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VIAGGIO AD ATITLAN (seconda parte)


                                      (interno della chiesa di Santiago Atitlàn)Su Santiago incombe un vulcano alto più di tremila e cinquecento metri, separato dall’abitato da un’insenatura del lago. Il paese è povero, ma decoroso. Dalle case di mattoni e legno, immerse in una vegetazione lussureggiante di banani e caffé, viene su un filo di fumo, alimentato dai camini. Grappoli di bambini e bambine, vestite con i loro costumi multicolori, stazionano davanti alle porte, s’inseguono per strada, ma al mio passaggio tacciono e mi guardano fissi, come se fossi un alieno disceso sul villaggio.Scendo verso il lago, di tonalità cangianti di azzurro e mi siedo sull’erba, mentre alcune donne, nei loro huipiles, lavano i panni sulla riva del lago e alcuni ragazzi giocano a pallone in uno spiazzo erboso. Sto lì a guardare le barche, l’acqua attraversata da una debole corrente, il profilo, insieme aspro e dolce, delle montagne che circondano il lago. Fumo e cerco di abolire i pensieri, anche se si ripresentano tenaci. Mi stendo e fisso il cielo solcato da nubi, che sembrano mosse da una mano invisibile.Rimango disteso un tempo imprecisato, poi la fame ha la meglio e mi spinge a cercare un ristorante. Detesto mangiare da solo, ma il digiuno mi sembra un’alternativa peggiore. Risalgo la strada, m’inoltro nel paese. Entro in una bettola con 4 tavoli e lunghe panche di legno. Mi faccio servire carne, fagioli, tortillas e salsa piccante. Penso che sono solo le sei del pomeriggio, mi si spalanca una serata vuota e lunga. Dal tavolo vicino, vedo tre uomini ed una donna che scherzano e ridono forte. Gli uomini corteggiano la donna, che lascia fare, ma senza offrire eccessiva confidenza. Sento uno degli uomini parlare di “Adamo ed Eva, che furono scacciati dal paradiso terrestre perché vollero assaporare il frutto del peccato”. Chissà perché, m’intrometto e dico che furono espulsi perché vollero assaggiare il frutto della conoscenza, non quello del peccato. Uno degli uomini mi guarda incuriosito, m’invita a sedere con loro. Il tavolo si riempie di birre, le risate salgono d’intensità, mentre si parla di cose di cui ho smarrito il ricordo. Guardo di sottecchi la donna. Non è bella, ma sembra avere una forte personalità. Un volto da mestiza, labbra grandi e carnose, pelle olivastra, fianchi grandi ed un cappello che le incornicia il volto e le dà un’aria malandrina. Quando uno degli uomini s’avvicina per darle un bacio sulla guancia, lo tiene a distanza mormorando parole cortesi ma definitive. Vive negli Stati Uniti, lavora in Wisconsin da almeno otto anni. Anche lei sta tornando a casa per le feste di Natale.Quando qualcuno propone di scendere al lago, per “vedere la luna”, lei si alza e torna al suo hotel. Mi ritrovo sul bordo del lago a chiacchierare delle comunità locali e del grosso lavoro che occorre realizzare per garantirne lo sviluppo. Qualcuno mi passa una canna, con estrema prudenza. Fumo e mi congedo dai tre, salutato da vigorose strette di mano.Torno in hotel, mi siedo su una sdraio del cortile interno. Si apre una porta e appare un volto. E’ lei, la donna del ristorante, che mi guarda sorridente e interrogativa. Le chiedo se posso entrare e mi ritrovo su una seggiola di legno malferma, mentre lei si siede sul letto.Mi sembra un segno del destino così sfacciato che decido di forzare il corso degli eventi. Mormoro “se ti do fastidio, dimmelo” e mi siedo accanto a lei.Ci guardiamo un attimo, entrambi stupiti, poi mi chino su di lei e la bacio.Me lo restituisce con forza, lascia che le mie mani accarezzino i suoi seni, ma quando faccio per spogliarmi, mi ferma e dice “non sono preparata, non ho portato nessun contraccettivo”. Un ultimo bacio e sono fuori dalla sua stanza, con una contentezza che m’assale come il sapore di questa terra forte e addolorata.(fine seconda parte)Writerhttp://www.writer-racconti.org/