Dialoghi musicali

LUCIANO PAVAROTTI, UNO, NESSUNO E CENTOMILA


LUCIANO PAVAROTTI, UNO, NESSUNO E CENTOMILA 
Così, tre anni fa, titolai l'articolo seguente che scrissi in morte di Luciano Pavarotti, partecipando in tal modo anche alla polemica che in quei giorni scoppiò tra il critico musicale Paolo Isotta e il regista Franco Zeffirelli.Parlare di Luciano Pavarotti, a pochi giorni dalla sua morte è facile e difficile nello stesso tempo.Facile per chi si unisca al coro encomiastico che si è levato in tutto il mondo e ha fatto da contrappunto all’evento.Difficile per chi voglia guardare con occhio sereno e disincantato l’uomo e l’artista.Paolo Isotta, noto critico musicale ed altrettanto noto per i giudizi poco benevoli, quasi da sempre, pronunciati verso Pavarotti, ha scelto, con estrema coerenza,  la seconda strada, scrivendo un editoriale sul Corriere della Sera del 7 settembre.L’editoriale di Paolo Isotta ha suscitato le ire del regista Franco Zeffirelli, come risulta dall’articolo pubblicato da Il Velino lo stesso 7 settembre.Ora è in atto una querelle che coinvolge musicisti, cantanti, melomani, giornalisti, esperti veri e presunti tali (non mi risulta ancora di politici che abbiano fatto sentire la loro), che si muove su piani che vanno dalla pacatezza discorsiva all’invettiva, all’ingiuria più pesante.La posizione di Paolo Isotta, se non si sia prevenuti nei suoi confronti, è quella del critico, che sa di musica. Vi si colgono tutta l’iniziale ammirazione per il giovane tenore, che Isotta definisce erede di Beniamino Gigli (e non è dire poco) e il riconoscimento di doti mai perdute (che sono quelle che distinguono i grandi tenori dalla massa): timbro, fiati lunghi e sani e (direi per ultima, ma non ultima) «…quella splendida chiarezza di dizione che non l’ha abbandonato mai…».I passaggi iniziali dell’editoriale di Paolo Isotta, quindi, sono un encomio. Leggendo con animo sgombro l’inizio «Vorremmo ricordare il tenore emiliano com’era…», allora, si coglie tutta la portata umana della critica: il dolore di chi si sente deluso, per lo spreco ed il mediocre utilizzo di così tanta ricchezza.Di qui la denuncia di quei difetti e limiti, che, a dire di Paolo Isotta, Luciano Pavarotti mai riconobbe di avere, neppure quando glieli si facevano notare con affetto: l’analfabetismo musicale, la mancanza di senso ritmico (e, quindi, metrico), l’assunzione di ruoli d’opera non proprio adatti o del tutto inadatti alla sua vocalità.Di qui la necessità di avere direttori che fossero tanto esperti nell’affrontare e risolvere incidenti esecutivi di percorso, quanto disposti a non essere rigorosamente attaccati al profilo filologico della partitura.Di qui la critica su certe scelte di Pavarotti, che Isotta lapidariamente definisce di dubbio gusto.L’intervento del regista Franco Zeffirelli ha un profilo nettamente differente. Si muove, in una dimensione emotiva, su piani acritici. Non coglie (o più probabilmente non vuole cogliere) il lato umano, prima ancora che tecnico, della critica di Paolo Isotta. Quindi, da una parte cerca di isolarlo dal resto del mondo giornalistico e della critica musicale, bollando l’articolo, come squalificante e disonorante lo stesso giornalismo e la stessa critica musicale italiana e, poco elegantemente, offendendo Isotta con un epiteto, che qui non ripeto, dall’altra definisce Pavarotti come «…uno dei più grandi geni musicali, un uomo che cantava libero…».Di qui i riferimenti al Maestro Muti, al Teatro Metropolitan di New York e all’allestimento del Don Carlo alla Scala il 7 dicembre del 1992, legati, se vogliamo, al complesso e particolare intreccio di caratteri e personaggi che si muovono nel caleidoscopico mondo del teatro d’opera.Il critico musicale Paolo Isotta fa osservazioni di natura sintattica, grammaticale e lessicale, in una parola, di linguistica musicale e, più specificamente, interpretativa