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TARANTO


"I miei luoghi, i miei. Il primo, l’utero materno, da cui sono stato strappato con un forcipe che mi ha frantumato il braccio destro in tre punti, leso la fronte e impedito di morire di asfissia. Da lì è iniziata una deriva, un abbandono che il passo del tempo ha solo reso più stabile. Sentirsi estraneo, straniero, senza radici, fuori posto, fuori luogo. Il secondo, la casa paterna e materna di Taranto, affondata nella dimenticanza. Un martello di gomma smarrito, un ponte girevole, gli escrementi di cavallo per strada..." I miei luoghi, 1998 Taranto mi appare con una stazione ferroviaria dimessa, da paese, un piazzale anonimo e deserto. Le cinque del pomeriggio, un giorno di sole malato. Saliamo in macchina, guida Giuse, un colosso dai capelli biondi grano. Cerco di riconoscere qualche scorcio di quel paesaggio che ho rimosso quasi completamente, frugando nella memoria. La città vecchia è alla mia sinistra, sembra corrosa dal tempo, un labirinto di strade strettissime e di pietre giallo brune, divisa dal contorno del mare da un’ampia strada a tre corsie. Lo Ionio è un lago placido, dalle tonalità blu e azzurro intenso, che s’allarga sotto un cielo stratificato di nubi. Dietro di noi, il fungo di fumo dell’Ilva che violenta l’altra riva. Scendiamo e camminiamo sul lungomare, ci affacciamo sulla balaustra a pochi metri da un insieme di statue di ferro che protendono le braccia verso l’alto. “Nei giorni sereni si vedono le montagne della Calabria”, mi dice Giuse indicando con il dito un punto invisibile davanti a noi. Penso che non torno da 38 anni in quella che è stata la mia città natale, avverto un lieve stordimento che ottunde le mie emozioni. Passeggiamo per via D’Aquino, lastricata di pietre lucide e umide. La città è tranquilla e ordinata, non rimane nulla dell’ambiente caotico che ricordavo. I calessi a cavallo che ci portavano dalla stazione a casa, il ponte girevole che s’alzava per far passare le navi, quel caldo bruciante che impregnava l’aria, le code di automobili in attesa di passare da un lato all’altro del mare pigro che avvolge l’abitato. “Non torno dal ’68, da quando mio padre decise di venire qui per fare il commissario esterno alla maturità, alloggiavamo in una casetta in un paese di cui ho smarrito il nome”. Entriamo nella libreria dove si terrà la presentazione, saluto Miriam, una giovane donne bruna e sorridente, con una stretta di mano. Vedo una quindicina di copie del mio romanzo su un tavolo, mi sorprendo a scrutare la copertina che reca un’immagine di altre latitudini, di viaggi alla ricerca di nuove radici, di nuovi cieli non contaminati dal ricordo. Un po’ per volta la sala s’affolla di persone, giovani donne e uomini che seguono il corso di scrittura di Giuse. Lui mi chiede quali sono i miei autori, le mie letture preferite. Ma prima di rispondergli, guardo il pubblico e inizio a parlare delle mie sensazioni, del mio essere ritornato in questa casa dimenticata e sepolta dal tempo. Writerhttp://www.writer-racconti.org/