Non sono 1 scrittore

Narrazione di avvenimenti anche accaduti

Creato da THOalex il 15/05/2010

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FATTI ATTORNO AD UN ASCENSORE - NONO: "Sono cinquanta, amico"

Post n°9 pubblicato il 12 Settembre 2016 da THOalex
 

Il ciccione del sedicesimo piano aveva chiamato la polizia. Ancora quel condominio? Che due coglioni Cristo Dio. Aveva pensato il ciccione che i poliziotti avessero pensato. Dopottuto: la tipa suicida, lo scrittore, l'attore pazzo che stermina la famiglia e ammazza, appunto, lo scrittore. Poi chi ancora.. ah giusto, quello che si era buttato dall'attico (che non si era ancora capito se si era trattato di suicidio o di un incidente .. ). Per non parlare del camionista che mi era venuto addosso ... che posto di merda stava pensando il ciccione.
Siamo tutti condannati. L'esistenza è una realtà, che definiamo noi tale, circolare e manovrata dal fato. Se non sono io a completare il cerchio lo farà qualcun altro. Un interscambio di azioni, fatti, parole. Chi inizia, non finisce, chi finisce, non ha mai finito, tutto ricomincia, tutto riparte da capo e da un punto, lo stesso, o da altro punto a caso; ogni azione è un cerchio infinito e si inspessisce su se stesso o si evolve in una spirale crescente o decrescente. Pensava il ciccione.

Sembravano parte degli effetti sonori del videogioco al quale era solito giocare da tempo immemore, ingollando birra; l'impossibilità che fossero quelli venne compresa quando smise per un attimo di giocare ma gli effetti sonori stavano continuando. E non erano effetti sonori. Il ciccione del sedicesimo aveva udito i rumori delle percosse e le urla di coloro che furono trovati o morti o agonizzanti. Ancora schiavo del suo essere pavido, non si era mosso dalla sedia e con il cellulare aveva chiamato la polizia, una volante era fortunatamente da quelle parti e gli agenti avevano raggiunto il piano e l'appartamento da dove provenivano i rumori e le urla.
Non erano proprio amici, ma si erano scambiati poche parole in alcuni momenti di alcune giornate trascorse e al ciccione dispiaceva che lo scrittore fosse stato ammazzato. Il buon padre di famiglia autore di quella che fu definita una strage della follia, era colui che lo scrittore soleva definire l'attore. L'attore fallito per la precisione. Lo scrittore aveva confidato al ciccione che spesso doveva inventarsi degli stratagemmi per evitare di incontrare quella persona la quale si era assurdamente convinta che egli sarebbe stato in grado di fargli ottenere una parte in un qualche spettacolo. Ma lo scrittore era solo uno scrittore di romanzi brevi e racconti, non uno sceneggiatore di teatro. Ma l'attore era folle e i fatti di quel giorno l'avevano dimostrato tragicamente.
Mentre i paramedici portavano via l'attore, in quanto ferito da due proiettili, egli gemeva in lacrime, invocava lo spirito della tragedia, chiedeva del suo pubblico e del teatro, farneticava di spirali prosaiche, dell'importanza del protagonismo e della gloria, piangeva e gridava finchè l'anestetico non lo mise a tacere.

Ecco che il ciccione si era messo a pensare come non faceva da tempo. Pensava alle farneticazioni dell'attore. Pensava alla concatenazione di eventi che l'avevano portato ad essere l'unico abitante del sedicesimo piano. Ora che lo scrittore era morto, che l'attore avrebbe passato il resto della sua vita in carcere e che l'unica sopravvissuta, la figlia bambina, sarebbe stata affidata a qualcuno o, intanto, ad un qualche centro (mi sa che non stava mica tanto bene psicologicamente) e che quella ragazza si era impiccata, il sedicesimo piano era vuoto tranne che per la sua presenza.
Pensava, con fatica perché una parte di volontà lo spingeva a non farlo, che ci faccio ancora qui? Ho anche vinto quella lotteria. Che ci faccio ancora qui? Quand'è, nel mio passato, che ho deciso di annullare un'esistenza viva per un'esistenza stagnante, fredda, nebulosa, consuetudinaria, inutile? Un giorno aveva creduto ancora possibile costruire un rapporto umano con un amico. Ma lo scrittore era morto. Aveva anche letto (aveva letto!) uno dei suoi racconti. Lo scirttore si era ispirato al suicidio del commesso viaggiatore per costruire la storia di un fantomatico mondo senza acqua. Ci aveva messo un finale provvisorio, goliardico, mentre cercava di costruire il resto dell'intreccio, così tanto perchè potesse avere da leggere qualcosa di completo anche se in realtà non lo era. E il ciccione si era divertito. Mentre leggeva aveva pensato che avrebbe potuto incontrarsi con lo scrittore, bere qualcosa assieme, parlare del racconto, disquisire varie ipotesi su come costruire tutto il libro. E invece niente. Gli eventi si erano mossi in modo da togliergli anche quello. Poteva essere l'ottima scusa per lasciarsi andare, tornare alle vecchie abitudini, spendere tutto in birra e porcherie, tornare ad essere un ciccione di merda, affanculo.
E difatti era quello che stava già facendo, giocava e beveva quando aveva sentito le urla.
Il ciccione pensava e realizzò che la tragedia di quel giorno rappresentava una scelta. Riabbracciare il passato o costruire un futuro nuovo. Quella tragedia aveva creato un riferimento circolare e lui aveva la chiave per saltare fuori dal cerchio o farsi inghiottire.
In bilico tra il fare e il non fare il ciccione del sedicesimo piano, immerso nella spirale dei suoi pensieri, non si era accorto che aveva preso il denaro, alcuni vestiti, pochi effetti personali, era sceso per le scale evitando l'ascensore, era salito in macchina ed era partito.
"Sono cinquanta amico"
Come quando la nebbia si dirada, gli occhi dell'ex ciccione (non sei più ciccione da un po' renditene conto!) furono abbagliati dalle luci della realtà, le luci del tardo pomeriggio, le luci di un futuro che sarebbe stato. Non capì se furono date dall'abbaglio o dalla commozione della perdita o da quella dell'incertezza, ma le due lacrime che scorsero sulle sue gote lo fecero sorridere stupidamente. La dolce stupidità di un ritrovato spirito adolescenzilale.
Porse il denaro al benzinaio. "Dove va di bello?"
L'ex ciccione ripartì, anzi partì e se ne andò. Finalmente.

