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Post n°191 pubblicato il 11 Marzo 2025 da daniela.g0
Tag: Aldo Moro, bara, Barbara Rizzo, Capaci, Cataldo Naro, Chiesa Cattolica, Concilio Vaticano II, discorso, dottrina cattolica, ecumenismo, funerale, Giovanni Falcone, Henry Kissinger, Luigi Villa, mafia, massoneria, omicidio, panfilo Britannia, Paolo VI, povertà, Rosario Livatino, strage, tentato omicidio, umiltà, Vangelo L'autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo come si presentava subito dopo la strage di Capaci, il 23 maggio 1992
I sette tentativi falliti di uccidere don Luigi Villa A prescindere da qualunque siano state le vere idee o appartenenze dello scultore della statua a Paolo VI, appartenenze che se anche fossero eventualmente confermate non dimostrerebbero nulla, Franco Adessa riporta inoltre ben sette tentativi falliti per assassinare don Luigi Villa, agente anti-massoneria per incarico personale di papa Pio XII, secondo quanto viene affermato. A tutti i tentativi, Villa sarebbe miracolosamente sfuggito. Qualche considerazione: Io appartengo a una terra bagnata del sangue dei giusti, per i quali invece non c'è stata clemenza né scampo. Non ci fu scampo per il giudice Rosario Livatino, quando la mafia, alias la massoneria, decise di ammazzarlo. «Picciotti, chi vi fici?», sono state le ultime parole del giovanissimo giudice, poi proclamato beato dalla Chiesa Cattolica. «Ragazzi, che vi ho fatto?» Né ci fu scampo per Giovanni Falcone o per Paolo Borsellino quando l'alta massoneria, alias tutti coloro che si riunirono sul panfilo Britannia poco tempo dopo, decisero di ucciderli per impadronirsi di tutto ciò che restava dell'Italia. Il 2 giugno 1992 a bordo del Britanna c'erano Mario Draghi, Romano Prodi, Giulio Tremonti, Carlo Azeglio Ciampi, e anche il comico Beppe Grillo, insieme a banchieri, affaristi, uomini dell'alta finanza internazionale con l'immancabile George Soros, quando si consumò la più grande svendita mai avvenuta prima del patrimonio pubblico italiano alle banche anglo-sioniste. Ricordo molto bene quei giorni del maggio 1992, quando l'autostrada A29 Palermo - Mazara fu completamente squarciata nel punto dove avvenne la strage del giudice Falcone, della moglie e della sua scorta. Da quel momento, e per quasi un intero mese, tutti coloro che transitarono sulla A29 diretti verso la città di Palermo, furono costretti ad uscire obbligatoriamente allo svincolo di Capaci, attraversare l'intero paese, per poter poi rientrare in autostrada. Tempo impiegato: non meno di 50 minuti. In quei giorni, percorrevo anch'io quasi giornalmente quell'autostrada, con direzione Palermo: avrei potuto forse saltare in aria insieme con loro. Questione di un giorno o due, perché l'ora era la medesima. Come accadde d'altronde a Pizzolungo (provincia di Trapani) il 2 aprile 1985 a una giovane mamma (Barbara Rizzo) che accompagnava a scuola in auto i suoi due bambini di sei anni, saltata in aria alle ore 8:35 al posto del magistrato Carlo Palermo, il vero obiettivo dell'agguato mortale. Il giudice Carlo Palermo chiederà il trasferimento ad altra sede per poi ritirarsi definitivamente dalla magistratura a causa delle continue minacce subite. Non ci fu scampo nemmeno per il giovane arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, quando la massoneria decise di ucciderlo: dopo che persino le forze dell'ordine latitarono alla chiamata di aiuto da parte dell'autista dell'arcivescovo, allorché fu aggredito, anche l'ospedale tardò i suoi soccorsi quando si sentì male, l'anno successivo, il 29 settembre 2006. Tardò a soccorrere un arcivescovo morente, contro ogni logica di questo mondo. E allora, come cavolo fece don Villa a scampare per ben sette volte alla morte, se veramente ci fosse stata l'intenzione di ucciderlo? La fondatezza di tali affermazioni qui proprio non regge, a meno che non vogliamo sostenere che, a voler ammazzare don Villa, fosse stata la donna delle pulizie. Scusate l'ironia, ma è dovuta, di fronte a tante morti senza appello che la massoneria ha lasciato, non solo in Sicilia, ma in tutta Italia e nel mondo. Ne va di rispetto per quei morti veri, di molti dei quali non conosceremo mai nemmeno i nomi.
