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La casa

Post n°115 pubblicato il 19 Marzo 2007 da falco58dgl
 

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Procedo ormai da due ore   sul versante della montagna con passi lenti e cadenzati. Evito di guardare  verso valle, il mio sguardo è rivolto  verso la cima che sembra mantenersi sempre alla stessa distanza. Cammino su un sentiero sassoso che forma  delle serpentine, seguendo la pendenza del terreno. Sono sicuro che se mi voltassi, cadrei   in  preda a un senso di vertigine causato non  dall’altezza, ma dalla ricerca spasmodica di un segno di vita, di  un segnale  conosciuto in questo territorio ignoto che attraverso.

Ogni tanto  volgo il capo verso il torrente  che scorre formando rapide e brevi cascate,  restringe il suo corso fino a diventare uno scroscio tumultuoso d‘acqua  tra due massi affiancati    o si allarga in una placida corrente nei tratti pianeggianti. Mi avvicino a una roccia di dimensioni enormi,  che sembra in equilibrio instabile su uno spigolo conficcato nel terreno. Scorgo dei buchi, simili a cunicoli scavati dal tempo o da un esercito di forzati, un insieme di occhi neri sulla parete. Il masso misura almeno cinquanta metri di altezza, devo alzare la testa per intravederne la sommità. Mi fermo,   esploro con una torcia una delle gallerie, ma il fascio di luce si perde  in un pulviscolo senza che arrivi a scorgerne la fine. Rimango incerto, muovo due passi verso l’interno, ma un fruscio  che non riesco a decifrare mi fa uscire  quasi con un balzo da quell’ambiente.

Riprendo a salire, a passi rapidi. Adesso il sentiero si perde in una pietraia disuguale e primitiva, disseminata da cespugli e vegetazione bassa.. Devo saltare da una pietra all’altra per evitare le fratture che disseminano questa parte della montagna. Stringo una cinghia dello zaino che sembra allentata,  bevo un sorso d’acqua dalla borraccia. Continuo a guardare la cima innevata che si mantiene a una distanza costante. Il pendio diventa aspro, a volte sono costretto ad aiutarmi con le mani nei punti più impervi. Salgo con ostinazione, a bocca chiusa, ascoltando il ritmo del mio respiro  che s’affretta, anche se mi costringo a respirare in profondità.

Mi sorprendo a contare mentalmente. Duecentoquarantacinque… duecentoquarantasei… duecentoquarantasette… C’è un passaggio difficile, due pareti a imbuto quasi verticali di terreno friabile e un masso in mezzo che ostruisce il cammino. Provo a saggiare le sporgenze sulla roccia, a caricare il peso sulla gamba sinistra, su quella destra, ma non trovo appigli per potermi arrampicare. Ripeto l’operazione  guardando il masso con concentrazione, mentre i piedi cercano un punto di appoggio provvisorio. Riesco a issarmi e mi ritrovo quasi aggrappato alla parete a braccia larghe e con il corpo che vibra per lo sforzo. Procedo trascinato dal mio stesso slancio,  come se salissi una scala di pietra invisibile, aiutandomi con le ginocchia, le gambe, con tutto il corpo. Arrivo in cima, mi fermo ansante. Il pendio ora è più dolce, intravedo un vasto pianoro che si apre come un palcoscenico erboso. Riprendo a camminare… seicentosettantanove…seicentoottanta… seicentoottantuno…

Sono arrivato quasi a cinquemila, quando la vedo, quasi irreale. Una casa costruita nel nulla, dai tetti spioventi e le mura di pietra. Nessuna mulattiera, nessuno spazio attrezzato per atterrare con elicotteri. Sembra che abbiano livellato una parte di montagna per
poter edificare quella costruzione che ha il colore grigio delle pietre e le pareti delle stanze dipinte di un bianco accecante. Davanti alla porta d’ingresso ci sono due persone, immobili. Sembrano attendermi, l’espressione del volto appare distesa. Odo una voce acuta che chiede loro qualcosa che non afferro.

Il mio ultimo desiderio è stato esaudito, penso entrando nella casa della mia infanzia.

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LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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