THOalex

 
 
 

FATTI ATTORNO AD UN ASCENSORE - OTTAVO: Quadrare i conti - ignorare è meglio che dissimulare.

Post n°8 pubblicato il 14 Agosto 2016 da THOalex
 

Quella mezza bottiglia, differentemente dal solito, mi aveva steso. 

Uscii barcollando dall'appartemento, ne uscii in moto circolare come solo un cervello ebbro può farti credere. Il male che sentivo dentro non era dato tanto dall'alcool, anche se si deve ammettere che certamente esso giocava bene il suo ruolo. Ruolo che avrebbe giocato perfettamente se fossi un novellino della gran bevuta, ma non era il mio caso. Il suo ruolo era coadiuvato quella sera dal disagio, dalla repulsione, dal disgusto, dal ribrezzo. Il tutto ben agevolato dall'indignazione, dallo sprezzo, dallo schifo. Ad ulteriore supporto, lo sdegno, l'irritazione, la rabbia verso me stesso, perché avevo ceduto e ancora la rabbia e il risentimento per essere stato ingannato, gabbato, turlupinato. Impossibile m'era capacitarmi di come avessi potuto cedere. Non avrei potuto, una volta colto sul fatto, figurarmi una scusa? Rifiutare con una banalissima giustificazione anche poco credibile, chissenefrega? Lo sapevi, no?, che sarebbe andata così. Pensavi che l'esperienza sarebbe stata illuminante, profonda, una rivelazione? Puah!

Il corridoio che mi si poneva di fronte era tutto fuor che dritto. Le lampade a parete poste l'una alla stessa distanza dall'altra erano sparse ovunque, dal soffitto, al pavimento; le assi a terra erano sulle finestre, le finestre erano curve, le curve erano dritte, il dritto era sottosopra ed io ero a testa in giù seduto sul soffitto a gambe all'aria. Aria, mi manca l'aria, mi sento avvampare, getto da qualche parte la giacca, mi si incrociano gli occhi, sudo e tremo. Ed è pura rabbia, ira. Come aveva potuto mostrarmi quel siparietto di pseudo teatro iperrealista. Come solo aveva potuto definirlo tale?? Lui che chiama moglie e figli e parte con un'invettiva, recitata con la merda in bocca, simulando un litigio familiare, lo sfogo insensato di un padre, il deliro di un capo famiglia, ma che roba era? Che lurido pezzo di merda. Con la scusa di un drink mi pone innanzi agli occhi, di forza e senza preavviso, quello spettacolino. Ma cosa pensava di ottenere, un ingaggio? Idiota!
Ero a metà corridoio, cercando di rientrare nel mio appartamento e tornai indietro. Arrivai di fronte alla porta del pezzo di merda e con sforzo liberatorio vomitai tutto sul tappettino. La mezza bottiglia bevuta spinta fuori dallo stomaco, su per l'esofago, fuori dalla bocca, assieme ai resti di un pranzo mal digerito.
Suono il campanello. Ed un attimo dopo si apre la porta. Ecco qua cosa ne penso della tua performance del cazzo idiota del cazzo, e non invitarmi mai più nel tuo appartamento del cazzo con la tua famiglia del cazzo e la tua merdosa faccia da cazzo. Fai schifo! Tu, tua moglie amorfa, i tuoi fottuti aborti, la tua aura di vomito, che ti ho appena fisicamente rappresentato sul tuo tappettino "welcome" del cazzo, le tue smanie da attore di teatro della merda. Fottiti. Non cercarmi mai più, non guardarmi neanche in faccia e pulisci questo schifo. Fai schifo. Merda!

