Creato da falco58dgl il 26/09/2005

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Blog di narrativa, suggestioni di viaggio, percorsi interiori, sguardi sul mondo.

 

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Stato vegetativo permanente

Ecco il mio  contributo. Ovviamente è fuori concorso.

Era una magnifica giornata, tiepida e  trasparente. Le montagne formavano un semicerchio di vette innevate  e sembravano così vicine da poterle toccare allungando un braccio. Le otto del mattino. Pareva impossibile che avesse potuto rovinarsi in quel modo  la sera prima.

“Tra poco verranno a prendermi”, mormorò Gianni. Guardò verso le montagne, il riverbero della luce del sole sui vetri della clinica era quasi abbacinante. Si sentiva stanchissimo, svuotato, ma stranamente sereno. Sapeva benissimo che non l’avrebbe fatta franca. In un paese in cui pagano solo  gli immigrati clandestini, i tossicodipendenti, gli operai vittime delle morti bianche e quasi mai i corrotti, i corruttori, gli evasori, i politici condannati con sentenza definitiva, i finanzieri collusi con la mafia, lui rientrava nella ristretta categoria delle persone condannabili.

 “Ipocriti, schifosi. Questo sono. Capaci solo di blaterare sulla sacralità della vita di chi è in stato vegetativo permanente e non dicono una parola, neanche una sillaba, sulle centinaia di bambini massacrati a Gaza, sui milioni di morte per fame, sete, Hiv, tifo, influenza, diarrea, mine. Un intero universo di persone a cui viene sottratta alimentazione e idratazione mentre sono ancora in vita, mentre si affacciano alla vita, a cui la vita e la giovinezza vengono rubate”.

Questo pensava Gianni, mentre svolgeva le sue mansioni di infermiere nella clinica affacciata sulle montagne. Lavorava con scrupolo, cambiava i cateteri, metteva le flebo, somministrava le terapie, chiacchierava con gli ammalati, almeno con quelli che non giacevano in coma farmacologico, a volte permetteva che i parenti si fermassero un po’ dopo l’orario previsto.

Di malati senza speranza ne aveva visti tanti, allettati, in agonia, intubati, con gli occhi chiusi, con lo sguardo sbarrato, a fissare un punto imprecisato. Ma quella ragazza che arrivò con un seguito di medici e volontari lo sorprese. Era un esserino di non più di 35 chili,  sembrava una bambina che avesse saltato la giovinezza e la maturità per approdare direttamente alla vecchiaia. Gli arti rigidi, gli occhi spalancati sul nulla,  era un circuito cuore-polmoni tenuto in funzione da un respiratore, un corpo alimentato da un sondino naso gastrico che permetteva la continuazione dello stato vegetativo, che la teneva aggrappata a una non vita. Quando Gianni chiese al primario da quanto tempo la donna fosse in quello stato, rimase di stucco e pensò di aver udito male.

 “Sedici anni”, rispose il dottore con voce atona.

 “Sedici anni!” ripetè Gianni incredulo.

Quasi seimila giorni, scanditi dall’alimentazione e dalla idratazione forzata. “E pensare che bastano trenta giorni consecutivi per definire lo stato vegetativo come permanente”. Poi seppe che intorno a quell’essere martoriato si stava combattendo una battaglia dura, tra  giudizi di primo grado, ricorsi alla cassazione, sentenze definitive, diktat di membri del governo che prospettavano conseguenze per le strutture sanitarie che avessero interrotto le cure,  la prospettiva di un decreto legge “ad hoc” per impedire che la ragazza potesse seguire la sua strada. E intanto, la ragazza continuava a vegetare attaccata al respiratore, mentre liquidi e alimenti fluidi passavano dal suo naso allo stomaco, in attesa che una mano pietosa la strappasse a ciò che quattro ipocriti continuavano a chiamare “vita”, quelli stessi che sostenevano che i bambini di Gaza erano stati massacrati da Hamas più che dall’aviazione Israeliana.

