Mirrors and thoughts

Post N° 388


Oggità
come faccio a non dirlo al sole oggi che quei nuvoloni non m’oscurano l’allegria con cui si è alzata la mia testa dal cuscino stamattina? eppoi camminando per le strade di una città che non m’appartiene e ascoltando la musica di scugnizzi la metro mi ha portato anche un po’ più su. ché le distanze sono talvolta barriere che facilmente possiamo abbattere. e convincersene non è difficile. dieci fermate sono tante e abbastanza per pensare e per pensarsi. flussi e riflussi che vagano tra la pace di ieri e le ansie di domani. ancora corsi, ancora studio. sto crescendo però. forse qui mi sento più spavalda, non lo so, ma il fatto di alzare la mano e fare una domanda mi sembra più legittimo qui. sarà anche ché la conoscenza qua è più cara. più faticata per usare un napoletanismo. sotto un mare di chiacchiere e dentro le note di Buscaglione e di Mina, che ascolto nel ventre dei mezzi pubblici maleodoranti, quelli in cui ogni giorno ci sono gli stessi rom che pretendono l’elemosina e che tirano il cappotto a chi si finge indifferente per essere ricoperti degli spiccioli che gli faranno comprare le nike con cui gireranno la città disturbanti, io m’assento. una volta mi hanno detto che in questo modo, con le cuffiette che foderano i timpani, ci si isola dalla… strada. a Napoli avevo risposto che non era vero: lì mi guardavo intorno e ogni volta scoprivo qualcosa che il giorno prima non mi sembrava d’aver visto. qui le cose sono cambiate e la casualità è preterintenzione. poi ho regalato un sorriso a un bambino che s’aggirava in segreteria con una mamma che ha la mia stessa età e che per tutta risposta ha iniziato a trotterellarmi intorno felice che qualcuno si fosse accorto di lui, piccoletto in quei suoi jeans e in quel maglioncino con Winnie, che ha sgranocchiato per più di un’ora di attesa chissà quante gallette di riso. e a me sembrava cibo di plastica, ma son gusti. a mio figlio non glie le darei, forse. chissà. al ritorno un matto ha preso la mia stessa linea. ci sono giorni in cui, quando mi accorgo che c’è un folle vicino a me, cosa che davvero capita con frequenza inaudita, mi guardo intorno come per verificare che non sia l’unica a vederlo. vorrei fosse così prima o poi: vedere un’ombra di qualcuno che gli altri non percepiscono. il matto era vestito tutto di nero, aveva gli occhialini scuri sul naso, a metà, ma da lontano si notava più di ogni altro particolare il cappello a cilindro in cui aveva fasciato un capo piccolo e tondo. si manteneva le cuffiette come fanno i cantanti e, senza microfono, cantava con disinvoltura ad alta voce versi che sembravano insensati, lui, zombi in mezzo agli altri. e sulla metro poi è salito un gruppo di tedeschi a rubargli la scena perché nessuno ha potuto fare a meno di fissare almeno un secondo i quattro bambini che saltellavano mentre le matrone cercavano di proteggerli dagli urti delle frenate. erano biondi, quasi albini, con gli occhi di un azzurro cielo estivo e sorridevano ghignando, sdentati come folletti. eppure più che bambini felici sembravano usciti dal Villaggio dei dannati e uno degli adulti del loro gruppetto s’è messo a giocherellare con la femminuccia fingendo che le sue dita fossero le zampe di un ragno che gli metteva paura, ma loro ridevano. ridevano ancora quando io sono scesa.