) di Ianpès quasi godeva ancora nelle mutande (“el se gà sborà dosso” per esser precisi).
Ma su una cosa avevano ragione: i Deep Purple erano davvero divertenti: con tutta la mia supponenza, ci ho messo degli anni ad ammettere che mi piacevano davvero. Perché sono vivi, con le loro baracconate, e le canzoni erano buone: del buon rock blues tirato al massimo, ma onesto, dichiarato, e discretamente suonato pure, eccessi e pacchianerie comprese. Anche se da buon snobbone, ho sempre amato (chiamiamo le cose col loro nome) i dischi più burini: mica “Fairebal”, o “Mascinèd”, macché.
Burn, e Stormbringer
.
Ed eccomi, trent’anni dopo, a godere come un maiale nel trogolo, mentre ascolto in auto
Burn
a pieno volume, appena comperato (beh… per la quinta volta: eh, ciò, ognuno ha i problemi suoi, ah?), accompagnando a squarciagola David Coverdale, il più tamarro dei cantanti tamarri, perciò il più adatto. Del resto, girando per i miei paesi, che altro cazzo di colonna sonora vuoi mettere? Una volta John Entwistle, il bassista degli Who, dichiarò che a ciascuno piace solo l’hard rock che suona, così come ciascuno ama solo l’odore delle proprie scorregge. Per la verità, in seguito tentò di smentire l’affermazione, ma non fu molto creduto. Ecco, a me piace solo l’hard rock con cui sono (mio malgrado?) cresciuto.
Perché io gioco a fare il filosofo, il poeta, e salcazzo che altro. Ma quando tiro fuori la riastarda, e tutto il resto, è solo il vecchio modo d’essere del ragazzino rivierasco di trent’anni fa a venir fuori: quello pronto a mandare fanculo chiunque e buttar giù tutto per qualunque ragione nel giro di un amen, anche solo per vedere l’effetto che fa. O a tirar fuori il medio all’autista del pullman che si permette di strombazzargli, e pronto ad aggredire il vecchiaccio col macchinone che fa il gradasso all’entrata dell’autostrada.
C’è da stare attenti, a salire in auto con un ragazzino cresciuto in Riviera. Perché David Coverdale è dalla sua parte.

 
 
 

Led Zeppelin, 'Stairway to Heaven'

Post n°18 pubblicato il 11 Settembre 2007 da fattodiniente

L’apertura di un vero negozio di dischi nel mio paese fu per noi un vero avvenimento. Era il 1976, e i dischi si dovevano andare a cercare in città – a Mestre, o a Padova – oppure si doveva attendere il lunedì pomeriggio, quando passava il rappresentante, col bagaglio zeppo di lp, per rifornire il solo negozio di elettrodomestici che tenesse il prezioso bene. In questo modo si poteva ordinare qualcosa, con la speranza d’averlo la settimana seguente. Non era neanche male, tutto sommato, di cose in un modo o nell’altro se ne trovavano diverse.
Ma avere un vero negozio di dischi era tutta un’altra faccenda; anche perché gestito da due ragazzi, un poco più grandi di noi, uno addirittura era il fratello di un amico; e poi suonavano pure, e garantivano perciò una assistenza al cliente (chiamiamola così) e un catalogo disponibile di tutt’altra qualità.

Per qualche anno, sei o sette, il negozio viaggiò bene, e divenne il mio riferimento per gli acquisti, le novità, l’ascolto, e tutto il resto. A gestirlo era restato ben presto uno solo dei due, Pierluigi, detto Péo, cioè “pelo”, in dialetto brentano, terra di ironie taglienti che raccontano affetti silenziosi e non esprimibili diversamente.
Poi, la nascita del cd, le accresciute possibilità di mobilità mie e degli altri migliori clienti, un po’ di crisi del settore, fecero la loro parte, e Péo verso la fine degli anni ’80 chiuse il negozio. Non ero più suo cliente da qualche anno, appunto, e confesso che vivevo la cosa con disagio; un po’ avvertivo nel suo saluto una punta di rimprovero, ma sapevo che non potevo fare altrimenti. Non mi piaceva, ma è così che vanno le cose.
In casa mi rimanevano, e mi son ancora rimasti, molti lp che avevo acquistato da lui, come Led Zeppelin IV, e quindi Stairway to Heaven.

Domenica scorsa Péo è morto. Era una persona dolcissima, sempre sorridente, e con quel fare un po’ casuale, leggero, tra disincanto, ironia e fatalismo che solo i migliori delle mie parti hanno. Una persona buona. Tra le altre cose, era una eccellente guida alpina: uno stupido incidente di montagna, di quelli che si portano via i più esperti, e questo è quanto. E quel che posso fare è ascoltare Stairway to Heaven, dal vinile che acquistai trenta anni fa, nel suo negozio, col rimorso del tradimento mai sanato. Chi ama la musica, i dischi, fa così, perché è così che si deve fare.

a Péo, Pierluigi Secco, 1955-2007, con affetto

 
 
 

Supertramp, 'The Logical Song'

Post n°17 pubblicato il 09 Settembre 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

