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La casa


Procedo ormai da due ore   sul versante della montagna con passi lenti e cadenzati. Evito di guardare  verso valle, il mio sguardo è rivolto  verso la cima che sembra mantenersi sempre alla stessa distanza. Cammino su un sentiero sassoso che forma  delle serpentine, seguendo la pendenza del terreno. Sono sicuro che se mi voltassi, cadrei   in  preda a un senso di vertigine causato non  dall’altezza, ma dalla ricerca spasmodica di un segno di vita, di  un segnale  conosciuto in questo territorio ignoto che attraverso. Ogni tanto  volgo il capo verso il torrente  che scorre formando rapide e brevi cascate,  restringe il suo corso fino a diventare uno scroscio tumultuoso d‘acqua  tra due massi affiancati    o si allarga in una placida corrente nei tratti pianeggianti. Mi avvicino a una roccia di dimensioni enormi,  che sembra in equilibrio instabile su uno spigolo conficcato nel terreno. Scorgo dei buchi, simili a cunicoli scavati dal tempo o da un esercito di forzati, un insieme di occhi neri sulla parete. Il masso misura almeno cinquanta metri di altezza, devo alzare la testa per intravederne la sommità. Mi fermo,   esploro con una torcia una delle gallerie, ma il fascio di luce si perde  in un pulviscolo senza che arrivi a scorgerne la fine. Rimango incerto, muovo due passi verso l’interno, ma un fruscio  che non riesco a decifrare mi fa uscire  quasi con un balzo da quell’ambiente. Riprendo a salire, a passi rapidi. Adesso il sentiero si perde in una pietraia disuguale e primitiva, disseminata da cespugli e vegetazione bassa.. Devo saltare da una pietra all’altra per evitare le fratture che disseminano questa parte della montagna. Stringo una cinghia dello zaino che sembra allentata,  bevo un sorso d’acqua dalla borraccia. Continuo a guardare la cima innevata che si mantiene a una distanza costante. Il pendio diventa aspro, a volte sono costretto ad aiutarmi con le mani nei punti più impervi. Salgo con ostinazione, a bocca chiusa, ascoltando il ritmo del mio respiro  che s’affretta, anche se mi costringo a respirare in profondità.Mi sorprendo a contare mentalmente. Duecentoquarantacinque… duecentoquarantasei… duecentoquarantasette… C’è un passaggio difficile, due pareti a imbuto quasi verticali di terreno friabile e un masso in mezzo che ostruisce il cammino. Provo a saggiare le sporgenze sulla roccia, a caricare il peso sulla gamba sinistra, su quella destra, ma non trovo appigli per potermi arrampicare. Ripeto l’operazione  guardando il masso con concentrazione, mentre i piedi cercano un punto di appoggio provvisorio. Riesco a issarmi e mi ritrovo quasi aggrappato alla parete a braccia larghe e con il corpo che vibra per lo sforzo. Procedo trascinato dal mio stesso slancio,  come se salissi una scala di pietra invisibile, aiutandomi con le ginocchia, le gambe, con tutto il corpo. Arrivo in cima, mi fermo ansante. Il pendio ora è più dolce, intravedo un vasto pianoro che si apre come un palcoscenico erboso. Riprendo a camminare… seicentosettantanove…seicentoottanta… seicentoottantuno… Sono arrivato quasi a cinquemila, quando la vedo, quasi irreale. Una casa costruita nel nulla, dai tetti spioventi e le mura di pietra. Nessuna mulattiera, nessuno spazio attrezzato per atterrare con elicotteri. Sembra che abbiano livellato una parte di montagna per poter edificare quella costruzione che ha il colore grigio delle pietre e le pareti delle stanze dipinte di un bianco accecante. Davanti alla porta d’ingresso ci sono due persone, immobili. Sembrano attendermi, l’espressione del volto appare distesa. Odo una voce acuta che chiede loro qualcosa che non afferro. Il mio ultimo desiderio è stato esaudito, penso entrando nella casa della mia infanzia.Writerhttp://www.writer-racconti.org/