Fa freddo e camminiamo intirizziti percorrendo Rue de la Mouette. Giorgio corre su e giù intorno a noi e mi ricorda il cane di un amico, che percorreva spazi infiniti, ricamando sul sentiero una danza ellittica. Alice si stringe nel giaccone, si ferma davanti a un negozio di stampe antiche e guarda dentro con fissità. Arles, Provenza in Aprile. Giorni estivi e rigogliosi, gelate improvvise che spazzano di vento le strade lastricate, l'acciottolato antico, il colore indaco della lavanda e le valli. Avverto una sensazione strana, di inquietudine. Mi sento fuori posto, vivo un fastidio lieve e insistente che assomiglia a un leggero mal di denti. Non amo i francesi, la loro abitudine a disfare e rifare il mondo seduti al tavolino di un caffé, la loro prosopopea, la pedanteria travestita da dialettica.Anche questo angolo di provincia, graziosa e nobile, con le case curate, le piante alle finestre, le vestigia romane, la piazza du Forum con la statua di Mistral, le costruzioni antiche trasformate in hotel e i caffè su cui aleggia l'ombra di Van Gogh, m'appare come un palcoscenico delimitato da fondali di cartone.Arriviamo in riva al Rodano. Quasi un estuario, un buon chilometro di larghezza , rive basse e cespugliose. Un lungo ponte che l'attraversa punteggiato di traffico lento. Ci guardiamo in volto. Alice poggia la sua testa sulla mia spalla e mi cinge col braccio. Giorgio insegue i suoi passi cercando di precederli. Tutto si annuncia già visto, scontato. Solo a quel punto, a strappi, ci piomba addosso la contentezza. Torniamo indietro affrettando il nostro ritmo.
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