Fondamentalmente, l’ascoltatore di dischi è una persona solitaria, e tendenzialmente sola. Almeno per quel che riguarda la sua passione, dopo di che, è solo una faccenda di profondità della sua passione: più i dischi sono il suo mondo, meno lo sono gli altri membri della razza umana.
Parlo di acquirenti di dischi, perché sono una specie particolare del genere degli amanti della musica, che nella sua totalità è invece alquanto socievole: basta pensare ai frequentatori di concerti, che amano discutere e confrontare le proprie opinioni e impressioni sul tema con i loro simili. Da questo punto di vista, gli ascoltatori di dischi differiscono anzi da tutti gli amanti delle belle arti e delle lettere (ammesso che la musica pop possa essere definita ‘belle arti’: personalmente possiedo album di rara bruttezza, di cui è incomprensibile il solo perché dell’ascoltarli, figuriamoci dell’acquistarli. In effetti solitamente il discofilo si limita a possederli, e questo fa capire il livello di eccentricità dei personaggi; se e quando li ascoltano, è il loro memento circa la durezza e l’inevitabilità degli obblighi della vita, e non sto affatto scherzando).
L’asocialità degli ascoltatori di dischi è comunque piuttosto bizzarra. Essa non dipende dal solo ovvio fatto che i dischi si ascoltano a casa propria, in raccoglimento più o meno intimo e quasi religioso, giacché questo vale assai più per il lettore di libri, che ama dedicarsi alla sua attività preferita senza eterologhe rotture di balle da parte di chicchessia – normalmente altri esseri umani a lui legati da vincoli di parentela piuttosto stretti. E non che questa categoria – come tutte - non abbia le sue bizzarrie, ma quella dei discofili è senz’altro di tutt’altra natura.
Il discofilo ha un rapporto molto personale e decisamente infantile con i dischi, e diversamente dal lettore, costruisce il suo mondo intorno ad essi, esattamente come un bambino con la sua mamma: fondamentalmente, ne è geloso; ammette di parlarne con altri, ma prende piuttosto male critiche e osservazioni che non siano più che benevoli, mentre è lieto, quasi fiero, di sentirne parlar bene. A patto però che sia chiaro che quello è e resta il suo disco; la gelosia, scatta proprio nel momento in cui due discofili scoprono di amare allo stesso modo un album, un po’ come due ragazzi quando parlano di una ragazza di cui entrambi sono segretamente innamorati. Il disco appartiene al discofilo, anima e corpo, letteralmente, e non può appartenere ad altri; almeno non nel senso in cui appartiene a lui. Sarà anche un disco, o un brano amatissimo da un sacco di gente, ma nessuno lo amerà come lo ama lui: alla fine è suo, e su questo non si discute. E poco ci manca che non si convinca che è stato scritto, suonato e realizzato per lui. La gente arriva ad ammazzare per gelosia, dopotutto. Il discofilo è appena più civile.
Questa è anche la ragione per cui non bisogna mai chiedere ad un discofilo un disco in prestito. Lo spettro delle risposte possibili varia, con la sola costante che non ve lo presterà in nessun modo, a costo di compromettere l’amicizia con lui, e questo contribuisce a non renderlo molto amabile. Se volete mantenere l’amicizia con un ascoltatore di dischi, non fate mai questo errore, e portate pazienza: è fatto così. Tenete conto che chiedergli un disco è come chiedergli la fidanzata per uscire la sera. Le persone cui un discofilo presta i suoi dischi al massimo arrivano ad essere una o due, assolutamente affidabili, e che condividono in tutto il suo atteggiamento.
Ugualmente, il discofilo tenderà a schifare le canzoni e i dischi troppo famosi, esattamente come un ragazzino tenderà ad evitare di innamorarsi di una ragazza troppo popolare, che è troppo puttana, è evidente. A meno che non abbia conosciuto la canzone per primo, quando ancora nessuno la conosceva, e allora vive il suo successo con fastidio, e con lo stesso atteggiamento di diffidenza di fondo.

Su tutte queste basi, anche il dialogo tra due discofili è poco più che un eufemismo. Magari si scambiano consigli e indicazioni, ma sempre restando sul generale, perché l’ascoltatore di dischi sa bene che convincere qualcuno della bellezza di un disco è abbastanza inutile, in quanto lui stesso è il primo a diffidare degli altrui consigli: non si può convincere un discofilo ad amare un disco, più di quanto si possa sperare di far innamorare qualcuno di una persona. Anche perché quando lo sventurato risponde, e si compera il disco che gli consigli, se poi lo trova orrendo o semplicemente inutile (caso piuttosto frequente) tu ci perdi la faccia e la reputazione. Che già del loro sono quello che sono. Normalmente la gente trova incomprensibili le ragioni per cui qualcuno si innamora di qualcun altro al punto di perderci la salute e l’equilibrio mentale. E l’innamorato passa da scemo. Questo, per qualche strana ragione, è insostenibile per un discofilo, relegato alla sua solitudine dalla stessa natura della sua passione, per cui preferisce tenersi per sé i suoi amori, e parlarne lo stretto necessario e nel modo più vago che gli riesce. Del resto, prova a toccare a chiunque la sua canzone preferita, e quello sarà pronto a cavarti gli occhi, figuriamoci un discofilo… Logical Song ad esempio è una delle mie canzoni perfette; ha tutto: melodia, tempo, arrangiamento, interpretazione e testo, e in più mi ricorda momenti belli della mia gioventù. È una canzone famosa e amatissima, ma nessuno la apprezza come l’apprezzo io, per cui non provate nemmeno a discutere la cosa.
Se poi consideriamo che parlar di dischi è per i più un argomento interessante quanto i tacchetti delle scarpe da calcio adatti a ciascun tipo di terreno, o le tecniche di allevamento delle rane (ammesso che le rane si allevino, ma suppongo di sì, altrimenti ci si può pensare), ecco che la gamma di argomenti di conversazione con un discofilo è prossima allo zero. Il che fa di lui un solitario per scelta e per necessità.
E lo dimostra questo stesso blog, poco visto, letto ancora meno, e commentato niente del tutto.
Oh beh. Tanto metto su Logical Song e sto a posto.

