ACTO 3

L'orso sbozzacchito


(...) L’orso sbozzacchito         Mi ha fatto la posta. Lido, il gufo fumatore, in atteggiamento vigile come di uno che non la lascia passare liscia a nessuno; le forche caudine sono un comitato di benvenuto al confronto con quest’uomo dinoccolato con le braccia penzoloni che non aspetta altro che affrontarti con lo sguardo burbero di chi nella vita ha sperato che le illusioni non rimanessero tali e che le promesse fossero mantenute. Mi saluta con un cenno del capo come si saluterebbero due contadini dell’Oltrepò che, avuto un alterco per pochi spiccioli, non si rivolgono la parola da quarant’anni ma che la domenica mattina, consorti a braccetto, in piazza della chiesa, si salutano in qualche modo per non apparire zotici litigiosi. E altrettanto fanno le mogli, cugine di secondo grado tra loro e compagne di vendemmia a pigiare i raspi carichi a piedi nudi sin dai tempi dei primi turbamenti amorosi, con la gonna alle ginocchia e il canto poco più che intonato fino a sera. Un tavolato, qualche lampadina ad illuminare il pergolato, la fisarmonica e la madre seduta  accanto a lei per decidere a chi dovesse concedere il ballo, per scoraggiare i perditempo dalle mani lunghe e i mustacchi per sembrare adulti.   Si è scordato di me? Chi se ne importa? Ormai siamo vecchi, cosa può cambiare?   Lo struggimento psicologico al quale si è sottoposto lo ha sopraffatto, snervato fino a porsi le domande e darsi le risposte, in un gioco perverso di scuse e accuse mai richieste, neppure accennate. Come quel tale che, passando accanto alla casa del vicino, vede la bicicletta appoggiata alla parete e lui, che deve camminare per un’ora per raggiungere il paese, maledice l’amico, proprietario della bici, che non gliela dà in prestito. Nervoso, avanti e indietro, continua a guardare la bicicletta, il sellino, le ruote, la pompa, il campanello brillante, i cavetti dei freni, tutti i dettagli, tutto quello che gli servirebbe per non farsela a piedi. L’amico esce dalla casa indaffarato e frettoloso, va verso il magazzino per continuare il suo lavoro.   Stammi bene a sentire. Sta bicicletta, se me la puoi prestare bene, altrimenti faccio senza, non chiedo l’elemosina a nessuno e in paese ci vado a piedi come faccio sempre. Tienitela stretta che te la rovino però, prima o poi, anche tu avrai bisogno di chiedermi qualcosa e allora vedremo. Incazzato e offeso se ne va a passo veloce senza voltarsi con dentro il rancore e la sete di vendetta.   Ho capito, non se ne fa niente, l’America è lontana e gli americani fanno gli americani e vivono bene nonostante tutto.   Si sta meglio qui.   Come fa a saperlo?   Lo immagino.   Perché si è vestito bene, sistemato i capelli e messo a punto, va a donne?   No, me lo ha chiesto lei di darmi una ripulita.   Era solo un consiglio. Sta bene così, quando vuole andare?   Io sono pronto, vuole farmi soffiare nel palloncino?   Ha scritto qualcosa da leggere?   Sono un asino, scrivo male e leggo peggio.   Parlerà con suo fratello, non con la Santa Inquisizione, nessuno le farà la pelle se sbaglia una parola.   Mi emoziono. E se non mi viene la parola giusta?   La dica in dialetto.   Sta seduto sulla piccola poltrona coi braccioli davanti allo schermo del mio computer portatile allungato con lo sguardo attento come se dovesse sparare al cattivo del videogioco. Ha inforcato gli occhiali ma forse non bastano a dissimulare i lucciconi che cominciano a formarsi dentro quei vecchi occhi consumati dai ricordi, quegli occhi che sempre hanno faticato a piangere nel resistere alla commozione. Non questa volta. Lido comincia la conversazione e mano a mano che il dialogo prende piede, le lacrime, scacciate dalla fretta di avere notizie, lasciano il posto alle poche frasi scambiate fra i due, con imprecazioni in dialetto, in italiano, in inglese, subito tradotte in qualche modo nuovamente nel loro dialetto per essere sicuri di aver capito bene. Si passa da un ricordo adolescenziale all’uso dei medicinali da prendere tutti i giorni alla stessa ora, prima e dopo i pasti. Da una motocicletta sgangherata, un vero cimelio, all’ultimo modello dell’auto regalata al figlio; dalla giacca grigia di fustagno indossata all’arrivo nella nuova patria alla camicia a fiori stile caraibico con i grandi fiori di ibisco gialli e rossi; dal capo scaricatore nel porto di Trieste, al piccolo mafioso del Gancio rosso di Brooklyn, guai a fiatare o resti disoccupato per un mese intero. Gli sono passati davanti agli occhi anni vissuti in tremenda solitudine. Un bambino abbandonato in orfanotrofio i cui ricordi cominciano a trovare consistenza dal momento dell’adozione e che all’improvviso ritrova il tempo e le immagini perdute, viste solo in poche fotografie consumate e che quasi aveva dimenticato dentro una scatola in un cassetto sempre più difficile da aprire per la paura di rendersi conto che quelle facce erano ormai parte di un’altra vita, di qualcun altro, due ragazzini in pantaloni corti e le scarpe strette, ruvide dentro che facevano male, bucate sotto, sguardi e tomaie imbronciati però dignitosamente in posa, immobili per quello scatto raro come le scarpe nuove.   Devo trascinarlo per un braccio perché lasci la postazione. Non diciamo una parola. Gli apro la porta dell’ascensore. Se ne va, piegato su se stesso come un gambero scongelato, livido in volto, dentro la cabina mi appare come un extraterrestre o come un morto vivente che deve scegliere in quale mondo vivere.             Sbozzacchito: ingentilito. Gancio rosso: Red Hook, rione popolare di Brooklyn-New York(...)