Il giorno seguente stavo ottimamente. Ero addirittura sceso al bar a consumare una colazione all'italiana. Il bar del condominio. Mentre stavo li a sorseggiare il mio caffè mi si era approcciato il ciccione del sedicesimo piano (beh l'ex ciccione - e chissà perché lo chiamavo "del sedicesimo piano" dato che quel piano era anche il mio... boh).
"Tu sei lo scrittore, vero?" mi fa, arrivandomi alle spalle "Ho sentito le tue urla scagliate contro il tipo dell'appartamento in fondo al corridoio. Posso chiederti, se non è troppo, cos'è accaduto?"
L'ex ciccione mi stava simpatico, era un cazzone di prima categoria, se penso che aveva vinto quella lotteria del supermarket e, nonostante ciò, rimaneva ancora qua in questo posto del cazzo. Incidente, riabilitazione, forma fisica ripresa, soldi e, niente, ancora qua sta. Che cazzone! Doveva essere dotato di una saggezza che mi sfuggiva.
Allora gli racconto di come quell'idiota, dopo vari tentativi, fosse riuscito ad invitarmi a casa propria per offrirmi qualcosa da bere eccetera e che alla fine voleva solo mostrarmi le sue orribili doti di attore.
"Ma ieri sera dopo che gli hai sboccato sul tappeto dove sei stato?"
"A letto in semi coma a smaltire la sbornia, mi sono alzato poco fa. Comunque gli avevo sboccatto sul tappettino d'ingresso..."
"Sul tappetto!... Lo sai che molesta i figli e picchia la moglie?"
Lo guardo incredulo.
"Che?? Ma non era una messa in scena improvvisata sperando di ottenere da me un qualche ingaggio?"
"Amico, sei fuori di testa, ahahah. Ti ricordi quella volta che m'incontrasti mentre cercavo di uscire dal mio appartamento, quando ancora ero un mega ciccione? Ricordi quello che ti dissi?"
"Certo che sì, mi dissi: Prima è una difficoltà mentale, poi diventa fisica, e quando è fisica, amico mio, levarsi dall'incastro è molto più difficile di quanto ti fossi immaginato nonostante lo studio. Alla fine serve solo un colpo di fortuna. Ma quasi mai capita agli audaci."
"Te lo ricordi bene, eppure non sei riuscito a levarti dall'incastro."
"Non ho avuto il colpo di fortuna..."
"Esattamente. Infatti non hai smaltito la sbornia a casa tua, nel tuo appartamento."
"Sono... sono ancora là vero? Sono ancora incastrato in quella situazione..."
"Esattamente, il teatrino non è finito. Svagliati!"

Mi aveva preso per i capelli e sbattuto faccia a terra. "Svegliati!" L'attore pazzo era sopra di me in piedi, mi aveva scaraventato al suolo vicino al corpo straziato della moglie. La figlia era nuda e piangente a pochi passi da me. Il figlio non riuscivo a vederlo, era fuori campo. Avvertivo il puzzo del mio vomito sul tappetto, sotto al tavolo dov'ero seduto poco prima.
"Allora ti è piaciuto il drink? Scrittore del cazzo?? Me la darai o no quella parte?" e mi sferra un calcio sulle costole. Sputo sangue e sento ancora alcool venirmi su per la gola. Ma un calcio in faccia me lo fa ingoiare assieme al sangue e ad un dente. Era pazzo.
"Ti piace la mia bambina, eh? So che la guardi quando non sono in casa." Non era vero, non era vero...
"Non è vero, che cazzo stai dicendo fottuto schizzato!!" altro calcio, piango lacrime e tutto brucia.
"Guarda cosa mi hai fatto fare!! Scrittore di merda, guarda" mi tira un pugno violentissimo in testa. Piango lacrime arse, tutto brucia, tutto gira. La moglie è lì, ha la testa rivolta verso di me ed è spaccata e il suo volto ghigna. Ecco intravedo ora il figlio, è al di là del corpo della madre. Non si muove, non emette suono alcuno. Immagino e basta.
Ecco ora l'attore mi prende per il collo e mi solleva, mi rigira e mi sbatte di nuovo al suolo a pancia in su. Mi spacca i testicoli con un altro calcio. Piango fortissimo. Prende la figlia nuda e me lancia sopra.
"Ti piace eh? Ti piace eh, adesso, ora, adesso, ti piace!!? Ehehe, ahaha, eheheh aha ahaha aaaaahh"
Ho il viso della bambina di fronte al mio ed ora mi rendo conto che non aveva emesso mai alcun suono. Aveva la lingua strappata. Saliva, lacrime e sangue colavano dalla sua bocca sul mio viso.
Il mio cuore batte, sempre più veloce, sempre più rumoroso, sovrasta il tutto, le risate dello scrittore, i miei vagiti, gli altri suoni, le luci, le ombre, le rifrazioni, sovrasta il tutto, non so cosa accadrà adesso, ora, il cuore è sempre più veloce, corre, scalpita, impazza, sussulta, rallenta un secondo, si ferma. Buio.