 
 
 

Strawbs, 'Benedictus'

Post n°16 pubblicato il 07 Settembre 2007 da fattodiniente

(gli Strawbs) 

Che cosa si sente propriamente ascoltando una canzone? Voglio dire, ci sono chitarre, batteria e tutto il resto, ma è chiaro che la cosa non si riduce a questo, oppure dovremmo ammettere che guardando un quadro non vediamo niente altro che tot centimetri di cornice, una certa quantità di colori spalmati secondo un certo criterio, e via discorrendo.
Insomma, quel che si sente in una canzone è in qualche modo qualcosa che sta al di fuori della canzone stessa. Cosa sia questo qualcosa, nove volte su dieci, lo sappiamo solo noi, ed è per questo che una certa canzone ci piace.
Una volta, un tizio che aveva un negozio di dischi commentò in questo modo un disco di Vangelis: ‘si sentono gli uccellini che volano’ (essendo veneto, la frase esatta fu ‘te senti i oselletti che svola’). Interessante notazione estetica. Già uno si chiede perché mai ascoltare della musica per sentire quel che si può sentire aprendo la finestra, ma magari la stagione non è propizia, oppure gli uccellini sono impegnati in altre faccende, o non lo so, e allora ecco che Vangelis torna utile. Poi casomai è una questione di attitudini e inclinazioni personali, e se uno ama gli uccelli (in senso letterale; in senso metaforico meglio altre musiche che quella di Vangelis) quel disco aveva senz’altro un fascino particolare. E sentire gli oselletti che svola in ogni caso è sempre un bel sentire, su questo non si discute. Che poi il suono degli uccellini svolazzanti fosse fisicamente presente nel disco, come effetto ambientale, o fosse un immagine evocata, non saprei dire. Essendo che il soprannome del tizio era ‘Squallido’ (di nome faceva Ivano), sono portato a pensare che la risposta giusta sia la due, ma non si può mai sapere.
La questione è dunque capire come una canzone evoca qualche altro significato. Un’altra volta mi trovavo in un negozio della pedemontana, e un metallaro in divisa d’ordinanza e dal pesante accento montanaro teneva lezione a due suoi compari, di grado evidentemente inferiore; questo tizio magnificava un disco dicendo ‘senti il metallo che urla’. Mi son girato per non ridere, ma ripensandoci vorrei sapere che disco fosse, perché una esperienza estetica così sinceramente mi manca. Che cosa sia il metallo urlante lo sanno tutti (beh, quasi tutti… e se qualcuno non lo sa, meglio per lui), ma sentito al suo meglio, voglio dire… Quei tre magari erano dei sempliciotti (anche senza magari, ok), ma proprio per questo il collegamento diretto tra musica e significati doveva essere piuttosto evidente. E bastava guardarli per intuire in che modo la loro estetica afferisse alla loro etica. Ma non sempre le cose sono così evidenti come nel caso dell’heavy metal.
Molto spesso, la relazione tra suoni (melodie, arrangiamenti, timbriche e tutto il resto) e significati evocati è oggettivamente molto labile; talvolta procede per analogia, che a sua volta è una variabile di ricordi, quindi associazioni, molto personali; altre volte nasce per metafora: e questo dipende dal fatto che procediamo alla razionalizzazione, cioè alla possibilità di comprensione, attraverso una costruzione linguistica. Per cui usiamo lo stesso lessico per la descrizione tanto dei moti dell’animo, quanto per la musica. Il che non vuol dire che percepiamo e apprezziamo la musica e i suoi effetti attraverso le parole, ma che musica e sentimenti hanno la stessa origine, e sono nella loro essenza la stessa cosa. Che si coniuga nel quotidiano, nell’esperienza, negli accidenti, che chiamiamo vita. E ciascuno ha la sua, con quel che ne consegue.
Così, la musica ti carezza l’anima, o le fa il contropelo. E poco altro, anche se coniugato in una quantità di maniere da non riuscire a definirne in modo esatto nemmeno una. Tutto sommato i sentimenti non sono una infinità, pure se assumono una infinità di sfumature e tonalità, anche combinandosi tra loro, allo stesso modo con il quale tre primari, il bianco e il nero, formano una gamma virtualmente infinita di colori diversi, eppur simili tra loro. Sto diventando poetico, cazzo…
Benedictus degli Strawbs è uno degli esempi più tipici tra quelli che mi riguardano. Essendo una delle prime canzoni che ho amato, nel tempo ha assunto un significato direi paradigmatico di uno dei miei stati d’animo preferiti, la contemplazione; e in effetti è una canzone profondamente religiosa. Solo che il mio modo di contemplare è, diciamo, alquanto personale. Per cui a me ricorda il medioevo, o se preferiamo, la campagna francese d’estate, con il vento tra gli alberi e il cielo blu terso. Perfetta epifania della pace interiore. Gli oselletti che svolano però non li sento: non ci sono; devono essere svolati via prima che la canzone iniziasse.

 
 
 

The Doors, 'Raiders on the Storm'

Post n°14 pubblicato il 28 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

Si può acquistare lo stesso disco dodici volte? Certo che si può, io l’ho fatto ad esempio. Di più: quasi la metà dei dischi che possiedo (in tutto circa duemila, neanche uno sproposito) l’ho acquistata più d’una volta. Spesso tre, quattro o cinque volte, e anche di più, appunto.

Sarò malato? No, sono un collezionista. (Che poi le due cose siano una, possiamo discutere: sono un tipo tollerante e anche di ampie vedute, io. Basta che non mi tocchiate i dischi). In effetti, molti di questi album li avevo in vinile, e poi sono passato al cd; sin qui, una cosa normale. Poi magari ne è uscita una versione rimasterizzata, e anche questo magari si può capire. Avere un impianto da dodicimila euro vale certi acquisti. La cosa diventa un problema quando si acquista lo stesso disco per la terza o quarta volta, per avere l’edizione particolare – il vinile originale, l’edizione giapponese, la copertina diversa (!), e altre amenità del genere. E non è tutto. Di un bel po’ di dischi (quasi duecento) ne possiedo più di una copia; in alcuni casi tre, e persino cinque.

