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Esecuzione (omaggio a Sartre)


Le quattro del mattino. Manca solo un’ora, sessanta minuti che posso impiegare come preferisco. Posso stordirmi, pensare al passato o cercare di frenare il tremito che trasforma le mie mani in due insetti impazziti. Non riesco a pensare alla mia vita, anche se alcuni dicono che in questi momenti tutta l’esistenza scorre come un film rapido, proiettato a grande velocità. No, non è vero. I pensieri arrivano torpidi e sfocati, s’impigliano in nodi e ripetizioni simili a un sogno ossessivo che ripete, con alcune piccole varianti, lo stesso motivo, quasi a suggerire in chi lo sogna  l’urgenza del risveglio.  Nella stanza angusta, immersa in una fitta penombra, sono seduto su un materasso  duro e sottile. Levo gli occhi a fatica verso una finestrella posta troppo in alto per consentire uno sguardo su ciò che è fuori, ma anche se lo potessi fare, vedrei soltanto un corridoio su cui si affacciano altre porte munite di uno spioncino collocato a due metri di altezza.  Questa simmetria geometrica   mi sbigottisce, rende vani  i miei sforzi di dipanare la matassa di inerzia che mi grava addosso, di rintracciare un significato, anche arbitrario, che mi  permetta di capire cosa è avvenuto. Jean, gli interrogatori, i simulacri di tortura, la mia scelta di resistere, di astrarmi come se ciò che stava succedendo riguardasse qualcun altro, i colpi di pistola esplosi a salve contro la mia tempia, quel fragore assordante che mi rintronava, inseguito da risa nervose e sguaiate, la decisione di prendere in giro i carcerieri dando loro un indirizzo falso. “Andate, lo troverete in Rue Maissoneuve al n. 17, vicino all’ospedale degli Incurabili”.  In quel momento ho dovuto trattenere un moto di riso nervoso, al pensiero dei miei aguzzini, armati  di pistole, fucili e torce elettriche,   che si precipitavano verso  la casa, prendevano posizione intorno all’ospedale, facevano irruzione nella casa deserta, illuminando ragnatele e ratti spaventati dal tramestio dei passi e dalle voci concitate. Mi è sembrata un’immagine di una comicità irresistibile, degna di un cattivo film  poliziesco,  in cui gli attori recitano il proprio ruolo con una solennità eccessiva e lo scorrere dei minuti consegna un finale che anche uno spettatore distratto intuisce.  Ma adesso, anche quella scena ha perso i suoi contorni, il suo senso. Fa freddo, temo di rivolgere gli occhi verso il basso e trovare tra le mie gambe una pozza liquida che si allarga verso il centro del pavimento, lievemente inclinato. Manca solo mezz’ora. Non so se sperare che il tempo acceleri il suo corso e mi conduca verso l’esito previsto o si contragga e mi obblighi a rimanere un’infinità di secondi in questa sospensione dei legami, in questa palude in cui affondano i ricordi e i gesti consueti. Anche Marta appare  lontana, priva di consistenza e spessore, come un’ombra cinese a due dimensioni proiettata su un muro. Eppure, fino alla settimana scorsa, avrei dato due dita della mano per vederla, per poter passare una notte con lei, per poter coprire il suo corpo bruno e tiepido con il mio petto, con le mani,  con la mia lingua impaziente.Immagino il suo dolore, il pianto frenato dal suo orgoglio, i giorni che passerà nel tentativo di risistemare la mia immagine nella sua testa. Ma, in fondo, sono io quello che scompare. Lei vive, io muoio e questa circostanza rende tutto privo di peso, tutto tremendamente semplice e definitivo.Ecco, si stanno avvicinando alla cella, qualche minuto  prima dell’ora stabilita. Li sento armeggiare  pesantemente con le chiavi, un rumore metallico sordo, da convoglio ferroviario che si avvia. Entra il sergente  e mi dice, con un ghigno incerto, “ abbiamo preso Jean. Ha cercato di fuggire dalla casa ma lo abbiamo sistemato a dovere. Decideremo poi cosa fare di te”. Escono  dalla stanza, alle cinque del mattino, mentre il mio corpo si accascia per terra in un movimento inconsulto che non riesco a frenare.     Writerhttp://www.writer-racconti.org/