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L'orologio e il fucile di plastica giallo

Post n°109 pubblicato il 10 Dicembre 2012 da Larbo

Fù il primo sole che ci fece conoscere.

A quel tempo credevo che gli occhi guardassero senza osservare e che le mani si muovessero alla ricerca della consistenza delle cose....

oggi so che non era così.

L'estate cadeva come un sipario di lucciole esauste sopra il mondo, lasciando sul palco la voce narrante dell'autunno che cantava il suo prologo ed io, unico tra gli spettatori di quella rinnovata commedia, sedevo dinanzi a loro con un fucile di plastica giallo tra le braccia, pantaloni con le bretelle e un vecchio orologio che palpitava ore, forse appartenente a mio padre, trovato in un cassetto di un comodino e abbandonato lì a contare il tempo senza luce.

Magri erano i miei polsi come liscia era la fronte.... ricordo i pomeriggi a fissare tra le dita un filo d'erba che sotto la mia presa diventava di un verde più scuro e gli alberi di fico pieni di frutti, dove le vespe ruotavano attorno come satelliti striati, intente a collaborare col sole, affinchè maturasse quei pianeti di zucchero per poterli abitare. Ricordo le tegole rosse, ruvide al tatto e le lunghe processioni di formiche nere che le attraversavano senza tregua, colonne infinite di legioni romane in miniatura a cui bastava il vento per orientarsi e muso contro muso per darsi il buon giorno mille volte al giorno.

Qualche lucertola più in là gonfiava il corpo di calore piegando la testa di lato al primo nuovo rumore... e forse guardando me, che sedevo in silenzio sull'erba, raccogliendo le gambe tra le braccia quasi a farmi piccolo per non disturbare il loro mondo.

Un albero di mimosa ed un pino abitavano vicini, confondendo alternativamente col vento le loro chiome, quasi come un inchino reciproco, un saluto infinito di due samurai di legno, intenti ad omaggiare ognuno la corazza di legno dell'altro.

Ricordo quei pomeriggi come un'avventura nuova da realizzare e inventavo le mie storie, gesta di eroi sconosciuti con una missione da compiere. Il canto delle cicale era la fanfara che intonava la partenza in battaglia dei cavalieri ed un grillo trombettiere suonava le prime cariche.

Sui muri disponevo vedette di coccinelle per avvistare il nemico, piccole amantidi esperte di arti marziali, rimanevano a guardia della mia avanzata e sotto le foglie cadute dal vento, la mia schiera di uomini talpa travestiti da lombrichi scavava trincee nelle quali rifugiarsi per la ritirata.

Sulle vette, osservava la battaglia un graduato della mia armata, ornato di medaglie arancioni che intonava la carica semplicemente cantando... era il generale pettirosso che godeva del mio rispetto e della mia ammirazione; ad ogni principio di tramonto salutavo il sole,mentre nell'aria le bandiere della vittoria s'innalzavano frenetiche grazie al volo di farfalle arcobaleno.L'indomani avrei arruolato nuovi attori per la battaglia.

L'orologio di mio padre era in realtà la radio trasmittente che mi comunicava le missioni da compiere, ed io ne lucidavo ogni sera il vetro che custodiva le lancette... lancette come aghi di bussola, numeri come contrade dei miei territori, sui quali governava un singolo pettirosso, mentre sul fondo del quadrante, il ritaglio con il giorno del mese era in realtà l'anno di vita di quel mondo fantastico... anno 25 nel regno delle contrade.

C'è un solo modo per difendersi dal ritmo assordante del silenzio..... e lo sanno le antenne delle formiche, che s'intrecciano testa contro testa....lo sapevano il pino e la mimosa che danzavano ad inchini ogni giorno..... lo sapeva il lombrico che distendeva la sua coperta di foglie, scavando la terra umida per sentire sulla schiena il senso della vita.... lo sapeva il generale pettirosso che più di altri lo aveva sconfitto affidandosi al suo petto....e lo sanno i bambini....che lo ricordano meno da ragazzi....e lo dimenticano da adulti.... chiedete ad un bambino... oggi!!!! ed avrete la risposta, magari vi prenderà la mano, portandovi in un luogo per lui segreto, scoprirà coperto da un panno un involucro di vetro, in cui ha chiuso una nuvola e vi dirà che sta aspettando che il giorno risorga, per distendersi nuovamente sul suo prato e poterla liberare. 

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C.P.T.

Lento scorre il tempo, in questo luogo contenuto da sbarre di ferro e viali di cemento. Bordi di grigio, racchiudono un quadro grigio. Timidi fili d’erba cercano di riprodurre una natura stretta in gusci di calce. Qualche tombino quà e la spezza la monotonia del piatto, creando fosse di piombo zigrinato ove si adagia la guazza di un’ennesima notte. Antenne come cipressi robotici si piegano al vento della sera e lampioni dagli steli affusolati, offrono i frutti di una luce fredda, racchiusa in boccioli di plastica e nettare di tungsteno. I cancelli che vedo di pesante imponenza claustrofobia, danzano ripetutamente, basculando negli stetti passi di un binario scollinato, pronti a ballare agli ingressi o alle uscite dei tanti girovaghi. Tetti e ombre, cartelli e tasti esausti di essere pigiati e una macchinetta automatica del caffé che sgorga ritmicamente miscele nere di noia per dissetare gole a volte incapaci di fare altro. Il libero andamento di questo micromondo si dissolve oltre il vetro che mi contiene; un uomo s’avvicina alle acustiche fessure dello scambio umano. Sua moglie lo attende qualche muro e sbarra più in la. Con una busta in mano, percorre i soliti passi nei soliti giorni, portando magari con se in quella busta vestita di bianco, piccole ampolle di aria lontana, da far respirare ingordamente alla sua amata. Siamo qui, come ieri, come domani a guadagnare un posto nell’olimpo dei vigilanti, dei trascrittori di nomi, dei bevitori di cappuccino, dei compositori di numeri, dei pigiatori di tasti, dei culi sprofondati nelle sedie, dei pensatori lontani che volano con la fantasia oltre le fessure equidistanti di un recinto; siamo qui a stretto contatto col nulla a condividere il niente e a sentire il senza. Si potrebbe dire basta a tutto questo, spogliarsi di un’assurda contestualità di sfere che rotolano sempre nello stesso verso e nel medesimo istante liberarsi di una cravatta nera che si slega dal suo calice di stoffa, e ritrovare finalmente il senso delle cose. Nessuna gabbia in fondo ha mai contenuto i pensieri di un sognatore.
 
 
 

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