Tutto questo sembrerà strano, ma non lo è. C’è gente che si tiene in casa tre cani, o undici gatti; voglio dire, non te ne basta uno? Che ha un gatto che non abbia qualunque altro gatto? È un gatto! E se consideriamo che i gatti mangiano e sporcano, e i dischi no, chi è lo strano allora? Ma ammettiamo pure che i gatti siano belli e facciano compagnia (quantunque cercare la compagnia di un gatto sia già un po’ preoccupante, figuriamoci quattro, cinque o multipli di dozzine…): ma forse che la stessa cosa non si può dire dei dischi? Avere tre edizioni diverse di uno stesso disco è un piacere, e chi obietta che suonano tutti la stessa musica, forse non ha presente che i gatti fanno tutti ‘miao’. Ora io immagino che un gatto non sia solo una cosa che miagola (quantunque trovi proccupante condividere la psicologia di un collezionista di gatti, assai più che l’acquistare più volte lo stesso disco, per dire): ogni gatto ha un pelo e degli occhi suoi particolari. E magari non miagolano nemmeno tutti allo stesso modo (che ci sarà di emozionante in tutto questo, non lo so, ma tant’è). Ma è una cosa che vale molto di più per i dischi.

Di Acquiring the Taste dei Gentle Giant ad esempio ne ho tre copie: la classica in vinile (un lp suona sempre diverso da un cd, e se vuoi sentire come suonava all’epoca non c’è scelta; e poi vuoi mettere il glamour della confezione?), e due edizioni in cd, una giapponese e una tedesca. Quella tedesca suona meglio, ma quella giapponese ha la copertina riprodotta con più cura e precisione; eh beh, nessuno è perfetto, e così me le devo tenere tutte e tre.

E poi è una idea ben strana che si prenda un cd per ascoltare la musica. Cioè, prendere un cd e ascoltarlo, ci può stare. Ma se non ci metti la copertina, le illustrazioni, l’etichetta, che ti resta? Le persone che amano la musica lirica, ad esempio, vanno all’opera. Per sentire l’esibizione dal vivo? Non solo: dubito accetterebbero di sentirla con una tenda nera che copre il palcoscenico. Da questo punto di vista è molto più strana la gente che si mette in casa un quadro o una stampa, dal momento che non è che ci si possa mettere davanti aspettandosi che suoni. Per cui un disco è sempre meglio di un quadro. E se consideriamo che Cézanne, per dirne uno, ha dipinto una ventina di volte lo stesso quadro… E che dire di Picasso? Visto uno, visti tutti. E se poi vogliamo parlare delle poesie di Salinas, o dei libri di Camilleri… E poi lo strano sono io.

Certo, questa faccenda delle edizioni diverse pone i suoi problemi. Mi è capitato tre o quattro volte di dover telefonare a casa per sapere se avevo una certa edizione di un disco dei Queen o di Elvis Presley. Le ironie si sono sprecate. E mi è anche capitato di comperare lo stesso disco tre volte (I Sing the Body Electric dei Weather Report) e non ascoltarlo nemmeno una, ma dipende dal fatto che è un disco francamente inascoltabile. Immagino bene che i più non distinguerebbero una edizione dall’altra – almeno all’ascolto, spero che almeno nell’artwork apprezzino le differenze – ma è un problema dei più, certo non mio, che le differenze le sento eccome; su questo almeno saremo tutti d’accordo.

L.A.Woman dei Doors è solo l’ultimo della serie dei dischi acquistati più di una volta, giusto stamattina, e ne è anche un esempio perfetto. È un disco che mi piace a metà, nel senso che alcuni brani sono fantastici – Raiders on the Storm ovviamente su tutti – e altri sono piuttosto anonimi. Ma ha una cover molto bella ed elaborata, con l’immagine dei musicisti su pellicola trasparente. Il tutto vale l’acquisto del cd giapponese, per la copertina riprodotta con la solita cura, ed il suono migliorato. E per stavolta, potrò vendere l’edizione precedente.
Così risulterò strano solo a metà.


 
 
 

Talking Heads, '(Nothing But) Flowers'