THOalex 17/07/2016

 
 
 

FATTI ATTORNO AD UN ASCENSORE - SETTIMO: Un lungo mare di pontili in memorie circolari.

Post n°7 pubblicato il 31 Luglio 2016 da THOalex
 

Passeggiavo sul lungo mare. 

Il profumo dell'acqua portato dal vento era quanto di meglio avessi bisogno in quel momento. E' rilassante e distoglie l'attenzione da se stessi.
Incrocio un gruppetto di giovani adolescenti e dal mezzo qualcuno, sì è la voce di un ragazzo, sovrasta il chiacchiericcio della compagnia quel tanto che quanto sta dicendo mi giunga alle orecchie, anche se non subito. "Jesus Christ!". Solo quando avverto le risatine sommesse del gruppetto, mi accorgo che l'esclamazione è rivolta a me. Assopito dalla quiete della brezza, il mio flusso di coscenza si riversa allora sulla realtà e quella che avevo avvertito come una esclamazione, viene rielaborata e si presenta per quello che è, uno scherno nei miei confronti. Le risate, penso. Sono quelle a farmi realizzare il fatto. E rido anche io, rispetto la loro ingeniutà.
Altre volte avevo udito quella frase e sempre mi ero soffermato a pensare come fosse un noioso luogo comune quello di accostare il mio aspetto a quello del figlio del Signore. Noioso, sbagliato. Sbagliato perché i soli capelli lunghi e barba non bastano. Sbagliato perché sono di carnagione piuttosto chiara. Noioso perché è stancante. Ma è un problema mio. Nessuno dei vari comici improvvisati poteva sapere quante altre volte avessi sentito proferire la battuta, però avrebbero potuto, se non informarsi, intuirlo proprio perché è un luogo comune e pertanto abusato da tutti. E quindi forse non è un problema mio. E siate originali, per Dio, che tanto non batterete cassa comunque, almeno abbiate un po' di orgoglio.
Ma tutto ciò non ha importanza. Le battute dozzinali, i luoghi comuni, le risatine di gruppo, le chiacchiere giusto perché "almeno non sono solo a casa, datemi aggregazione", non mi interessano. Io sto solo percorrendo il lungo mare come sempre. Cammino a fianco del mare e la sua risacca. Il mare vede la riva, gli scogli, il muraglione e la città di lustrini al di là. Le luci, il traffico, il chiasso, la musica che esce dai locali attraverso le porte e le finestre aperte. Ode il tintinnìo dei bicchieri, le urla euforiche dei turisti. I passi sull'asfalto di mille persone, il clacson che rimprovera. E ancora gli artisti, giocolieri, saltimbanchi. Le donne vestite d'abiti leggeri con pizzi raffinati. C'è uno sputafuoco che fiammeggia veloce dalle labbra. Dall'altra parte, verso il porto, avverte botti fragorosi e il cielo si illumina di colori. Poi il vociare rude di giovinastri arroganti dai denti bianchi e la divisa e sa che cercano divertimento nell'abbraccio delle belle signore.
Ma tutto ciò per il mare non ha importanza. E non ne ha nemmeno per me. Cammino a fianco a lui finchè non raggiungo la mia svolta e mi addentro tra le pareti di mattoni a vista e calcestruzzo, lasciandomi il mare alle spalle.
Il silenzio si avvicina dal fondo della via per incontrarmi pian piano. Lo sento incrociarsi lentamente con i rumori della festa alle mie spalle. Lento, ma inesorabile, il silenzio domina, quanto più mi allontano dalla festa. Finchè vince ed io con lui. E ci godiamo questo sodalizio.
Ce lo godemmo per breve. Ma il silenzio mi sorrideva perché mi conosce e approva. Approva quello che sa di me.

Lontano dal fragore del pease in festa vivo io.
Mi basta aprire, spalancare il balcone e vedere le stelle. Il profumo del patanegra sale dal locale sotto il mio appartamento, misto a quello del vino (oh quel vino rosso, così profumato di agrumi e botte di frassino, ma dal colore denso, porpora, sangue, ebbrezza, serenità) e del pane arrostito spalmato d'olio d'oliva, aspro e dolce. Ma ecco la musica, quella che desidero. Che mi avvampa dentro e brucia poi sulla pelle, scatena il delirio, la passione. Il sudore che vola dai capelli. I corpi si scatenano e gli abiti di lei danzano attorno al suo corpo. Ora folleggiano le nacchere al ritmo perfetto, i piedi battono secchi e precisi in contrattempo. E le urla e le risate e le mani che suonano e applaudono. Ma non sono io, io ascolto e basta. Loro, quella coppia che vidi anni addietro, erano loro che facevano impazzire gli avventori. Rappresetavano quella che per me era la coppia perfetta, la coppia per la vita. Quale intesa nei loro occhi; la scorgevi nella profondità vitale che soltanto gli anni trascorsi assieme avevano reso così profonda. Magnifici, leggeri e potenti; disinibiti e aggraziati. Ed avevano sessant'anni.

