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Nuweiba


Memorie di un viaggio in Sinai...
La jeep s’inerpica su una strada larga e dissestata, quasi un’autostrada di polvere in mezzo al deserto. Promontori di terra ocra dai finestrini. Terra rossa e cielo cobalto. Pietre bianche e brune, un albero stento ogni due chilometri. Una casupola irreale su uno slargo del terreno. Viaggiamo da più di tre ore e le risate hanno ceduto il posto a un silenzio affaticato e alla ricerca di una posizione comoda per le gambe, spossate dall’immobilità forzata.Un posto militare. Soldati che controllano svogliatamente passaporti e visti. “Come mai questo controllo, se non abbiamo varcato nessuna frontiera”? “Il Sinai è terra di confine, è stato occupato da Israele nel ’67  e restituito all’Egitto nel ’75, in seguito agli accordi di Camp David”, spiega la guida in un ottimo italiano. Proseguiamo. Un microscopica oasi  fatta di tre case e una ventina di palme appare all’improvviso e scompare inghiottita dal tornante successivo. La pista sembra scomparire. Davanti a noi solo una serie di buche e avvallamenti nel terreno che costringono le “Land Rover” a  procedere caracollando, mentre ci reggiamo forte  per evitare di sbattere l’uno contro gli altri.  Un ultimo strappo e siamo arrivati. Il canyon si rivela come  un anfiteatro di rilievi montuosi dalle tonalità cangianti disposti a semicerchio. Un sentiero di pietra scende giù serpeggiando. Ci incamminiamo  dietro la guida che ci mostra i differenti colori delle pareti. “Il rosso è il rame, il giallo è lo zolfo, il verde e il nero è ferro, il bianco sono fosfati”, ci dice indicandoci le striature orizzontali che attraversano le gole del canyon. Ci ritroviamo in un cunicolo strettissimo, a volte di soli sessanta centimetri di larghezza, sovrastato da pareti di decine di metri di altezza. Leggo con raccapriccio una scritta sulla roccia che sembra tracciata con un gesso, “forza Roma” e penso che l’imbecillità umana non ha confini. “Sarà questa la globalizzazione?”, mormora uno dei miei compagni di viaggio. “Sì, quella dei fessi”, rispondo sibilando. Intanto il percorso diventa accidentato, come se una mente capricciosa avesse voluto costringere i visitatori a  fare acrobazie per penetrare il segreto delle montagne. Dobbiamo passare attraverso una fenditura nella roccia che termina in uno scivolo verticale di due metri, il buco della rinascita per la sua somiglianza con una vulva femminile, da cui usciamo a fatica; occorre aiutarsi con le mani e con la schiena nei punti più impervi. Alla fine, il canyon si allarga e posso salutare un beduino seduto per terra all’ombra dell’unico albero della zona con un “salam aleikum”. Si cammina spediti ora e lo sguardo può indugiare sui profili del “canyon colorato” e riconoscerne le sedimentazioni  stratificate nel tempo. I ragazzi che viaggiano con noi  (due giovani di Milano e due ragazze di Trento) hanno ripreso a ridere, mentre percorriamo il fondovalle in una calda giornata di fine dicembre e ci apprestiamo a risalire dall’altro capo del canyon.La pietraia è abbacinante, non posso fare a meno di pensare all’estate quando la temperatura raggiunge i cinquanta gradi   e  l’aria è tremolante di un caldo secco che procura vertigini.Siamo in cima adesso e guardiamo verso le montagne che abbiamo attraversato.Silenzio, solo una mano che indica una linea davanti a noi, tracciando un lieve movimento.Mi accendo una sigaretta, prima di rientrare nella jeep che ci porterà verso il mare, le spiagge di Nuweiba e il profilo scabro delle coste dell’Arabia, dall’altro lato del golfo di Aqaba,  porta immaginaria dell’Oriente.Writer