Post n°13 pubblicato il 26 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

È sin troppo facile esaltare le qualità di un musicista che ci piace, come del resto accade anche per uno scrittore, un regista, un pittore, o qualunque altro artista che entri in sintonia con la nostra sensibilità. Nel caso di un musicista è decisamente frequente, perciò anche molto facile.
Così non ho difficoltà a parlar molto bene di numerosi artisti; sto però molto attento a non usare mai la parola ‘genio’ per descriverli. Un po’ è perché l’esperienza mi ha reso molto prudente al riguardo, ed è un termine troppo inflazionato perché sia poi vero; tutti questi geni, voglio dire… Soprattutto perché così evito che qualcuno salti su un giorno a farmi secco alla maniera di Woody Allen in Manhattan: ‘Beh, lui era un genio ed Helen è un genio e Dennis è un genio. Ma sai che conosci un mucchio di geni? Ehi, dovresti incontrarti con un po’ di persone stupide ogni tanto. Non si sa mai, potresti sempre imparare qualcosa.’ Il che tra l’altro è vero. Comunque io penso che la maggior parte dei musicisti (e molti altri artisti) siano soltanto dei cretini di talento. Joe Jackson, ad esempio, credo sia senz’altro uno di costoro. Gente da ammirare, questo senza dubbio, ma da qui ad eleggerli modelli di perfezione, o altro, ce ne corre.
Poi, sono abbastanza cresciuto per avere a modello di comportamento o di opinioni un musicista; c’è un tempo per ogni cosa, e passato il giro dei trent’anni (ma anche prima) non si dovrebbe indugiare in queste cose.
È altrettanto ovvio però che anche io ammiro qualcuno in modo particolare – sempre parlando di musicisti – e mi fermo a riflettere sul loro lavoro, su ciò che dicono. Direi che sono almeno tre; il che non vuol dire che li qualifichi come geni (termine che per la verità viene spesso associato a turno a tutti costoro): uno è Frank Zappa, un altro è Daevid Allen dei Gong, e il terzo è David Byrne dei Talking Heads.
Dal punto di vista intellettuale, è quest’ultimo che mi affascina in modo particolare, e che posso senz’altro dire abbia un certo peso nel mio modo di vedere le cose. O meglio, che dia una certa forma ad esso. Ora, tutti e tre hanno in comune un bel gusto per il paradosso, per la visione obliqua delle cose, con una certa dose di ironia (ciascuno a suo modo, più o meno diretto – Byrne – o aggressivo – Zappa – o divertito – Allen). Dei tre, Byrne è il più filosofo, e non ci voleva molto a immaginarlo: vagamente isterico, eppur lucidissimo; sarcastico senza aver l’aria di esserlo; profondo nel senso che sa cogliere prima di tutto il significato della superficie. Squaderna gli oggetti e i sensi della vita quotidiana, li pone sul tavolo operatorio e li studia nella loro oggettività, esattamente come faceva Michel Foucault ad esempio. La cosa che mi piace di lui (e che mi piace pensare di me stesso, ammettiamolo) è il suo non esser moralista: non pretende di insegnare agli altri a vivere, non ha messaggi da divulgare, ed è decisamente tollerante; si limita a mostrare, con un procedimento del tutto fenomenologico, la relatività assoluta dei significati, e la valenza metafisica che del tutto arbitrariamente noi assegniamo ad essi. È un antimetafisico per eccellenza, in sostanza, il che non lo rende particolarmente simpatico, e anzi dà l’idea piuttosto del poderoso rompicoglioni; un atteggiamento che direi di conoscere bene, beh… Se poi le persone non capiscono, direi che è un problema del tutto loro: il dito è senz’altro più guardato della luna, questo almeno è un fatto.
Metti questa canzone: canta il rimpianto per la civiltà perduta per far spazio al ritorno della natura. La bellezza di una fabbrica perduta per montagne e fiumi, di strade e automobili sacrificate all’agricoltura: ‘se questo è il paradiso, vorrei una falciatrice’. Dissacrante, anticonformista? Può essere, ciascuno può farsi la sua idea. Per me, vale anche per Byrne quel che Daevid Allen ha detto parlando del suo gruppo e della sua filosofia, il Pianeta Gong: ‘qualunque cosa Gong significhi per te, può significare il suo esatto opposto per chiunque altro’.
Il fatto è che non si tratta di spiegare, ne abbiam anche troppe di spiegazioni, ma di far vedere. Cosa? qualunque cosa, non ha importanza: la ricchezza e la varietà del mondo, e semmai il fatto che il modo in cui accostiamo significati e creiamo strutture è del tutto nostro, e non sta nelle cose stesse. Un mondo umano, troppo umano per citare un tedesco che se ne intendeva; e il farsi della Verità, che è la Verità stessa, come direbbe quell’altro tedesco che gli è andato dietro. O se vogliamo citare Musil, il fatto che nel mentre Dio ha fatto il mondo, avrebbe potuto benissimo farlo diverso.
E tuttavia c’è una grandissima pietas in questo atteggiamento, perché nel momento in cui si riconosce la aleatorietà e la superficialità del mondo, si riconosce che è il nostro mondo, ed è ciò che ci permette di essere come uomini, prima e al di là di tutto. Un atteggiamento che ti obbliga a pensare, sino ad arrivare alla domanda capitale: ‘che significa pensare?’, per scoprire che no, non lo sappiamo veramente. Per cui è preferibile essere stupidamente intelligenti che intelligentemente stupidi: il che significa innanzitutto amare il mondo, per il semplice fatto che è, molto più che il pretendere di cambiarlo.
Tutte cose che non rendono simpatici. Ma è dei geni il non esser compresi.

 
 
 

Van Morrison, 'On Hyndford Street'

Post n°11 pubblicato il 23 Agosto 2007 da fattodiniente

Uno degli usi più comuni che si fa delle canzoni è legato al ricordare; ciascuno ha le sue canzoni, che lo riportano a momenti, circostanze, persone e situazioni particolari della sua vita. Niente di strano, e non è neanche il caso di stare a cercar di capire il perché di questo fatto: ha lo stesso senso del chiedersi perché esistono le cartoline. Che poi è il discorso della madeleines di Proust, capirai l’originalità.
Ascoltando quantità industriali di musica, ho naturalmente anche io le mie cartoline; una bella collezione di cartoline, direi. Anzi, tutte ovviamente no, ma una buona parte delle canzoni mi rimanda ad un qualche momento. In effetti, nel mio caso magari funziona un po’ diversamente, nel senso che mi piace riascoltare le cose perché mi rimandano, mi richiamano, mi riportano a qualcosa. Siamo fatti anche delle nostre storie, e lascio ad esse il compito di raccontare le mie. E spesso, ascolto le canzoni proprio con questo scopo; la qual cosa è una concezione circolare del tempo: il desiderio di ritornare dove sono stato, ancora ed ancora.
E questo è l’aspetto davvero interessante di tutta questa faccenda. Il tempo magari non ritorna, e sicuramente non smette di passare (mia personale scoperta in tempi recenti), ma ascoltare storie lo obbliga a ritornare. Il che è probabilmente il segreto della memoria, come il mio amato Sant’Agostino sapeva bene (il che me lo rende caro. Una volta una persona mi disse che scrivevo come lui, e se uso l’imperfetto è perché ero nel mio periodo blu. A pensarci è la seconda cosa che abbiamo in comune; l’altra è il fatto che anche lui ha fornicato in gioventù e poi ha smesso, per iniziare a scrivere. Solo che lui l’ha fatto per scelta, io invece scrivo essenzialmente per la ragione opposta, cioè causa mancanza di sesso a fini non riproduttivi. Ma è questa un’altra storia).
Di nuovo, però, non è della memoria che mi interessa parlare; quel che mi interessa è la quieta serenità che mi danno le storie raccontate dalle canzoni. Non ho rimpianti, almeno nel senso che vorrei che le cose fossero andate diversamente, e questa è una bella cosa immagino. Semmai il desiderio di vivere ancora quel che ho vissuto, per come è stato, e immagino che essere in pace con Dio consista di questo. O forse ricordo ciò che voglio ricordare. Nostalgia, in sostanza, la malattia del ritorno. Una affezione, per esser più precisi, e infatti siamo affezionati ai nostri ricordi.
E c'è anche il fatto che ascoltar sempre le stesse storie è consolatorio, e rassicurante: continuiamo a ricordare, e ad ascoltare le stesse canzoni, per la stessa ragione per cui i bambini amano sentire sempre la stessa favola
È di ciò che parla questa canzone, e Van Morrison ne parla proprio, visto che recita il testo: una descrizione delle sue serate adolescenziali, ad ascoltare e sognare i suoi cantanti preferiti a Radio Lussemburgo. E tutti i momenti delle sue giornate da giovane, con la colonna sonora di ‘jazz and blues records during the day’
Già, capisco che intende, e perché lo racconta, e perché continua a ricordarlo. Ne parla perché è la sua vita, semplicemente, e la sua vita, la nostra vita, è questa, e non si può far altro, “e nella quiete noi sprofondiamo in silenzio nel sonno riposante, e continuiamo a sognare in Dio”.

