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The million dollar hotel

Post n°427 pubblicato il 18 Febbraio 2011 da falco58dgl

Un breve frammento incompiuto. Chi volesse proseguirlo, si accomodi...

hotel

 

Alle tre del mattino, Mirko si svegliò boccheggiando. Il corpo era fradicio di sudore. Si sedette sul bordo del letto a occhi chiusi mentre un sonno appiccicoso  cancellava i suoi pensieri. Rimase qualche minuto così, sentendo i capelli, la nuca, la fronte bagnati. S'alzò infine e si diresse a tentoni verso il bagno. Doveva uscire dalla stanzetta, percorrere un corridoio ed entrare nella quarta porta a destra.

"Dove sarà la luce, merda", pensava mentre tastava le porte come un cieco che si ritrovi in un ambiente estraneo.

Riuscì ad entrare, dopo aver corso il rischio di svegliare i suoi vicini della 112 "tanto chi riesce a dormire in questo forno" e si ritrovò in un luogo angusto e sporco, occupato per metà da una vasca da bagno incrostata, che recava le tracce degli altri ospiti.

Fece scorrere la tendina semicircolare di plastica sudicia e aprì il rubinetto di sinistra. Uscì un getto esile di acqua tiepida che aveva riposato per un paio di ore nelle tubature.

"Cazzo", sbuffò, "sembra piscio".

Con un gesto rabbioso, girò il rubinetto fino a trovarselo in mano. Il rigagnolo si era trasfornato in  uno spruzzo disuguale che fuoriusciva dalla doccia arrugginita. Da alcuni buchi l'acqua usciva con impeto, da altri venivano fuori gocce o  zampilli così esili da sembrare una beffa.

Fu solo dopo una decina di minuti che l'acqua iniziò a sgorgare con forza, fresca. Mirko si girò e ricevette sulla schiena e sulla testa un po' di refrigerio.

Rimase a lungo sotto la doccia.

Poi, senza asciugarsi, rientrò in camera, si buttò sul letto e dopo dieci minuti aveva ripreso a sudare. Le goccioline che aveva addosso sembravano essersi riscaldate per effetto di un gigantesco soffio di aria calda.

 S'alzò nuovamente imprecando.

"Mai sentito una caldo così. Devono essere almeno 40 gradi. Nel cuore della notte".

Iniziò a salire le scale. Ad ogni rampa doveva detergersi l'acqua che usciva dal suo corpo. Arrivò ad una porticina di ferro, fece scorrere il chiavistello e si ritrovò su un terrazzo ingombro di lenzuola secche e rigide come baccalà.

Nel buio scorse solo un'alta torre illuminata e alcuni lampioni fiochi che rischiaravano tratti di marciapiede.

Le 4 del mattino. Solo 36 gradi. Poteva andare peggio, biascicò Mirko sdraiandosi sul pavimento di pietra, mentre un debolissimo refolo di vento lo fece quasi rabbrividire.

 ****

Si svegliò alle cinque e trenta del mattino, quasi intirizzito.
Buio fitto ovunque.
Il display luminoso in cima alla torre segnava solo 28 gradi.

Cristo, cos’è? Una sagoma indefinita si muoveva, facendo scricchiolare il pavimento, come se i suoi piedi fossero più duri della pietra stessa. Ma non aveva i piedi.

Mirko s’alzò con un balzo, rigido e contratto. Cercò di retrocedere verso la porta, ma inciampò in un ostacolo e cadde a terra.

La cosa si era avvicinata e incombeva su di lui.

[...]

caldo

 
 
 
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"DIECIMILA E CENTO GIORNI"
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LA RECENSIONE

usumacinta

DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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