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Antonio Nasar (prima parte)


Cari amici di Digiland, pubblico la  prima parte di un racconto a cui sono molto legato. E' tratto da "Sguardi", il mio primo libro di racconti, che da pochi giorni potete anche visionare su "Lulu".  Parla di un uomo alla ricerca di una nuova vita.
                                     (Diego Rivera, "Alameda")Uno Antonio Nasar si svegliò sapendo cosa fare. Finito il peso che gravava su di lui come un cumulo di pietre. Terminata l’epoca dell’incertezza, dei rinvii, dei troppi caffé bevuti  al bar di Ibrahim mentre aspettava che le ore  scivolassero fissando un punto qualunque della strada. Scomparso quel torpore che lo incatenava al letto, alla casa cadente, al vicolo perso nella città vecchia, al quartiere labirintico in cui la sua famiglia aveva vissuto per  dodici generazioni, prima di estinguersi quasi per intero. Lontano lo sguardo di Fatima, i giochi nella campagna di Baalback, gli olivi e  le colline dove amava camminare per ore, i volti dei ragazzi con cui era cresciuto.Si sentiva bene, quel giorno, Antonio Nasar. Libero da ricordi, dai rimpianti che, simili a una melma vischiosa, imprigionano l’esistenza in un continuo vai e vieni dai fallimenti presenti a quelli passati, dal pensiero  di ciò che sarebbe potuto diventare se fosse stato differente, più pronto, più coraggioso, meno prigioniero delle consuetudini.Si alzò dal letto con un solo movimento, si vestì senza perdere tempo, si diresse verso la cucina dove venne salutato dal festoso abbaiare del suo cane. Lo prese in braccio, fece il gesto di accarezzarlo sotto il collo e, mentre la bestia s’inarcava per ricevere l’inaspettata carezza, gli tranciò la gola con un coltello da cucina. Lo tenne stretto un attimo, poi depose il cadavere  sul pavimento. Versò per terra del liquido incolore dall’odore acre con metodo, con pazienza. Cosparse la sala con i divani bassi e i tappeti libanesi, la camera  da letto, ancora in disordine, l’armadio di legno con i suoi vestiti, il piccolo bagno adornato di piastrelle rosse e marroni, l’entrata quadrangolare spoglia, persino il minuscolo balcone.   Accese un fiammifero e vide le fiamme azzurrognole  levarsi rapide. Diede un’occhiata alla sua casa che bruciava, indossò il cappotto, chiuse la porta e scese l’unica rampa di scale che lo separava dal portone.Si mise a camminare per strada mentre nugoli di persone accorrevano verso il luogo da dove era uscito. Era una giornata fresca, spazzata  da un vento teso di maestrale. Una magnifica giornata, pensò Antonio Nasar, mentre si dirigeva a passi svelti verso il porto.   Due La nave fendeva i flutti con fatica. Era un vecchio mercantile, quasi una carretta del mare che trasportava il suo carico arrancando. Da Beirut a Cipro, da Cipro a Creta, da Creta a Malta, da Malta a Biserta, da Biserta a  Orano, da Orano a Cadice.Antonio Nasar toccò terra di Spagna ventidue giorni dopo essersi imbarcato. Durante il viaggio era rimasto lunghe ore sul ponte guardando il mare. Dormiva poco e i suoi pensieri non inseguivano più il passato. Scendeva nei porti intermedi, camminava per quelle città a lui sconosciute, si sedeva sui moli, sostava in caffè dove si parlavano gli idiomi compositi del mediterraneo. Ma non fissava, come faceva da Ibrahim,  un punto qualunque della strada. Guardava i volti, le case, i colori delle strade, catturava le espressioni di gioia, dolore, indifferenza, ostilità, derisione, simpatia. Viveva e agiva nel presente. A Cadice rimase alcuni giorni in una pensione di quart’ordine. Ascoltava l’andaluso secco e sibilante come una versione ignota di una lingua conosciuta.Amava il vento, Antonio Nasar, ne decifrava le direzioni, la forza e la durata, l’influsso sulle correnti e sulle onde; amava il bianco, quel candore scritto nelle pietre, nel latte e nella neve che aveva scorto una sola volta in vita sua.Lasciò Cadice con un larvato senso di piacere, ma senza desiderio alcuno di tornarvi. Prese un treno che, attraverso Siviglia, lo condusse fino a una città posta sull’estuario del Tago. Il fiume era così ampio che sembrava un mare: dietro di lui una grande piazza quadrata, una via rettilinea costeggiata da case basse; davanti a lui una stazione marittima e delle barche che portavano dall’altro lato del fiume.  Antonio Nasar non guardò verso il quartiere dell’Alfama, ignorò la cattedrale gotica, orgoglio di Lisbona, né diresse il suo sguardo alle costruzioni regolari della Baixa. Aspettò che arrivasse la  barca che l’avrebbe  condotto a Setubal, in attesa di partire verso un angolo qualunque dell’atlantico americano.(continua...)Writer