Ora tutto ciò non c'è più.
Non vivo più in quella casa. Non esiste più quella vita. La vita è ora al di qua prima della svolta che conduce tra le pareti di mattoni a vista e calcestruzzo. Qua sul lungomare del paese in festa. Che festeggia e non sa più per cosa. Festeggia e basta.

Passeggio ancora sul lungomare che disconosco, passeggio in quanto sono un passante e sto tornando all'albergo dove alloggio. Dovrebbero dirmi che posso riprendere la mia stanza, oppure che me ne affittano un'altra o che, alla peggio, mi trovano un'occupazione in un altro albergo.
Poche ore prima ero seduto sul davanzale della finestra della mia camera. La finestra dà su un tetto piatto, perciò potevo starmene comodamente seduto sul davanzale con i piedi ben saldi sul tetto che è molto ampio e contornato a semicerchio dal resto dei piani dell'albergo alle mie spalle. In fronte a me vedevo la parte di tetto libera da pareti e finestre se non quelle degli altri alberghi più avanti. Però potevo fumare e bere.
Quindi sono lì a fumare e bere quando un corpo precipita e si schianta a due metri dalle mie gambe. Avete mai sentito il sibilo di un corpo che cade? Io sì.
Il corpo, che era caduto contro il bordo di uno dei lucernari a cupola aveva braccio e scapola piegati orribilmente verso l'interno, la gamba destra era torta e si vedeva distintamente un porzione di tibia spezzata che aveva trapassato il pantalone. La testa era innaturalmente girata verso di me ricoperta di sangue e muco. Il corpo muoveva le labbra. Non capii cosa, o meglio, se stava cercando di esprimersi. Era palesemente un pesce, ai miei occhi. Risi male e chiamai subito aiuto.
Depositata la mia testimonianza (salvo il particolare del pesce, che per decenza omisi) mi chiesero di lasciare la stanza per alcune ore. In realtà mi avevano proposto di spostarmi altrove subito, evidentemente pensavano, anzi, erano certi, che la cosa mi avesse turbato. Ma io dissi "vado a fare due passi" e così me ne andai sul lungomare, che non era come ricordavo.
Tornato allora in albergo la Signora al bancone d'ingresso mi dice che sì, la stanza sarebbe libera. Insomma la stanza in sé non era coinvolta, il corpo era stecchito sul tetto. Ora il corpo è stato rimosso e al tetto potevano se necessario accedere da fuori...

Quindi prendo la chiave e torno in camera.
Rimango così un po' fuori sul davanzale a fumare e bere. Sì il paesaggio fa schifo. C'è il tetto piatto con i lucernari a cupola, alle mie spalle si stagliano le pareti e relative finestre di questo albergo. Alle mie spalle e sul lato sinistro. Anche alla mia destra a dire il vero. Pareti alte, saranno 25 piani. Di fronte a me, oltre il tetto piatto, si vedono altri alberghi e condomini sparpagliati qua e là, divisi da strette aperture. Insomma sono lì sul davanzale a bere e fumare, quando un corpo precipita e si schianta a due metri dalle mie gambe. La testa del corpo era innaturalmente girata verso di me e ricoperta di sangue e muco. Il corpo muoveva le labbra. Non capii cosa, o meglio se, stava cercando di esprimersi. Era palesemente un pesce a miei occhi. Risi male e chiamai subito aiuto.
Poco dopo mi dissero che mi avrebbero dato un'altra camera, visto che ci sarebbe stato un via vai di persone addette. Rifiutai. Era palese che pensavano che la cosa mi avesse turbato. Ma io dissi "vado a fare due passi" e così me ne andai sul lungomare.
Il profumo dell'acqua portato dal vento era quanto di meglio avessi bisogno in quel momento. E' rilassante e distoglie l'attenzione da se stessi. Incrocio un gruppetto di giovani adolescenti e dal mezzo qualcuno, sì è la voce di una ragazza, sovrasta il chiacchiericcio della compagnia quel tanto che quanto sta dicendo mi giunga alle orecchie. "Jesus Christ!"...
Mi unisco mentalmente alle loro risatine.
Sollevo il braccio destro mostrando la mano con l'indice e il medio alzati assieme, uniti. "Pace ragazzi!" e proseguo sul lungo mare.
Il paese è in festa e la festa non mi interessa, pertanto cammino molto finché non raggiungo il porto, scendo sulla scogliera e percorro il lungo frangiflutti, spingendomi fino alla sua fine dove a malapena le luci della città creano ombre sommesse. Di questi frangiflutti ce n'è uno ogni duecentocinquanta metri circa, servono a non consumare la poca spiaggia.
Li chiamavamo pontili, quando all'epoca frequentavo la zona per le vacanze estive. Quell'anno in particolare lo ricorderò credo per sempre, certo non tutti i dettagli, ma ben chiara nella mia mente rimarrà quella sensazione di sospensione tra la giovinezza e gli anni delle responsabilità. Tanto era alle spalle e tutto doveva ancora accadere e in quelle settimane abbandonai il futuro che mi spaventava a morte all'oblio, ad una infanzia indimenticata e ad una adolescenza che non volevo se ne andasse. Quindi ogni giorno, ogni notte fiumi di bevande inebrianti scorrevano e quante sigarette di artigianale fattura, preparate con l'esperienza altrui sciolta dalla fiamma di un accendino, furono consumate. E quante parole che suonavano di tribuna colta vennero sprecate in un crogiolo di autocompiacimento ebbro.
Non fu la fine delle vacanze a stroncare la mia volontà di rimanere sospeso nel tempo e nello spazio.
Su uno di quei pontili conobbi l'amore puro di un'intesa scaturita dal nulla; le notti sobrie passate a chiacchierare e a sorriderci, a dormire assieme in un abbraccio ingenuo e casto. Svegliandoci assieme alle prime luci dell'alba con nella mente le immagini chiare di un'intera vita passata assieme. E invece furono solo pochi giorni. Lei da quei pontili amava tuffarsi e quel giorno in cui venni a cercarla tra gli ombrelloni seppi che da uno di quei pontili aveva incontrato la morte sparendo tra i flutti. E corsi via disperato e piansi lacrime di whisky dalla notte all'alba fino alla fine dei miei giorni in quel posto di mare che è lo stesso dove sono ora. Lo stesso, ma diverso. Io sono diverso; come ho detto quell'evento mi strappò via dalla vita che sognavo.
Diventare improvvisamente adulti e voler morire.
Invece non morii. Andai avanti a tentoni negli anni che seguirono fino ad oggi. Fino a questo momento in cui mi trovo sulla fine di questo frangiflutti vicino al porto a guardare il blink delle navi all'orizzonte oscuro. E mi viene l'istinto di buttarmi tra i flutti.

