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Antonio Nasar (seconda e ultima parte)


                  (David Alfaro Siqueiros  "Nuestra imagen actual», 1942)    Tre Vera Cruz vista dal mare assomiglia a un porto qualsiasi: lunghi moli, mercantili, petroliere e navi passeggeri, una fila di costruzioni  bianche, casette con le porte colorate di verde e azzurro. Solo la vegetazione esuberante che copre la pianura e alcune colline molli e lontane la rende diversa  da Larnaca o da Heraklion. Antonio Nasar sta a braccia conserte mentre la nave s’avvicina alla terraferma e attracca. Ha viaggiato per dodici giorni senza interruzione, solo mare, vento e strida di uccelli. Calca il suolo  senza emozione apparente, s’avvicina alla dogana dove spiega, a gesti, che non ha nulla  da dichiarare. Deve premere un bottone posto davanti a un semaforo. Si accende una luce verde e passa con la sua valigia che assomiglia a una cartella da scuola, mentre una voce esclama “bienvenido a México”. Elude le persone che offrono servizi di taxi e alberghi economici, esce dalla  zona del porto, camminando ai bordi di una strada piena di buche delimitata da  padiglioni industriali e stazioni di servizio.  Arriva in una piazza ampia circondata da portici, tavolini all’aperto e bar. E’ un luogo allegro pieno di alberi che, a eccezione delle palme, gli sono sconosciuti. Vede alcune persone vestite di bianco che suonano con delle bacchette uno strano strumento che assomiglia a una pianola. Si siede a un  tavolo, chiede “un café”, sbircia all’interno e scorge una monumentale macchina per gli espressi cromata e rilucente. Se si avvicinasse  vedrebbe scritto, a  lettere di bronzo, “Rossi, Torino, 1905”. Ma Antonio Nasar è intento a guardare gli uomini che suonano la marimba. C’è qualcosa in quel suono che  lo colpisce,  un ritmo argentino e brillante che ricorda altri tempi, altri sguardi, sonorità diverse e antiche, nenie cantate da una persona dal volto indecifrabile a Baalbeck prima di addormentarsi.Scaccia quei ricordi, Antonio Nasar, come chi allontana un pugno di mosche fastidiose. Beve il suo caffé, rimane a lungo seduto per appropriarsi del luogo. Si alza per andare a cercare una pensione, mentre il sole inizia a declinare e lo  abbacina per un istante.  “Il mio viaggio è finito”, mormora come se stesse salmodiando un versetto del Corano.  Quattro Filtra il sole sulla piana di Alvarado, illumina una distesa di campi di mais, di alberi di mango e di ananas, di piantagioni di caffè rosseggianti. Qualche nuvola orlata di rosa, verso l'estremità del cielo.Antonio Nasar si sveglia presto, come è solito fare ormai  da dieci anni. Si affaccia alla porta della casa, intuisce il profilo del fiume, si mette a lavorare nel suo orto, senza perdere tempo, con calma operosa.I suoi pensieri non hanno più paura di inseguire il passato. Lo accarezzano come mani che curano campi di pomodoro e granturco. L'hotel "Estrella del mar", i lavori  casuali trovati al porto, l'amicizia con Mohammed Ibn Al Khalifi, il commercio del  caffé, prima come semplice raccoglitore, poi come distributore su un furgone che percorreva le strade tra Veracruz e Oaxaca, infine come socio e produttore, la sua casa persa in mezzo al verde e al giallo del mais, le colline e il profilo, nelle giornate trasparenti e adamantine, del pico de Orizaba, montagna altissima che domina la sierra di Puebla, tutto questo ricorda Antonio Nasar mentre riceve il sole che abbacina il suo volto come in un pomeriggio di tanti anni fa.Non è un uomo di montagna, Antonio Nasar. Ha vissuto tutta la sua vita tra mare, pianura e lande aride, orizzontali e scabre.Ma una volta è stato attratto dalla vertigine del vulcano. Ne avvertiva l'odore, il movimento segreto che pulsava nelle sue viscere. E si è incamminato lungo la dorsale dell'Iztaccíuhatl lungo una pista di sabbia che gli ricordava altri luoghi, altri tempi, altre estensioni. Scese dal vulcano con una lieve sensazione di nausea causata dall'altezza che si mescolava a un senso di vertigine come chi rimane troppo tempo aggrappato a un 'idea e non riesce ad  allontanarsene, se non a  prezzo del proprio equilibrio. Tornò nella sua casa, nella piana di Alvarado e, ogni tanto, riprendeva a scrutare il mare e a decifrare i venti. Ma adesso  ha solo occhi per le sue piante che vuole veder crescere rigogliose e  alte. Mentre lavora, scorge una sagoma che si muove rapida  tra i campi di granturco. Anzi, guardando con attenzione, si potrebbe  percepire una  doppia presenza. Un corpetto viola su una gonna gialla  e un animale  che corre, torna indietro, sembra precedere  i propri passi. Ma Antonio Nasar guarda verso il fiume, pare  respirare la direzione dei venti, si china verso una pianta e, con  un colpo secco, la libera dalle erbacce  che l’avvincono.(fine)WriterIl mio sito