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L’origine della cucina romana: la ricchezza della povertà


 Quando gli ingredienti scarseggiano e la pancia mugugna, bisogna saper arrangiarsi. Ma questo non significa rinunciare al gusto, né alla fantasia: ecco cosa pensavano i vecchi romani di una volta.
Tramontato l'Impero che aveva dominato il mondo, Roma conobbe un graduale e inarrestabile declino politico, mentre avanzava a grandi passi la sfera religiosa capitolina. Se una volta le ricche matrone potevano permettersi piatti esotici, fatti venire direttamente dalle lontane province assoggettate, ora il popolo doveva accontentarsi degli scarti.Gli scarti dei benestanti. Preti, vescovi e signori divoravano avidamente i migliori quarti di carne, lasciando al popolino il cosiddetto "quinto quarto".Questo però non scoraggiò l'arte culinaria che seppe fiorire anche su premesse non incoraggianti. Cuore, fegato, milza, lingua, cervello e coratella (l'insieme delle interiora ovine) divennero piatti diffusi nei ceti bassi, fino a diventare specialità tipiche romane.Inoltre Roma ha da sempre potuto usufruire dei prodotti dell'Agro e delle zone circostanti, come l'onnipresente olio laziale e i maiali umbri. Legumi e cereali, farinate e polente, passavano sotto le mani sapienti di chi cucinava in casa.Il risultato erano piatti sostanziosi, tutt'altro che leggeri. In prevalenza si trattava di primi, con la pasta che faceva da padrona accompagnata da patate, broccoli e via dicendo. Gli aromi non mancavano: menta romana e lauro. Successivamente veniva servito in tavola il già citato quinto quarto.In occasione delle festività i pastori dell'Agro portavano in città abbacchi e capretti, i quali risaltavano anche sulle tavole dei ricchi, insieme alla carne di piccione e ai fritti in pastella.
La comunità ebraica contribuì poi ad arricchire con nuove pietanze l'elenco dei piatti romani. Come non citare i carciofi alla giudìa, entrati a far parte della tradizione insieme ai rigatoni con la pajata, agli spaghetti alla carbonara, i bucatini all'amatriciana, la coda alla vaccinara e la trippa romana accompagnata da un invitante pecorino.La povertà originaria si trasformò dunque in ricchezza, regalando al palato sfaccettature dal sapore forte, in grado di richiamare la memoria dei secoli passati. Se non ci credete, chiedete ad un romano. Vi risponderà: accosta er pane ar dente che la fame s'arisente.Oggi è ancora possibile gustare la vera cucina romana in non molti locali della capitale, e solitamente si tratta di trattorie gestite a livello familiare in zone di periferia. Conosciute e frequentate più che altro dalla gente del posto.