Altrove

12,23


Priva degli antidepressivi, che inizio a sospettare siano condizione sine qua non per accettare il mondo intorno a me, mi sto rendendo conto della mia poca propensione alla comprensione del prossimo.E' che in quest'epoca di sovraesposizione, manco fossimo una fotografia da scattare, mediatica di chiunque ho fatto scorpacciata di grandi ego (si potrà dire eghi?). Anche nel campo musicale e letterario che tanto amo non so più digerire i "sono nato per fare questo", "ho talento", "leggetemi-ascoltatemi perché sono un fenomeno" e via andare. E' invidia la mia? Perché chiederselo è normale. E sento di poter dire no, perché l'invidia, quando la provo (grazie Federico Fiumani!), è per i grandi, i grandi risultati, il grande talento, la grande felicità, le grandi storie d'amore, che quasi mai trovo accanto a me in un bar o nelle pagine delle reti sociali (mannaggia Augias, ci è riuscito a farmi il lavaggio lessicale del cervello), neppure fuori pandemia. Intorno a me trovo invece tante piccolezze che nelle parole del prossimo vengono gonfiate fino a diventare grandi cose.Ecco, io ho sempre amato il basso profilo. L'ho preteso da me stessa e lo pretendo da chi stimo. Amo chi fa senza troppo vapore stordente intorno. Invece leggo continuamente di "compratemi il libro perché sono un incompreso e non ho vinto il concorso perché è truccato". Stamattina (la perdono per la giovane età in cui l'arroganza e le convinzioni senza dubbi sono intrinseche a noi stessi) una ventenne su un gruppo facebook si presentava come giovane scrittrice di talento, talento oggettivo ovviamente, precisando che scrive "addirittura" da 2 anni (e sti cazzi, un'eternità) e che legge da quando ne ha 3 (in pratica una gara: avanti di due-tre anni rispetto agli altri bimbi rincoglioniti che chiaramente non saranno mai scrittori). In musica non è meglio: i Maneskin vincono Sanremo e dicono che hanno cambiato le regole. Bel pezzo il loro, e ben suonato, ma poco più di una jem session, secondo me. Nulla di innovativo (non serve questo per cambiare le regole?), soprattutto rispetto ai grandi storici pezzi rock dagli anni Settanta fino ad adesso. Ma ancora non si tratta soltanto di loro; mi torna in mente Diodato in quella canzoncina in cui si chiede perché quasi più nessuno voglia fare un lavoro normale, ma tutti gli artisti e gli influenzer o top manager. Leggo di gente per cui l'importante non è scrivere, ma pubblicare un po' come non è tanto importante vivere il momento ma pubblicizzarlo (ce li abbiamo tutti presenti i tizi che durante i concerti non fanno vedere nulla a quelli dietro perché stanno per tutto il tempo con il braccio paralizzato a tenere lo smartphone e registrare?). Ormai è un'ambizione sdoganata. Non ci si vergogna neppure a dirlo che è più importante il nostro pubblico riconoscimento invece che l'appagamento di essere creativi. Un po' come Fedez che invece di mostrare la schiena dritta e dire "votatemi soltanto se la canzone vi piace", chiedendo alla moglie di farsi i fatti suoi, accoglie con gioia il secondo posto a Sanremo frutto della potenza di fuoco dei follower della Ferragni.E' un'epoca così, narcisista. Eppure le alternative ci sono, ben nascoste ma ci sono. Per ora mi faccio bastare il ricordo di una scena che per me fu un grande insegnamento, quando, ragazzina negli anni Novanta, non perdevo una puntata del Roxy Bar, e in una di queste comparve un esordiente Samuele Bersani, introdotto da Red Ronnie come una bella sorpresa per le ragazzine in cerca di un cantante figo (erano gli anni dei Take That in fondo). Bersani arrivo sul palco, scuro in volto, e invece di assecondare quella suggestione, pregustando il successo che avrebbe potuto ricavarne cavalcandola, si girò male verso il conduttore, fulminandolo in un modo che non dimenticherò mai: "se tu mi introduci così io faccio un'esibizione che vale la metà".Zitti.