 
 
 

Steve Hillage, 'Om Nama Shivaya'

Post n°10 pubblicato il 21 Agosto 2007 da fattodiniente

Questa canzone è un mantra indiano; una canzone religiosa quindi. Ma in una interpretazione rispetto all’originale molto sui generis, con quel misto di piglio rock, humor britannico e libertà creativa che ci si deve aspettare da uno che ha fatto parte del Pianeta Gong, suonando la sperm guitar (!) tra teiere volanti, pixies dalla testa a forma di vaso, mantra dedicati ai lavabo per signora, e tutto il resto.
Il che non vuol dire che questa di Hillage sia una interpretazione dissacrante, tutt’altro: solo che trasforma un canto di sottomissione (‘om nama shivaya’ significa pressappoco ‘mi prostro ai piedi del signore Shiva’) in un canto di libera felicità. Ed è per questo che ho detto che si tratta di una canzone religiosa e non del canto di una religione. Non è la stessa cosa. Tra la religiosità e la religione organizzata passa la stessa differenza che corre tra uno sportivo e un tifoso: il primo apprezza la bellezza dello spettacolo, l’altro si identifica in una parte ritenendola superiore alle altre, cercando di convincere gli altri di questa superiorità e magari cercando di imporla se gli riesce.
Che si possa essere le due cose, non è escluso: io, ad esempio, sono tifoso e sportivo, ma sono anche abbastanza onesto dal riconoscere che identificarsi in una parte falsa la prospettiva, e porta a vedere le cose in una luce piuttosto particolare e assai poco universale. Posso essere d’accordo sul fatto che assistere ad una partita senza tifare sia una cosa con poco sugo, ma c’è poco da fare: tifare vuol dire cercare di far andare le cose secondo i propri desideri; lo sport del resto è nato per divertire gli dèi, i quali da parte loro favorivano i propri beniamini arrivando a danneggiare gli altri con modi e metodi che Moggi nemmeno se li sogna. È così che son diventato non credente, che è una cosa molto diversa dall’esser ateo.
Che poi è la stessa ragione per cui diffido dei credenti, tutti, di ogni credo religione, quelle laiche comprese, né più né meno di quanto diffido di uno juventino. Perché so che prima o poi il modo di vita di un credente tenderà a farsi, da regola di vita individuale, regola universale. Ora, se uno vuole inchinarsi tutti i giorni verso la Mecca, o recarsi tutte le feste comandate in Chiesa, personalmente non ho niente in contrario. La libertà – nello specifico religiosa – consiste anche di questo. Però l’esperienza insegna che presi in gruppo, nella loro totalità, i fedeli sono una cosa un po’ diversa, e come avviene nelle curve degli stadi, essi tendono a voler imporre la loro legge anche al di fuori degli spazi deputati, e farla diventare legge tout court, in nome di superiori ideali. I loro. E questo mi garba assai meno, da qualunque parte provenga. In Italia, ad esempio, i cattolici non ci fanno mancare nulla; con gli islamici ci stiamo attrezzando, accoglienti come siamo…
I fedeli poi, come i tifosi, oltre che potenzialmente aggressivi (e una minoranza di decisamente aggressivi c’è sempre), sono anche tendenzialmente noiosi, e spesso banali. Lo stesso discorso vale anche per la musica religiosa; il Divino cantato dalla Mahavishnu Orchestra è molto più interessante de Signore sei tu il mio pastore… Ok, esagero… dopotutto il gospel è una gioia all’ascolto, anche se ho la quasi certezza che esso canti ben di più che delle lodi al Signore. Ma allora la questione va rovesciata: quando una canzone riesce a cantare il sentimento del Divino va sempre oltre a qualunque intendimento laudatorio iniziale. E diventa buona musica. Che è esattamente quel che si può dire di qualunque opera artistica, di qualunque discorso e infine di qualunque atteggiamento.

 
 
 

Todd Rundgren, 'Torch Song'

