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Ritrovarsi


Ci sono numerose ragioni per essere spaventati o delusi: dalla crisi che sta lasciando un campo di rovine, che ha trasformato centinaia di migliaia di famiglie italiane e milioni di famiglie europee in soggetti ai limiti dell’indigenza, alla legge sulle intercettazioni, che prevede limiti intollerabili per un paese democratico all’esercizio della libertà di stampa e dell’attività della magistratura. Ma, nonostante tutto ciò sia vero e incida nella carne viva del nostro paese, voglio narrare un’altra storia, un momento di piccola felicità condivisa, un frammento di bellezza che ha illuminato un caldo e trasparente pomeriggio di fine maggio.   
La fontana dei dodici mesi si spalanca davanti a noi, con i suoi getti d’acqua che vengono rifratti dalla luce del sole calante e proiettano, come in un raggio laser, i colori dell’arcobaleno e le sue dodici statue, uno per ogni mese dell’anno, che seguono i contorni dell’ovale e ne delimitano i contorni. Stiamo lì, a guardare la caduta dell’acqua e le suggestioni liberty e rococò della fonte,  immersi in una luce calda e rarefatta, mentre gli alberi del parco, tappeti di fiori multicolori e uno scorcio del fiume ridiventato limpido, accompagnano lo sguardo.“E’ bellissimo, vero?”Mia madre fa un cenno con la testa e sorride, come per dire che è davvero un bel posto. Mormora “quanta acqua”, ha smesso di inseguire i brandelli di passato che, simili ai frammenti di un alfabeto indecifrabile,  occupano i suoi pensieri e la ancorano a un presente che scivola via tra le maglie del ricordo.   Graciela e io la prendiamo per mano e scendiamo verso il Po, attraversiamo un viale percorso da veicoli a pedale, da famiglie con bambini che si rincorrono e ci fermiamo davanti a  un chiosco con  tavoli all’aperto  disposti su un prato. Ci sediamo, ordino da bere e ci guardiamo intorno: alberi secolari  formano cupole verdi che delimitano spazi ombrosi. Riconosco pioppi, salici, faggi, carpini, aceri, tigli, olmi e querce. I piedi calpestano un erba verde cosparsa di fiori gialli, bianchi e viola. Il fiume scorre lento, qualche barca a remi lo percorre con pigrizia.Bevo in un bicchiere di plastica e sento venir su un’emozione che non sono in grado di descrivere, qualcosa che si allarga dall’interno e congiunge lo stomaco agli occhi. Una sensazione di circolarità perfetta. Poggio un braccio sulla spalla di mamma, la vedo serena mentre termina il suo gelato, do un’occhiata a Graciela e, senza parlare, mi accorgo che lei condivide lo stesso stato di grazia. Quando ci alziamo per andare verso il Borgo Medioevale e il giardino roccioso, sono le sette di sera. Percorriamo lo spazio del Castello, l’acciottolato antico, i negozi che espongono armature di cavalieri inesistenti, il ponte levatoio, luoghi che in genere mi infastidiscono, imitazioni contraffatte di un passato inafferrabile, come se li vedessimo per la prima volta, con la curiosità di un gruppetto di turisti approdati per caso in una città secondaria che si rivela all’improvviso bella e seducente.Il giardino roccioso è una sinfonia di colori che vibrano a contatto con la luce calante: rose rosse, rosa, gialle, bianche, fiori lillà e fucsia, alberi esotici  che non so riconoscere, corsi d’acqua che scendono in alvei protetti, fino ad alimentare un laghetto artificiale popolato di cigni e papere.Ci sediamo su una panchina, all’ombra, a parlare del presente e del passato: Taranto, la casa di campagna in Monferrato dove mia madre ha trascorso con gioia le  sue ultime trenta estati, curando il suo giardino e potando i suoi alberi, le sorelle che vivono tra Torino e  Roma Poi ci alziamo e torniamo a passi lenti verso la fontana, le sue statue, la nostra vettura, la strada di casa.  Writer