Writer

VIAGGIO AD ATITLAN (prima parte)


Tapachula (Messico) dicembre 1985Dopo ventidue ore di autobus, ho raggiunto lo stato dell’ascesi. I paesaggi scorrono indifferenti ed esausti, si mescolano gli uni con gli altri, rendono simili gli altopiani punteggiati di agavi e campi di mais, le zone calde, esuberanti di cafetales, banani, papaye e manghi, i tratti di costa, schiacciati dalla calura e densi di palme e le montagne incombenti, la sierra da cui siamo discesi o che ci apprestiamo a risalire.Ci fermiamo in una stazione sporca e gremita, assediata dai venditori di tamales, bibite fredde racchiuse in sacchetti di plastica, dolci di cocco e di guayaba, quesadillas e tostadas. Tapachula, penultima tappa prima di varcare la frontiera col Guatemala. E’ il mio primo viaggio oltre frontiera, dopo quasi cinque anni di permanenza in Messico, il mio paese ormai.Scendo a fatica, prendo il mio zaino dal bagagliaio, mi sposto verso l’esterno della stazione. Furgoni aperti, camion, pick up che sembrano stare lì per caso, ma che, all’improvviso si riempiono di moltitudini vocianti che caricano pacchi, ceste, contenitori, galline vive legate due a due, secchi di gamberi, valigie e borse. “Dove sarà il collettivo per Ciudad Cuauhtemoc?”, mi chiedo, mentre apro il secondo pacchetto di sigarette del giorno.Non devo aspettare molto, arriva un autobus preistorico, con le persone appese alle porte e le valigie legate sul tetto. Cerco di salire, facendomi strada nel muro di corpi che ostruisce l’entrata. Un ragazzo mi fa un cenno, come a dire “vai su, vai su”. Salgo per la scaletta posta sul retro dell’autobus, mi sistemo tra due ceste di frutta, mi siedo sul mio zaino, aggrappandomi a dei mancorrenti posti a protezione dei bagagli.Dopo un’attesa che mi sembra eterna, incominciamo a muoverci, caracollando su un terreno pieno di buche. Lasciamo la città e c’inoltriamo in una campagna fertile, piena di alberi che non so riconoscere. Salgono due giovanotti di circa diciotto anni e un signore con un cappello texano, camicia bianca e stivali rancheros. Iniziamo a parlare. Mi chiedono da dove vengo, da che parte degli Stati Uniti. Rimangono un po’ interdetti quando rispondo che sono italiano. “Sabe usted, Italia, Europa, el Papa, Roma”. Il signore non presta attenzione alle nostre chiacchiere.  Ogni tanto sputa verso il terreno, con cura, come se fosse un’incombenza importante. I giovani vanno in Guatemala. Lavorano in Chiapas come braccianti stagionali e adesso ritornano a casa per qualche settimana. Chiedo loro come va in Guatemala e mi rispondono frettolosamente “va tutto bene”,come se avessero paura di essere ascoltati da qualcuno. Il più giovane aggiunge “c’è poco lavoro”, poi tace come se si fosse pentito di aver parlato troppo. Sono anch’io un po’ preoccupato. La dittatura militare è stata appena sostituita da un governo civile, ma il ricordo dei massacri, dei “villaggi modello” e della repressione militare è troppo recente per considerare il paese sicuro. Si mormora dell’esistenza di squadroni della morte, composti da poliziotti fuori servizio, specializzati nel fare sparire gli oppositori. Più giù, in Salvador, monsignor Romero, l’arcivescovo della capitale, è stato ammazzato in chiesa mentre diceva messa. Guardo i paesaggi, le facce dei ragazzi, le mercanzie accatastate e, chissà perché, mi sento felice. Felice di muovermi su un territorio dove i riferimenti abituali dell’occidente sono sostituiti da segnali diversi, da volti differenti, da altre consuetudini.Ecco, stiamo entrando a Ciudad Cuahutemoc. Quattro strade sterrate che s’incrociano, case basse, negozi e bancarelle ovunque. Gruppi di cambiavalute che esibiscono voluminosi fasci di biglietti, pesos e quetzales. Cambio un po’ di soldi, mi presento al posto di frontiera. Attendo pazientemente il mio turno, il doganiere mi chiede quanto mi fermerò in Guatemala.  Rispondo “dos semanas”, mi stampiglia un visto valido un mese e mi chiede tre dollari come diritto d’entrata. Pago con sollievo, cammino trecento metri e salgo su un altro autobus che sembra risalire agli anni ’50. Ma almeno è semivuoto.Mi accascio sul sedile, pensando che sto viaggiando senza interruzione dalle tre del pomeriggio del giorno prima. Mi addormento. Quando mi sveglio, l’autobus è stracolmo. Siamo seduti in tre su un sedile da due. Nel corridoio angusto, decine di passeggeri che formano un groviglio di braccia e gambe.“Donde estamos?”, chiedo al mio vicino, un signore robusto sui cinquant’anni.“Quasi a Mazatenango”, mi risponde. A Cocales devo scendere e passare la notte in qualche paese, prima di intraprendere l’ultimo balzo verso i vulcani di Atitlàn.Quando scendo è buio fitto. Siamo in campagna. Un giovane s’avvicina e mi dice “vado anch’io a Patutul, vieni con me”. Chiede un passaggio ad un autotreno gigantesco. Il conducente si ferma, con uno stridore apocalittico di freni. Saliamo. Il ragazzo mi dice di essere militare di leva. Sta tornando a casa, anche lui. Il viaggio non dura molto, dopo mezz’ora arriviamo in paese.Ci ritroviamo su uno stradone impolverato, ai cui margini sorgono case basse. C’è un solo hotel, una stamberga con stanze disposte in fila intorno ad un cortile rettangolare. Chiedo una stanza. Mi chiudo a chiave e mi spoglio. Prima di andare a letto, sento qualcuno che cerca di entrare nella stanza.Urlo “quien es?“, ma è solo una signora che non trova la porta della sua camera. Mi addormento di schianto, alle nove di sera. *** La mattina dopo, mi sveglio di buon ora e vado alla stazione degli autobus.Ma forse il termine “stazione” è improprio. Nella strada principale, davanti a due botteghe di alimentari, s’accalcano una decina di mezzi.Chiedo se vanno ad Atitlàn, ma ricevo in cambio solo espressioni dubitative e perplesse. Mi siedo impaziente e fumo, ho voglia di arrivare. Si siede accanto a me un mendicante e mi chiede un quetzal, esibendo una gamba ridotta ad un osceno moncherino. Gli dico di no, che se ne vada. Insiste. Vuole mezzo quetzal. Salmodia una litania in cui ripete “guarda.. guarda la gamba.. che è per te mezzo quetzal?… sii buono… guarda la gamba”. Poi scende a 25 centesimi, si stringe il moncherino tra le mani. Gli dico di andare a rompere i coglioni a qualcun altro (“no me chingues”), ma lui mi guarda e mi dice “almeno la tua fretta, regalamela”. Estraggo una moneta dalla tasca, gliela do, lo guardo andar via con sollievo. Arriva l’autobus, alla fine. Prende una strada bianca e gibbosa, procede a 20 kilometri all’ora, attraversa una campagna verde che sembra non toccata dalla mano dell’uomo. Tre ore di viaggio, ma ormai siamo vicini, ormai stiamo per entrare nell’abitato di Santiago Atitlàn(fine prima parte)Writerhttp://www.writer-racconti.org/