Poco dopo sono nuovamente sul lungo mare verso l'albergo. Mi fermo per una bevuta, prima, però.
Giungo alla reception dove dovrebbero dirmi che posso riprendere la mia stanza, oppure che me ne affittano un'altra o che, alla peggio, mi trovano un'occupazione in un altro albergo.
La stanza è libera, ringrazio, prendo la chiave e con l'ascensore salgo al primo piano dove si trova la mia camera.
Ho bisogno di una doccia fredda e di una bella dormita.La doccia ha la tendina, odio la tendina. Si appiccica addosso, trasmette ansia e tutto il contrario di quello che una doccia dovrebbe trasmettere. Fanculo la doccia e mi fumo una sigaretta sul davanzale, decido.
Quindi sono lì che non penso a nulla quando un corpo precipita e si schianta a due metri dalle mie gambe. Il corpo muove le labbra: aperte, chiuse, aperte, chiuse, aperte, chiuse. È palesemente un pesce a miei occhi. Rido male. Mi guardo attorno un attimo cercando di capire se qualcuno possa aver visto la scena da una delle altre finestre che si affacciano su quel tetto. Tutto sembra tranquillo.
Guardo il pesce un altro paio di secondi, credendo di vedere me stesso. Ma è impossibile, ovviamente. Non volli sapere, non volli indagare; piano, piano me ne tornai dentro la mia camera, abbassai la tapparella facendo il minimo rumore possibile e tirai le tende. Mi coricai sotto il lenzuolo, vestito e subito mi addormentai. Era ora di finirla con quel loop temporale.

Quando mi svegliai era sera. Ed ero su una panchina del lungo mare. Dovevo essermi appisolato da pochi minuti, pensai. Sapevo di dover rimanere fuori alcune ore prima di tornare all'albergo. Sicché decisi di passeggiare sul lungo mare, verso il porto o verso...

THOalex 29/06/2016

Disegno di Valeria Zuccato 

 
 
 