Sembrava giunto il giorno dell’ interruzione delle cure, in reparto c’era effervescenza, movimento di operatori, telefoni che squillavano a ripetizione. L’inizio del protocollo era previsto da lì a due ore. Il primario si apprestava a rimuovere il collegamento al respiratore e a  diminuire l’alimentazione forzata.  Mezz’ora prima dell’avvio della procedura arrivò un carabiniere con una busta voluminosa. Il primario sapeva già di cosa si trattava. Tutto sospeso in attesa di ulteriori accertamenti e sequestro cautelativo della strumentazione terapeutica.

Fu in quel momento che Gianni capì che non l’avrebbero fatta morire, che l’avrebbero tenuta in quello stato per sempre, come un mostruoso feticcio alla loro cattiva coscienza, alla loro mancanza di pietà travestita da difesa della vita.

E avevano vinto ancora una volta, non solo si doveva vivere come volevano loro, ma anche la morte era soggetta alle loro leggi.  La ragazza doveva tornare nella casa di riposo dove aveva vegetato per sedici anni.

La sera prima del suo ritorno, Gianni si avvicinò al suo letto. La guardò, le prese un braccio tra le mani, spiò un qualunque segno di riconoscimento, solcò con le sue dita le vene sottili, in rilievo, che percorrevano l’arto scheletrito. Prese una siringa, la riempì di un farmaco ipnotico, cercò con attenzione un punto iniettabile e premette con dolcezza lo stantuffo. Stette per un po’ a guardare  la ragazza, poi si diresse a passi lenti verso la vetrata che guardava sulle montagne avvolte dall’oscurità.

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Rispondi al commento:
falco58dgl
falco58dgl il 06/02/09 alle 16:03 via WEB
Sì, Morena, l'avevo messo in conto. Peraltro le vicende di questi ultimi minuti preggiorano drammaticamente gli scenari già piuttosto foschi del racconto. ciao. W.
 
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LA RECENSIONE

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DIECIMILA E CENTO GIORNI
Storie di uomini tra Italia e America Latina
di MARIA PIA ROMANO

Un tuffo che ha il colore del giallo ocra e del verde intenso, di mandorle amare, schizzi di sudore e deliri di lacrime. Di Italia ed America Latina, di viaggi e di fughe, di ritorni e di allontanamenti. Di esaltazione di popoli, di passioni e grida senza voce nella notte. Del blu e dell'azzurro di cielo e mare. Gli stessi che guardano fluire i giorni, i diecimila e cento giorni, mentre la brezza marina scuote il pino le cui radici restano annodate alla terra. All'amore, alla ricerca costante che dà un senso alle cose, alla vita che è fatta di scenari che cambiano, di sogni di libertà da
condividere con i compagni, di ansie e sconforti segreti, che si affondano nel dolore della bulimia, ingurgitando per rabbia e insoddisfazione cibi di cui non si riesce a percepire il sapore. Emersione, immersione, navigazione, approdo: in quattro sezioni si snoda avvincente la narrazione, che racchiude un arco di trentaquattro anni, dal 1970 al 2004.

E' uno di quei libri che si vorrebbe non finissero mai i "Diecimila e cento giorni" di Claudio Martini, edito da Besa. Ti capita tra le mani e lo leggi d'un fiato, perdendoti in quei nomi che diventano subito uomini e tu li ascolti e li vedi soffrire, gioire, respirare, far l'amore. Destini che s'incrociano e si salvano a vicenda, in un costrutto narrativo di suprema bellezza.

Ci sono immagini che s'imprimono nitide e vere nella mente, mentre insegui il tuo cuore rapito dalle storie. Storie di uomini. Storie che vengono fuori in una sorta di "stream of consciousness", in cui più che la cronologia conta il tempo interiore, che ti porta direttamente dentro le porte delle loro case e ti dischiude l'universo dell'anima. Fotogrammi sospesi tra un'Italia che si chiude dietro un perbenismo di facciata e cela solo irriguardose marginalità ed un'America Latina che grida la sua libertà con fierezza sconcertante, mentre è ancora oppressa da un macigno sul cuore che non la fa respirare.

Lo psicologo di origini tarantine, che ha una lunga esperienza di lavoro all'estero, proprio in America Latina, scrive di Perù, Nicaragua, Messico, Kosovo, Italia con la penna guizzante di una grande intelligenza che, come lama, squarcia la cortina dell'indifferenza dei tanti.

 

 

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