Post n°9 pubblicato il 20 Agosto 2007 da fattodiniente

I Veda suddividevano la giornata in otto Praharas di tre ore, per ciascuno dei quali esistevano delle melodie appropriate, che non potevano essere suonate in momenti diversi.
Questa idea della musica adatta ad ogni momento del giorno mi ha sempre affascinato, e convinto. Ora, quel che io ascolto non è Ghandharva Veda, tuttavia che anche io abbia delle musiche per il mattino, altre per il pomeriggio e altre ancora per la sera, è un fatto. Una faccenda di mood, per risolverla all’occidentale, sicuramente. E chiaramente, non sono abbastanza mistico da voler spiegare la cosa con i ritmi naturali, l’armonia, il corpo umano come specchio dell’Universo, e via discorrendo: c’è abbastanza pattume new age in giro, senza che ci aggiunga del mio. Che poi ci siano dei dischi notturni è una cosa tanto ovvia da esser persino banale, e in generale mi piaccion tutti; e se non son notturni, alcuni nel caso ce li faccio diventare io. Kind of Blue di Miles Davis, ad esempio, è il più gettonato tra questi in questo periodo della mia vita.
Più difficile è senz’altro trovare dei dischi per la mattina: dipenderà dal modo di vita occidentale, credo, anche se probabilmente è più comune di quanto io creda avere dei dischi che si accordano al momento. Ma credo anche che dipenda molto da particolari circostanze personali; insomma, ciascuno associa al mattino qualcosa per qualche sua vicenda, o per qualche altro suo motivo. Io, ad esempio, trovo che Hergest Ridge di Mike Oldfield sia ideale per l’ora immediatamente prima del mezzogiorno, ma non morirò per difendere questa convinzione.
È però un fatto che tra le indicazioni che talvolta accompagnano un disco (‘Play Loud’, o ‘Parental Advisory: Explicit Lyrics’) non ne ho mai visto una del genere ‘Da suonare tra le 4 e le 4 e mezza del pomeriggio’. L’unica eccezione, ovviamente, è il disco da cui ho imparato la cosa dei Praharas, Tales from Topographic Oceans degli Yes, che anzi è esplicitamente un’opera così concepita. Peccato che tra le migliaia di commenti che ho sentito in tanti anni su quel disco (i più comuni: ‘noioso’, ‘prolisso’, ‘troppo lungo’), non ci sia mai stato mezzo accenno al suo significato. Ma non posso biasimare la cosa, visto che le centinaia di volte che l’ho ascoltato, me ne sono sempre allegramente impippato delle istruzioni per l’uso: è un disco bello a tutte le ore, e buonanotte ai Veda. Il che rende probabilmente giustizia ai suoi innumerevoli critici negativi, che il Signore li abbia in gloria tutti.
Torch Song di Todd Rundgren è la più perfetta canzone del mattino – diciamo tra le sette e mezza e le otto, ma quando non devo andare al lavoro e ho tempo per mettermi in armonia col Creato; sarà per l’arrangiamento rarefatto, per la melodia lenta ed ariosa, per il cantato partecipato; non lo so.
Non è che con questo tutte le mattine che Iddio manda in Terra e che non ho un cazzo da fare, io ascolti questa canzone. Nel giro di tre giorni manderei a quel paese Todd Rundgren, e la sua fissa di mettermi in pace con l’Universo. La gente è strana, nessun dubbio, ma IO non sono così strano. (Oddio… per qualche tempo ho santificato tutte le domeniche ascoltando a mezza mattina How Great Thou Art o His Hand In Mine di Elvis Presley, cioè i suoi dischi di canti religiosi… il che è già bizzarro di suo, ma se contiamo poi il fatto che io non sono nemmeno credente, allora andiamo al di là dell’umana comprensione, suppongo. Anzi, ora che ci penso, ormai da anni suono ogni mattina di Natale The Spirit of Christmas di Ray Charles, anche se a mia parziale scusante gioca la scena di Harry ti presento Sally, con le immagini del Central Park innevato, di cui questo disco è la colonna sonora: e insomma, Natale a Central Park, vuoi mettere?… In ogni caso non è un disco da suonare a Ferragosto, cosa che sarebbe ben più bizzarra, e se non lo suoni a Natale, quando lo suoni? E questo chiude la questione).
Tornando a Todd Rundgren, è abbastanza chiaro che se dovessi incontrarlo non gli racconterò dei significati che ha per me Torch Song: il testo parla di un giuramento di fedeltà eterna, o qualcosa del genere, figuriamoci… Come disse Bob Dylan parlando delle sue canzoni, la gente ci trova tanti di quei significati che nemmeno lui ha idea di come faccia. Dubito che Todd andrebbe più in là di un cortese assenso… magari espresso con uno sguardo fisso e un sorriso prestampato e vagamente preoccupato. Oh beh.

Ciascuno ha i suoi significati, e campa con quelli. Se non altro, questo non fa del male a nessuno. Sempre meglio di chi prende in parola chi canta la bellezza dello spararsi in auto a cento all’ora a fari spenti nella notte, no?

 
 
 

The Who, "Substitute"