FATTI ATTORNO AD UN ASCENSORE - SESTO: Dissimulare

Post n°6 pubblicato il 30 Aprile 2014 da THOalex
 
Foto di THOalex

Alla fine mi aveva convinto a passare da lui per un bicchierino; dopo la multitudine di inghippi che mi ero inventato per evitarlo, lo incontro proprio sulla soglia, quel maledetto, stava per prendere l'ascensore prima del solito.
Sarà il caso di puntualizzare il fatto che non sono uno stalker o un maniaco compulsivo o affetto da disturbo dissociativo o che so io, ho solo il terrore delle persone e cerco di evitarle.
Specie le persone come lui, quelle che trasudano veleno, ed hanno un'aura così buona che percepisci in fretta l'acido odore di vomito. Beh almeno è quello che provo io, lo vivo proprio e lo vivo male.
Ma il dissimulare è un'arte che s'impara in fretta quando si decide di vivere ciò nonostante. Che problema c'è? Un buon sorriso, non troppo aperto, ma nemmeno troppo serrato, un po' riservato ma accompagnato da una stretta di mano, allegra senza diventare troppo spavalda. Quindi dialogo aperto sul nulla, "ebbene del tempo non me ne fotte una sega", ma questo lo pensi soltanto, e con entusiasmo da emorroidi accetti l'invito per quel dannato bicchierino.
Mantenere il buon vicinato è una spunta sul mio diario della dissimulazione.
In questo entusiasmente mentre, giunge l'ascensore. Come farsi mancare, da parte del mio prossimo ospite, l'opportunità di tediarmi ancor meglio con un secco "andiamo giù al bar a farci dare una bottiglia dal mio amico Tender".
"Sto cazzo di bar l'ha scampata bella" dice lui con la saggezza di uno sterco di vacca che spera di non essere calpestata, di nuovo; ed indica il muro di cinta condominiale ancora squarciato, con le strisce bianco rosse.
Mister aura di vomito si riferiva all'incidente di qualche tempo prima, il ciccione del sedicesimo piano era stato falciato da un camion irrespettoso della precedenza ("regole, regole ... !!!!!" doveva aver pensato l'autista) ed era finito con l'auto spinta dal camion a frantumare una parte del muro, visibile dal bar del condominio.
Mentre quello conferiva con l'amico Tender (ma che razza di nome è?) per ottenere del rinfrancante super alcolico di straforo, io stavo cercando di estraniarmi dal pensiero del mio futuro prossimo, per poterlo gestire meglio al momento opportuno. Pensavo al ciccione ... quella volta che attraversavo il corridoio verso il mio appartamento e lui stava uscendo dal suo. O meglio si stava disincastrando dalla porta per uscire a fare la sua spesa bisettimanale. E mi fa, dopo avermi visto palesemente contrito da affettuose risate, "Tu mi capisci vero? Prima è una difficoltà mentale, poi diventa fisica, e quando è fisica, amico mio, levarsi dall'incastro è molto più difficile di quanto ti fossi immaginato nonostante lo studio. Alla fine serve solo un colpo di fortuna. Ma quasi mai capita agli audaci".
All'epoca gli avevo battuto un bel cinque quando, subito dopo il discorsone, era riuscito ad uscire di casa, ma avevo dato poca importanza alle sue parole. D'altronde chi ne avrebbe data? E poi non era così il proverbio ...
Cominciai a pensare alle sue parole, quando venni a sapere che, lo stesso giorno in cui il bastardo si era schiantato per via del suddetto incidente, aveva vinto una cifrona al supermercato. Quel ciccione bastardo.
Comunque la mia capacità di estraniazione deve avere un programma di stand by con automatismo, durante il quale la mia mente viaggia mentre il mio corpo agisce in qualche modo, fattostà che già mi ritrovo nell'atrio dell'appartamento del mio ospite, il quale non tarda a ricordarmi della bottiglia dell'amico Tender, porgendomi una coppa da Martini.
"Ottima scelta per versarci della grappa" una battuta per rompere il ghiaccio.
"Fai del sarcasmo a casa mia?" una pessima battua per rompere il ghiaccio.
Ed il dissimulare comincia a vacillare. E non riesco ad estraniarmi come vorrei.
"Vuoi che ti mostri il mio di sarcasmo?"
No. Ma lo pensai soltanto.
"TESORO!!!" urlò, che praticamente mi fischiavano le orecchie
In un tempo pari alla metà del miglior pit-stop appaiono moglie, figlio, figlia.
Moglie, sui trentacique, un tipo anonimo, niente trucco, atteggiamento distaccato ma senza sensualità, lo sguardo che esprime l'esistenza di una lumaca sciolta dal sale; a qualcuno potrebbe piacere, ad altri no; a me nemmeno, ma a prescindere. A causa di quell'odore/aura che percepivo emanare anche da lei. Diverso, non di vomito. Piuttosto del sudore versato da colei che deve pulire il vomito d'altri.
Figlio, e figlia, l'immagine perfetta, idealizzata, delle anime che vanno al rogo.
Ed il sunto sta in una evoluzione degli eventi verso una reazione spropositata.
"Allora vecchio mio ti servo un altro bel sorso così puoi gustarti al meglio il mio di sarcasmo"
Bevvi, bevvi ben volentieri, dovevo ancora raccogliere tutti i fili e i loro nodi.
E questo si leva la cravatta, e sbraita su come il figlio si fosse comportato andando contro gli insegnamenti del padre. E poi si leva la cintura, e sbraita ancora contro la moglie in merito al fatto del figlio. Perché la sorella aveva preso una strada che non piaceva affatto all'idea di adulto che si insegna e verso la quale bisogna tendere, e così agendo conivolgeva pure il fratello minore in un vortice senza regole.. Ma lui in quanto padre doveva lavorare mentre lei come madre doveva badare a queste cose, cogliere i segnali, ... bla, bla retorica e colpevolizzazioni a palate e intanto io mi chiedo perché devo assistere a tutto ciò e perché tutto ciò fosse tale.
Andò avanti per un po', non so, il tempo di mezza bottglia per me (all'epoca richiedeva anche due, tre minuti), che mi diede il coraggio di staccarmi dal tavolo sperando di arrivare all'uscita senza voltarmi mentre la demenza famigliare imperversava alle mie spalle. Ma che problemi ha la gente? E che problemi ho io per non riuscire ad evitarla, nonostante l'impegno?
Dissimulare. C'è gente a cui non importa un cazzo. 