nel canto lirico.Purtroppo, rigore e onestà intellettuali lo portano a non tenere conto del rischio di apparire solo un mero detrattore, nel momento topico, qual è quello della morte, dando spazio a commenti (e non parlo solo di Zeffirelli) che, facendo leva sull’emotività, sminuiscono la lucidità della sua analisi, ponendola in una scomoda posizione, ideologicamente impopolare.Non si può negare che la conoscenza di un sapere è legata a quella degli elementi che lo costituiscono.Il sapere musicale, come tutti i saperi linguistici, si fonda sulla capacità di concettualizzare usando gli oggetti del linguaggio: i fonemi per le lingue parlate, i suoni per la musica.  La concettualizzazione è imprescindibile. La lettura e la scrittura, invece, sono elementi secondari.Questo per dire che, per fare musica non occorre conoscere e praticare il solfeggio (è abbastanza nota nei conservatori e a una certa Direzione del Ministero dell’Università la mia posizione fortemente critica su quella pratica).Per concettualizzare i suoni, non è assolutamente necessario conoscerne la rappresentazione semiografica e coglierne il significato da un tracciato scritto. Ma è assolutamente necessario averne un’immagine mentale, della quale faccia parte integrante anche la durata.Il cantante che canta a memoria con ottimi, se non eccellenti risultati, quindi, non può che riscuotere plauso. Sarebbe, infatti, arbitrario stabilire che ciò che è fatto bene, è tale solo se attuato in determinati modi.Quello che conta è il risultato.Del resto, ancora dopo il primo millennio non essendoci ancora la scrittura musicale, i pueri cantores imparavano a memoria i canti da eseguire (il loro percorso formativo durava un decennio).Cantare a memoria significa aver assimilato il quadro sonoro in tutta la sua morfologia, ossia le sue componenti.Essenziale è la capacità di discriminare le differenti durate (dovendosi rigorosamente intendere per durate sia quelle dei suoni, sia quelle dei silenzi, le pause), ossia di cogliere appieno la dimensione ritmica del tracciato musicale.Mancando la capacità di cogliere il senso ritmico, se c’è aritmia, quindi, sono guai: è come voler rappresentare un oggetto senza saper disegnare. Ogni tentativo sarà una variazione sul tema dello sgorbio.Del resto a Paolo Isotta non sfugge che la disfunzione da lui evidenziata in Pavarotti affligga molti altri cantanti lirici, nei quali si rilevano vocalità straordinarie, ma scarsa educazione ed istruzione musicale. È disfunzione che ho rilevato anch’io nella mia modesta attività di direttore in cantanti anche celebri (con squisite eccezioni).Si deve, quindi, parlare di educazione e istruzione musicale, latitanti in Italia e, spesso, carenti anche in personaggi, cosiddetti culturalmente altolocati, arbitri, dall’alto del loro ruolo istituzionale, di scelte infelici (che producono “luminose carriere": tanto, la comunità nazionale beve qualunque cosa gli venga proposta.Sinceramente, certe uscite di Pavarotti mi hanno causato notevole imbarazzo (lo stesso che ho provato in altra occasione, ascoltando i rimasugli di una voce lirica che, pure, è stata tra le eccellenti, impegnata in un repertorio a lei del tutto inadatto). Alludo alle esibizioni dette “Pavarotti and friends”, dove la fama di Pavarotti mette ancor più in risalto le figure dei “friends”, musicisti eccellenti nei loro generi musicali (vedi Dalla e Bono).