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Un tranquillo pomeriggio


Ogni riferimento a persone e situazioni reali è puramente casuale...ma ci sono precedenti tragici. 
Salgo sull’autobus alle 15 e 30, un’ora neutra senza gente che va e  torna dal lavoro o gruppi di studenti che si spintonano vicino alle porte, urlando “che minchia fai?”  e ridendo a voce alta per vedere se qualcuno dei passeggeri s’infastidisce e li guarda male. L’autobus è mezzo pieno, tutti i posti a sedere sono occupati e una decina di persone viaggia in piedi, aggrappata a maniglie di metallo sudato o appoggiata su scomode pareti oscillanti. Mi metto a guardarli, per una volta  decido di non usare il mio  sguardo rigido e vacuo che si perde su qualche dettaglio insignificante del paesaggio urbano. Li osservo con attenzione, uno per uno. La signora grassa con un vestito a fiori vicina a un giovanotto seduto in jeans e giubbotto di pelle. Lei lo guarda  quasi con disgusto, come se fosse indecisa se chiedergli il posto o proteggere la borsetta.  Due nordafricani che chiacchierano a mitraglia nel loro idioma, godendo del non essere capiti. Vicino a loro un gruppetto di “latinos”, pelle olivastra e tratti indigeni, che parlano e ridacchiano mescolando italiano e spagnolo. Distinguo solo la frase “te gustò, hermano”?Più giù, verso il guidatore un quarantenne  con una borsa di pelle a tracolla, forse un informatore medico e, accanto a lui due ragazze giovani vestite con pantaloni strappati sul ginocchio, pancia in mostra e un piercing nell’ombelico. Vicino a me un tizio che parla a voce alta al cellulare con un certo  Gigi. Ripete “Gigi” ogni 30 secondi, come se volesse far sapere a tutti l’identità del suo interlocutore. Il trillo di una suoneria e vedo almeno tre persone  mettersi rapidamente le mani in tasca, simili a  pistoleri impegnati in un duello. Solo uno risponde con “sono in autobus, all’angolo con  Via Nazionale”, gli altri due ripongono sconsolati i loro strumenti nelle fondine.  Un trentenne con la faccia da tossico sbircia sulla spalla di un  signore calvo che legge un giornale. In fondo, quattro uomini dall’età indefinibile guardano fisso fuori dai finestrini. Sembra che abbiano paura di incrociare lo sguardo.  Si aprono le porte e sale una mamma con un bambino di circa un anno in un marsupio che tiene sul petto. Qualcuno si alza e lei si siede canterellando qualcosa verso il fagotto di braccia e gambe che porta con sé. Mormoro a voce bassissima “merda”, guardo la borsa voluminosa appoggiata in una nicchia tra i sedili e la piattaforma centrale che avevo intenzione di dimenticare sull’autobus al momento di scendere. Esito. Sono le 15 e 45, mancano ancora 15 minuti all’ora stabilita. Deciderò sul momento, quando l’autobus sarà più affollato, se innescare l’esplosivo e disintegrare il mezzo con il mio comando a distanza o prenotare la fermata e andarmene in giro  per un tranquillo pomeriggio di acquisti in zona Prati.  Writer