Post n°8 pubblicato il 13 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

Non è che io abbia mai avuto un entusiasmo speciale per gli working class heroes, diciamo che al massimo mi son fermato ad una spiccata simpatia nei confronti di qualcuno. Deve dipendere dal fatto che uno aspira, o almeno sogna di diventar qualcos’altro; meglio, di avere qualcos’altro, di più, e allora preferisce scegliersi eroi diciamo più benestanti, anziché qualcuno che gli ricorda ogni due per tre quale sia la sua condizione sociale. Che poi è la ragione per la quale la gente legge i rotocalchi rosa e vota Berlusconi: un atteggiamento che è stato cantato in modo perfetto da Tracy Chapman in Fast Car.
Perché le classi sociali esistono eccome, anche nel tempo della postmodernità, con buona pace dei sociologi che blaterano di fine delle classi, argomentando (apparentemente con buona ragione) che l’immaginario collettivo si è uniformato, e gli stili di vita si sono unificati: le classi meno abbienti fanno scelte di vita, guardano gli spettacoli, fanno le vacanze negli stessi posti, usano il tempo libero, desiderano gli stessi oggetti, arredano la casa, si vestono, insomma fanno le stesse cose delle classi più agiate. Sarà. Voglio dire, tutto questo è certamente vero, ma personalmente riesco a cogliere una certa differenza tra il fare tutte queste cose, e poterle soltanto sognare. Che poi è la storia della mia infanzia. E mi dà fastidio l’atteggiamento per cui i beni materiali rappresentano valori falsi e la felicità sta in altre cose: mi pare una presa per il culo, la beffa oltre il danno.
Gli Who sono quelli che secondo me raccontano meglio di tutti questa rabbia. Da questo punto di vista, mi piacciono per la stessa ragione per cui mi piacciono i film del Free Cinema inglese, con i quali hanno una quantità impressionante di cose fondamentali in comune. L’identità di forma e contenuto per cominciare, quel senso di libertà vera, di creatività, di ironia e umorismo ad alzo zero, che solo chi vede le cose dal basso possiede; quel senso di amaro rispetto per cose che si apprezzano, ma che non si può avere, un mondo cui non si appartiene veramente. Ed è ciò che racconta questa canzone, ad esempio. “Disagio giovanile”, così è stato sempre perlopiù etichettato: ma loro lo cantano anche oggi a sessant’anni, e io che ne ho appena qualcuno di meno, so bene di cosa si tratta. E l’età non c’entra, poco ma sicuro. C’è nelle loro melodie, nei loro ritmi e nei loro arrangiamenti una grandiosità che esprime il senso di un desiderio insoddisfatto, quasi di inadeguatezza, che è il senso di una vita, per chi capisce di cosa parlano.
E poi il ribellismo verso chi pretende di insegnarti a vivere, il rifiuto di ogni padrone, come se uno non fosse capace di capire da sé cosa desidera, e come, e perché. Solo che non può averlo: che c’è da spiegare? Solo a mettere insieme i loro titoli, vien fuori la descrizione di un modo di essere: Non voglio essere ingannato ancora. Ne ho avuto abbastanza. Non posso spiegarlo. Posso vedere per miglia. In ogni modo, in ogni caso, in ogni luogo…
C’è naturalmente una bella differenza tra una canzone e un libro di sociologia, e consiste nel fatto che il libro spiega, e la canzone mostra; io sceglierò sempre una canzone, perché il modo in cui ti fa sentire la musica è unico, ed è solo con la musica che capisci davvero, in modo vissuto, uno stato d’animo un modo di essere. Una canzone ti emoziona come un libro non potrà mai fare.
In questo brano, ad esempio, c’è un fraseggio di basso di una tal eleganza e ricercatezza, che ti eleva e ti fa sentire giusto; che dice che i tuoi sentimenti non sono banali, che desiderare qualcosa è comprenderne il valore, apprezzarne la bellezza e il significato. Substitute parla di inadeguatezza, del desiderio di essere all’altezza; ma al tempo stesso è una rivendicazione del proprio valore, con un senso di orgoglio per quel che si è, delle proprie origini, del proprio modo di essere, e del rifiuto di essere diverso per compiacere qualcuno. E tutto questo è raccontato prima ancora che nel testo, nella forza della melodia, nel tempo serrato e nell’arrangiamento, diretto ma preciso ed elegante.
Quante cose riescono a suscitare tre minuti e venti di canzone... tante quante non basta una vita per farle capire a parole...

 
 
 

The B-52's, "Revolution Earth"

Post n°7 pubblicato il 08 Agosto 2007 da fattodiniente

(ascoltala)

Dal punto di vista dell’etica – chiamiamola così – i B-52’s sono quanto di più lontano dal mio sentire. Infatti, sono animalisti, ecologisti, vegetariani e salcazzo che altre menate; e le loro canzoni trattano di tutti questi temi.
Ma francamente, non mi interessa una pippa: loro sono dei Signori Musicisti, questo è un Signor Disco, e questa in particolare è una Signora Canzone. Se dovessi scegliere o scartare le canzoni da ascoltare in base ai gusti di chi le scrive o le interpreta, la mia vita sarebbe notevolmente più povera.
Non c’è dubbio che la musica sia il mezzo più potente e profondo per suscitare emozioni, da cui discendono idee, convinzioni e deliberazioni, sempre per il solito discorso di Debussy, ma è anche vero che la musica viene prima, e scrivere una canzone per comunicare una idea è un po’ metter il mondo a testa in giù. O se si preferisce, è come spiegare una barzelletta. Ci sono canzoni che ti fanno venir voglia di far qualcosa, ma voler far venir voglia di far qualcosa, voler convincere qualcuno a farlo, scrivendo una canzone non è una cosa che funzioni tanto spesso. Con me, i B-52’s non ci riescono affatto. Il che naturalmente non sminuisce di un etto il loro valore: dopotutto, anche Hitler dipingeva acquarelli, ma non è detto che apprezzarli significhi voler gassare sei milioni di persone più o meno a caso.
La questione è evidentemente quella dei rapporti tra forma e significato: Get Up, Stand Up di Bob Marley, ad esempio, è una canzone che ti fa schizzare dalla sedia e ti impedisce di star fermo anche se non vuoi; basta che lui aggiunga il verso “stand up for your rights” ed ecco che ti ha dato un perché, il gioco è fatto. Tutto sommato, la politica è qualcosa di molto elementare, nel senso proprio che ha a che fare con gli elementi essenziali della vita e dello stare insieme; e la musica, ugualmente, suscita sentimenti primordiali, nel senso di originari; stuzzica la Bestia che è in noi, insomma.
Questo disco ti impedisce di star fermo, nel senso più completo del termine, fisico e mentale: ci sono brani poderosamente ritmici, melodie potenti e altre ariose e suggestive, straordinari giochi vocali (ah, Kate Pierson…!), arrangiamenti lussuosi, ricercati e massicci: Dreamland  ad esempio, ha una melodia eterea, disegnata però da un cantato selvaggio all’unisono sullo stile delle Voci Bulgare, e col ritmo degli Hare Krishna, cimbali compresi, ma segnato da basso stile discoteca e armonie alla Talking Heads; insomma tutto il campionario di cosa può essere il rock: un disco che ti fa muovere e ballare facendoti pensare. Solo che, a dispetto delle intenzioni degli autori, la testa se ne va dove le pare; la musica ti obbliga a pensare nel momento in cui  ti porta da qualche altra parte, e devi esser tu a stabilire dove. Il che mi sembra il più bel complimento che si possa fare ad un’opera artistica.
Revolution Earth è la canzone più bella del disco, e se Madonna ha pensato bene di copiare Kate Pierson, che qui arriva a vertici di suggestione davvero unici, e tutto l’arrangiamento del brano, un perché ci sarà.
E pazienza se il testo parla di ecologia: nessuno è perfetto.

 
 
 

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