È proprio in quelle occasioni che, all’incongruenza, determinata non dalle vocalità differenti, ma dagli stili vocali differenti, a danno del valore estetico dei brani musicali (emblematico è un video in cui Pavarotti “canta” All You Need Is Love), si aggiunge e risulta evidente la aritmicità cui Paolo Isotta fa riferimento.Si tratta in questo, come in altri casi, di scelte che vanno rispettate, ma non da ritenere ingiudicabili. Da ciò che si fa, traspaiono il grado del sapere ed il buon gusto di chi fa. Difficilmente chi ha conoscenza mescola il grano con il loglio in commistioni che nulla hanno a che fare con la contaminazione (intesa nel senso latino del termine).Non convengo neppure con chi afferma che Pavarotti abbia fatto conoscere l’opera lirica italiana nel mondo. Non occorre citare Caruso, poiché la musica lirica italiana nel mondo la hanno fatta, la fanno e la faranno conoscere fior di cantanti anche e, per forza di numeri,  soprattutto stranieri (basta seguire i tanti corsi e concorsi di canto lirico che si tengono in Italia e all’estero per notare quanto la musica del teatro d’opera italiano conti e sia diffusa nel mondo).Si può, invece, affermare che la morte di Luciano Pavarotti ha avuto così tanta eco nel mondo, poiché egli è stato uno degli interpreti più celebrati dell’opera lirica italiana, genere che, fin dalle sue origini, è nelle corde del mondo, tanto che potremmo dire “Monteverdi and friends”, come sa bene chi conosca un tantino di storia della musica.Così come trovo esagerato parlare di Pavarotti  come di un genio musicale. Che lo dica l’uomo della strada, passi pure, ma, se ad affermare che parlando di Pavarotti “Stiamo parlando di uno dei più grandi geni musicali” è il regista Franco Zeffirelli, mi sorprende.Pavarotti e Caruso, Muti e Toscanini, per limitarmi a tenori e direttori, sono interpreti.Possiamo disquisire a lungo per convenire se siano grandi, grandissimi, insuperabili…interpreti.Genio è chi crea e, se vogliamo sottilizzare, filosofeggiando, se chi crea ha natura umana è “qui creat et creatur”, per distinguere da “Qui creat et non creatur” (nella minuscola e nella maiuscola c’è tutto il senso del principio).Diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.Non è corretto continuare a parlare di Aida, Norma, Tosca, Messa di Requiem, Sinfonia di… e segue il cognome di un direttore o un cantante, ossia dell’interprete, omettendo di citare l’autore, ossia chi ha ideato, composto e scritto l’opera, il genio creativo appunto.Una volta che saranno cessati i clamori levatisi alla sua morte, allora sarà possibile rivedere, temperare, pronunciare giudizi più sereni ed equanimi su Luciano Pavarotti.Allora, forse, si dirà che, comunque e quantunque, quando, su piani estetici a lui più consoni, egli ha potuto e voluto collaborare con pregevoli direttori e musicisti, realmente all'altezza della loro fama, i risultati sono stati altrettanto pregevoli.Allora, forse, si riconoscerà che, come uno Stradivario affidato ad un grande violinista dà suoni dalla bellezza impareggiabile, così quella che (a cominciare da Isotta) è stata definita come “una tra le più belle voci del secolo” ha firmato, con esecuzioni-interpretazioni memorabili, alcune delle più belle pagine di musica mai scritte. Un merito, questo, che si deve riconoscere a Luciano Pavarotti.Allora, forse, si guarderà solo quello che, a prescindere dalle metodologie utilizzate, ha fatto di buono: il cantante d’opera.“Ricordatemi come cantante d’opera”, è stato il desiderio che Luciano Pavarotti ha espresso negli ultimi giorni della sua vita terrena.Così sarà giusto ricordarlo: Luciano Pavarotti cantante d’opera.Nell'ultima frase del mio articolo omisi di scrivere l'aggettivo "grande": in quell'occasione feci di tutto per mantenere una posizione di imparzialità e, nel farlo, penso di essere stato parziale.Luciano Pavarotti è stato un grande, grandissimo cantante d'opera. Forse il più grande di tutti i tempi. La sua voce, di una pura bellezza incomparabile, si riconosce subito.Provate ad ascoltare le sue interpretazioni del Duca di Mantova nel Rigoletto e, siccome tutti sappiamo distinguere una Ferrari da una Fiat Panda, comprenderete il clamore che si sta facendo in questi giorni disquisendo su ben altro Rigoletto.Uno dei miei più grandi rimpianti?Non averlo potuto dirigere nel Requiem di Verdi.