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Millenovecentosettantasette


Iris ha due occhi blu intenso. Uno è mobile, l’altro sembra guardare fisso. Una cicatrice -piccola ma netta- le attraversa la guancia. I seni sono piccoli, tondi, alti. E’ sottile, slanciata, il corpo androgino. Porta un casco di capelli biondi, ha il volto di una bambina corrucciata. La trovo bella, di una bellezza strana, conturbante. Si fa incontrare alle assemblee del movimento dove prendo la parola, come se passasse lì per caso. Mi sorride, mi dice qualcosa che non afferro, va via. Tutt’intorno almeno cinquemila persone che urlano, si scontrano, si rubano la parola, si spingono via dal tavolo della presidenza, danno indicazioni contrastanti, mimano il gesto di sparare all’indirizzo di polizie vecchie e nuove.Domani il movimento scende in piazza, dopo quindici giorni di occupazione e la cacciata del sindacato dall’università. Si sbraita di servizio d’ordine, si parla di “autodifesa”, di “criminalizzazione da parte delle forze repressive”, di “solidarietà con i compagni in galera”, si va via senza che nulla sia stato deciso. Ritrovo Iris alla fermata dell’autobus mentre sta salendo sulla circolare che la porta a casa. Le chiedo se vuole mangiare un piatto di pasta da me, rimane con la gamba a mezz’aria, ridiscende senza voltarsi, dandomi la schiena.Sono così sorpreso da quel movimento- meccanico e sciolto allo stesso tempo- che mi do del cretino. Chissà da quanto voleva che glielo proponessi. Sento anche un pizzico di paura, come chi sa di andare verso una meta desiderata e pericolosa.Sto da un po’ di tempo con Marina. Lei si serve di me per far ingelosire il suo fidanzato che vive a Perugia. Scopa con me per recuperare lui. Non m’importa tanto, in quel frenetico ed incasinato marzo del ’77, tutti stanno con tutti, c’è un movimento perenne di persone che salgono, scendono, s’incontrano, si siedono, si agitano, corrono, si dimenano, dormono in letti altrui.Andiamo a casa, non è lontano. Saliamo cinque piani di scale, la faccio entrare, metto su l’acqua della pasta ed intanto mi sintonizzo su “Radio Città Futura” che parla dei contrasti in seno al movimento, dell’ala dura dell’autonomia che vuole trasformare il corteo in un teatro di scontri, mentre il resto dei collettivi e delle organizzazioni vuole scendere in piazza con forza, ma senza innescare episodi di guerriglia.“Sei preoccupata?”, le chiedo. “Non tanto, al massimo scappiamo”. Mi sorride con un’espressione indefinibile, che mescola grazia e sfrontatezza. La guardo e penso che quella fottuta pentola ci mette un sacco di tempo a mandare l’acqua in ebollizione. ***Al corteo sono diviso tra il timore di prendere un candelotto lacrimogeno in faccia ed il ricordo di quello che è successo nel pomeriggio del giorno prima, quando Iris mi regalato un piacere sconosciuto. C’è uno spiegamento di polizia che fa paura. Migliaia di celerini in assetto di guerra, a ranghi compatti, dappertutto. Ma neanche i manifestanti scherzano. Vedo rigonfiamenti sospetti sotto i giacconi e mi auguro che siano soltanto bastoni. Si sussurra che il collettivo di architettura, da solo, ha preparato 120 molotov. Mi ritrovo, chissà come, a delimitare un tratto di corteo con una spranga di ferro che qualcuno mi ha dato.Mano-spranga-mano, così occorrono meno persone per fare il servizio d’ordine. Ma è una fatica sprecata. Dal corteo si staccano gruppi di persone che devastano un hotel, bruciano decine di automobili, mentre il cielo diventa livido e la pioggia si mescola con i bagliori degli incendi ed il fumo dei lacrimogeni.Iris mi prende per mano, lasciamo il nostro spezzone ed andiamo avanti. Siamo una marea, ma si sentono distintamente raffiche di colpi di arma da fuoco, a sinistra, a destra, in lontananza, sempre più vicino.Il corteo si spezza in diversi tronconi, ognuno dei quali sembra percorso da correnti contraddittorie. Gente che corre in direzioni diverse, che ritma slogan, che impreca, che urla “via via”, non si sa se alla polizia o ai guastatori. A Piazza del Popolo non si entra, il corteo sembra essere una mandria di bufali inseguita dall’odore del fuoco che sbanda e devia. Una parte piega verso il ponte, alcuni tornano indietro, qualcuno prosegue sul lungotevere verso quello che sembra essere uno stretto collo di bottiglia. Spari di mitraglietta bucano il frastuono infernale. “Andiamocene”, urlo. Butto la spranga, mi slaccio la fascia rossa dal braccio, prendo Iris per mano, m’infilo in un dedalo di stradine costeggiato da vetture fumanti e schegge di vetro, ci facciamo largo miracolosamente in mezzo ad una moltitudine che sembra aver smarrito direzione e senso e corre alla cieca bagnata fino al midollo e semisoffocata. Arriviamo in un viale ampio e riusciamo a prendere un tram che pare aver ignorato il divieto di circolazione. Ci guardiamo in volto. “Che giornata di merda, cazzo”, sibilo. Lei incolla il suo corpo al mio e mi dà un bacio a piene labbra. ***Torniamo a casa e sento una sensazione d’irrealtà che mi pervade. Il quartiere è buio e tranquillo, ma la radio parla di centinaia di arresti, della città in stato di emergenza, di feriti e di saccheggi.Ci spogliamo, tiro fuori degli asciugamani grandi, ci asciughiamo, ci avvolgiamo nelle lenzuola per recuperare un po’ di calore.Non ho voglia di fare l’amore, ho le gambe pesanti, i polmoni gonfi di vapori acri, le braccia esauste. Restiamo così, come candidi fantasmi appoggiati uno all’altro a godere del silenzio.Solo alle tre del mattino penetro Iris come se volessi fecondarla, come se volessi vederla, sei mesi dopo, al congresso di Bologna con una pancia prominente che sbuca dai suoi jeans e modifica il suo profilo androgino.Writerhttp://www.writer-racconti.org/