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La condanna (Omaggio a De André)


Questa testo, in origine, è stato scritto come omaggio a uno dei più grandi poeti del'900 -Fabrizio De Andrè- e alla sua canzone "Il giudice". Mi è venuto in mente che, da quando l'Onu ha approvato la moratoria delle condanne a morte, l'esito previsto nel mio racconto diventa un po' più difficile, anche se la pena di morte non scomparirà dai codici penali degli Stati uniti, della Cina e dell'Iran.   
 Giovanni, mi chiamo così. Non so perché mio padre mi ha posto il nome del Battista.  Me lo immagino alto, con i capelli castani, la barba ramata e lo sguardo infuocato mentre si aggira per la Galilea  oppure è intento a tuffare  uomini e donne nelle acque del Giordano. Io invece sono piccolo e non sono neanche stato battezzato. Mio padre, Vaclav, è slovacco e il comunismo realizzato è stato per trent’anni la sua guida, la sua ispirazione, una fede che si è stemperata nelle riunioni della segreteria  provinciale del partito.  Nel ’92 sono venuto via da Bratislava, non sopportavo più quell’atmosfera  ibrida che mescolava il passato con aspettative fantastiche di mercato, benessere  e  soldi facili. Se deve cambiare la mia vita –ho pensato- devo andare a vivere dove si fabbricano le illusioni e non vegetare qui, in questo luogo remoto e inchiodato a miserabili sicurezze ormai svanite. Un cugino che viveva a Nuova York da tempo e che si è detto disponibile  ad accogliermi mi è parso la soluzione migliore. All’arrivo, i poliziotti dell’aeroporto mi sovrastavano almeno di trenta centimetri. Dovevo sollevare la testa  verso il cielo per poterli guardare in  faccia.  Mi hanno rivolto qualche domanda scandendo le parole e guardandomi dall’alto verso il basso con un fare sbrigativo e, così mi è sembrato, sprezzante.Sono riuscito a ottenere un visto di entrata valido per due mesi. Mio cugino mi aveva mandato dei soldi che ho esibito e che mi sono affrettato a restituire una volta varcata la porta di un casa  di mattoni rossi nel Queen’s. Ho lavorato in nero per qualche mese, in una fabbrica  di birra, zeppa di portoricani, coreani, vietnamiti e persone dall’incerta nazionalità.   Lì ho conosciuto John, che mi ha introdotto nel giro delle scommesse clandestine. “Sei piccolo, hai il fisico di un fantino. Ti troverai bene con i cavalli e gli scommettitori”, mi disse consegnandomi una lista di nomi e un piccolo revolver. Sono sempre stato un tipo tranquillo e temevo un ambiente composto da maniaci, piccoli gangster e perdigiorno che  vivevano puntando,  come se la sorte fosse una ragazza capricciosa  da corteggiare per ingraziarsene i favori. Però ho accettato: ci si poteva procurare  anche mille dollari la settimana e l’idea di un  guadagno facile  ha avuto la meglio sul mio timore di ritrovarmi imprigionato in un giro losco e sordido.Nel mio nuovo lavoro non ho incontrato, come temevo, mafiosi col sigaro in bocca o pezzenti che s’impegnavano l’orologio per scommettere. Era tutto  più asettico, soldi che giravano, crediti da riscuotere, soffiate da verificare. Sono andato avanti così per un po’, senza sussulti, senza pormi domande, fino a quando ho  incontrato Hannah, un’ebrea canadese dalla risata forte e la parlata aspra.  La prima vera donna della mia vita, a eccezione di qualche prostituta  e di una compagna di scuola di cui ho smarrito persino  il ricordo del suo volto. Hannah mi voleva, non badava alla mia statura, mi accettava con quella noncuranza tipica degli americani, che sembrano vivere giorno per giorno, ignorando passato e futuro. Per qualche tempo,  mi è parso di  vivere una vita sensata, fatta di affetti e di lavoro, di  momenti di piccola, ordinaria soddisfazione. Però, così come mi ha voluto, mi ha lasciato per una persona che mi  è apparsa un gigante. Ricordo l’espressione ostile che aveva in volto nel  momento di andarsene, come se fosse vittima di qualche sgarbo, di qualche  ferita inferta da me, dalla mia bassezza.  Rammento anche lo stupore del suo volto mentre una macchia rossa le si allargava sotto il seno e io che guardavo incredulo la canna della mia pistola, quasi chiedendomi perché avesse sparato.Altri giganti sono venuti via e mi hanno trascinato come un sacco di patate in una stazione di polizia. In carcere ho dormito molto, mi sentivo atono e  senza forze e ripensavo a Bratislava, alla decisione di andarmene, al tempo uniforme che avevo davanti. Un tempo, lo sapevo, che era cambiato, a cui mancava solo il suggello della data finale.  Il processo è stato veloce. Dietro un lungo tavolo rialzato  sedeva un ometto come me, dalla carnagione olivastra che mi guardava con aperta ostilità, convinto di perdere tempo e occasioni importanti per colpa mia.Sei udienze, il massimo della pena. Mentre il giudice pronunciava la sentenza, con  un piacere appena dissimulato, come se fosse l’unica  parte del processo  che valesse la pena di essere recitata, ho ripensato al Battista, questa volta alla sua testa decapitata su un piatto d’argento. Avrei voluto alzare la testa e urlare “non mi fate paura, sono un uomo migliore di voi”, ma due  afroamericani in uniforme mi hanno quasi  sollevato, messo su un furgone e portato nel braccio della morte. Writer