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Perù, 1979


Tratto da "Diecimila e cento giorni". Il protagonista arriva a Taquile, un'isola nel centro del lago Titicaca, tra Perù e Bolivia, e inizia il suo lavoro di alfabetizzazione della comunità locale, composta in massima parte di indigeni...
Il lavoro non è affatto male. Anche se la mia vita assomiglia sempre più a quella di un monaco o di  un eremita, inizio ad amare questi luoghi  solitari e impervi, l’estensione sconfinata dell’orizzonte, la Bolivia che s’intuisce sull’altra riva. Mi alzo prima delle sei e mi reco in riva al lago. Non sono mai stato troppo incline alla spiritualità e al misticismo, ma giuro che vedere l’alba che colora il Titicaca e la terra rossa dell’isola  che avvampa mentre il cielo si colora di rosa e arancio dà i brividi. Torno in paese per un caffè bollente e acquoso, mi lavo con acqua gelida e, alle otto, ho il mio primo turno di “lezioni”. Tre ore con ragazzi giovani, che hanno frequentato la scuola elementare in modo così frammentario da essere diventati analfabeti  di ritorno. Con loro non applico rigidamente il metodo delle parole generatrici.  Parliamo di argomenti che appartengono alla loro quotidianità. La confezione di vestiti, la pesca, gli alimenti e, quando hanno scelto alcune parole per loro significanti, vado alla lavagna, le scrivo con caratteri grandi e le sillabo. Poi cerchiamo insieme altre parole che contengono la stessa sillaba  Il “ma” di mais è lo stesso di “madre”, e questo lo intuiscono perfettamente, anche se il termine “madre” ha suscitato risolini e  battute da caserma, mormorate sottovoce. Qui la madre, nel linguaggio ordinario, è un paradigma di elementi negativi e positivi che convivono. La madre dà la vita, ma la vita è un insieme di  fatiche e umiliazioni  tali da rendere ambivalente la sua origine e la sua matrice. Ho fatto sganasciare la classe sillabando “coňo”- figa- e mettendolo in relazione con  “como”. Temo che Freire mi giudicherebbe con severità, ma questa fesseria ha fatto aumentare il mio livello di popolarità tra gli studenti di parecchio. Alle tredici, dopo un rapido pranzo, ho un gruppo di donne che ripetono le mie parole quasi con una cadenza ipnotica. Con loro ci vado piano, niente battute salaci, la comunità locale è molto sensibile sotto questo  aspetto e non vorrei finire affettato a colpi di machete da qualche marito geloso che ha mal interpretato una battuta del “profesor”. Gli uomini adulti che lavorano tutto il giorno nei campi o pescando arrivano verso le cinque del pomeriggio, alcuni si addormentano durante la lezione come se fossimo in un libro  di De Amicis, però la maggioranza di loro s’impegna con tenacia e, nel giro di qualche settimana, ha imparato a  vergare su fogli di carta screpolati il proprio nome e cognome.  Ceno e rientro nel mio eremo verso le otto di sera. Alle nove  mi addormento come un sasso. Di domenica non si lavora e ne approfitto  per prendere una barca e girare i paesi vicini. Mi piace sfiorare l’acqua con la mano mentre il  battello s’inoltra  per quelle  distese quasi senza confini, che mescolano paesaggi aspri e dolci, così vicini al cielo da risultarne quasi levigati. Una di quelle domeniche ero in attesa della barca per Puno. Avevo davanti a me  due giorni interi e facevo rimbalzare nell’acqua dei sassi piatti, chiedendomi come avrei impiegato quel tempo che mi era stato concesso da un lunedì di festa. Ho scorto  una barca di turisti che s’avvicinava lenta, mi sono augurato che non fossero americani in pantaloncini corti o sconvolti approdati qui dalla dissoluzione del movimento. Mi sono voltato per guardare il profilo delle montagne e, quando ho dato un’occhiata distratta al gruppo che scendeva dalla barca e si apprestava a inerpicarsi sbuffando sul sentiero,  ho visto lei, Consuelo, vestita con due maglioni di lana multicolori sovrapposti e la sua collana al collo  che correva verso di me. Writer