THOalex - 30/04/2014

 
 
 

FATTI ATTORNO AD UN ASCENSORE - QUINTO: Non ero uno scrittore

Post n°5 pubblicato il 26 Febbraio 2012 da THOalex
 
Foto di THOalex

Quella sera immaginai di scrivere. Immaginai perché non avevo la forza di alzarmi per raggiungere la scrivania. Immaginai e cercai con tutta la concentrazione possibile di ricordare ciò che la mia immaginazione suggeriva man mano.
Il luogo, inteso come spazio dove scrivere, prese posto a lungo nei miei pensieri.
voglio dire, ero là disteso con l'intento di immaginare di scrivere e, dunque, perché non farlo immaginando di essere altrove?
Ecco, magari sono su una ripa costellata di scogli, dei quali ne scelgo uno in particolare, quello un po' più alto. Alle mie spalle un piccolo agglomerato di pini marittimi adula con il suo profumo la brezza che lo attraversa danzando e giunge ai miei sensi tutti, con piroette.
E' quella brezza durante i primi minuti dell'alba e la raccogli con la gioia di colui che ha
passato una notte insonne e nevrotica tanto quanto una giornata di lavoro in Agosto, ucciso dal frastuono della modernità.
L'alba è così silenziosa e mi riposa; chiusi gli occhi e immaginai di srivere parole senza senso con le nuvole che il vento, più forte della brezza, soffiava via. E subito le dimentico.
Sì, onestamente,immaginare di scrivere non aveva apportato grandi risultati.
Schiudo gli occhi e sono nella mia stanza con ancora la voglia di scrivere, una voglia tale che decido addirittura di alzarmi e raggiungere la scrivania.
Là, sulla carta, avrei finalmente scritto la storia che avevo in mente!
Lampada, carta, penna, single malt torbato liscio. E via, parte il sublime delirio, giù, in picchiata, le prime parole sfociano sulla carta.

La mattina si affacciò tra le veneziane con due dita di luce tenue e apro gli occhi.
Aprii gli occhi e quelle due scaglie di luce si posavano proprio su quelle tre parole
che avevo scritto la sera precedente poco prima di perdere i sensi accasciato sul piano della scrivania. Interessante: avrei potuto scriverci sopra una storia, ben condita, una storia di perdizione e autocommiserazione, depressione e dolore. Una storia di morte, sì di morte della mia creatività, morte dell'ispirazione.

Passare alcune ore in giardino forse mi avrebbe aiutato, curare le aiuole, potare gli alberi da frutto, era il momento ideale. Tagliare i rami e riporli in cassette aperte per farli seccare. Smuovere la terra dell'orto. Aprire i rubinetti principali e svolgere l'impianto di irrigazione. Alcune tubazioni vanno manutese. Quei momenti di lavoro pacato che liberano la mente dal grigiore.
In questi momenti vorrei scrivere una storia d'amore, ma è una storia d'amore non corrisposto.
In questi momenti vorrei scrivere una storia di riscatto personale, ma è una storia che narra di un riscatto pagato per riavere un ostaggio morto.
Allora vorrei scrivere la storia di un fratello ritrovato ma è un traditore che porta via
la donna che ami ma non ti corrisponde perché amante di quel tuo fratello ritrovato
dopo che aveva trascorsco gli ultimi anni in carcere, condannato per sequestro di persona. E ci manca solo che la persona ad esser stata sequestrata sia proprio io! Ma, ma che banalità! Niente, straccio anche queste righe ancor prima di scriverle.

Scrivere, scrivere, scrivere! Ma tutto ciò che penso mi suona stupido, superfluo, scontato. Già scritto. Già sentito. Già pubblicato. E' stato un successo. Milioni di copie vendute. Conferenze stampa, presentazioni, reading, talk show. Già visto, già fatto. Ma sono l'unico a capirlo? O forse sono l'unico a non riuscire nel proprio intento? Ha avuto un discreto successo persino quel tipo che scrisse storie disparate legate da un filo conduttore ridicolo.

Magari mi butto giù dalla finestra della mia camera, o mi impicco al lampadario della sala da pranzo, come quella tizia del sedicesimo piano oppure... ma mi sa che ho già scritto di questi fatti... non so. Non ricordo più nulla. Non so da quanto sono qui a nonsonemmenodove...
Ricordo solo quel'onda immensa che mi strappò via dallo scoglio più alto mentre coglievo la brezza profumata di pino.

THOalex

 
 
 
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