La nuda bara di papa Paolo VI E a proposito di morte, ritorniamo indietro a quel 6 agosto 1978, quando papa Paolo VI fece ritorno alla casa del Padre. I "tradizionalisti" ci dicono che Paolo VI non volle sulla sua bara alcuna insegna cristiana, perché era iscritto segretamente alla massoneria. Ma, come riporta la stessa Wikipedia, «nelle sue ultime disposizioni, Paolo VI chiese che le esequie pontificali fossero fortemente semplificate e prive di fasti. [...] La salma, rivestita senza sfarzo (una semplice casula rossa, pallio, mitra e camice bianchi, mocassini rossi), dopo un primo omaggio riservato agli intimi e alle autorità, venne ricondotta in Vaticano il 9 agosto ed esposta per tre giorni all'omaggio dei fedeli dinnanzi al baldacchino di San Pietro [...]. Innovativa e sobria fu anche la messa esequiale, celebrata il 12 agosto, per la prima volta non nella basilica petrina ma in Piazza San Pietro: la salma venne ricomposta in una bara semplicissima, di legno chiaro, che fu deposta a terra sul sagrato; sopra di essa venne posto un Vangelo aperto. Terminata la cerimonia, la cassa, inserita in altre due casse di zinco e legno, fu tumulata nelle Grotte Vaticane [fu espressa volontà da parte del pontefice il seppellimento delle sue spoglie mortali all'interno delle Grotte Vaticane, in prossimità con la tomba dell'apostolo Pietro, n. d. r.]. Fu la prima volta da secoli che il funerale di un pontefice si svolse con un rito così sobrio: i suoi tre immediati successori, che non mancheranno di richiamarsi a Paolo VI e di citarlo come loro guida spirituale, si conformeranno a tali novità». Quello che non si dice, quando si accusa papa Paolo VI di non aver voluto insegne cristiane sulla bara, è il sentimento di umiltà che ispirò invece quelle volontà. Scriverà nel suo Testamento: «circa le cose di questo mondo: mi propongo di morire povero, e di semplificare così ogni questione al riguardo». Paolo VI volle un segno unico sulla nuda bara: il Vangelo di Cristo deposto sopra, il lieto annuncio di morte e Resurrezione, quel Kerygma [dal greco κήρυγμα, letteralmente "proclamare"] che costituisce il cuore e il motore di ogni esperienza cristiana, quella Parola di Dio che penetra nelle profondità di corpo e spirito del credente.
La semplice bara di legno chiaro con sopra il Vangelo aperto il giorno dei funerali di papa Paolo VI, il 12 agosto 1978
La tomba di Paolo VI nelle Grotte Vaticane prima della beatificazione
L'apostolo Paolo scriverà nelle sue Lettere che vive per annunciare il Vangelo di Cristo, senza il quale l'esistenza stessa perderebbe il suo significato. Ma ancora una volta, questo piccolissimo dettaglio viene omesso nella narrativa che sostiene che Paolo VI non fosse cristiano ma massone. Altrettanto opportunamente viene omesso che nella tomba semplice del pontefice, incassata sul pavimento, spicca il segno inconfondibile della sua appartenenza a Cristo. Il monogramma di Cristo, che campeggia al centro della tomba del papa defunto, è formato da due lettere dell'alfabeto greco, la X (chi) e la P (ro), intrecciate insieme. Sono le prime due lettere della parola greca "Christòs", cioè Cristo. Nei primi secoli questo monogramma, posto su una tomba, indicava che il defunto era cristiano. Così scrive papa Paolo VI riflettendo sulla Chiesa nel suo Pensiero alla morte: «Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono d'amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l'ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d'aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all'estremo momento della vita si ha il coraggio di fare. [...] Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi.» Queste parole scritte dal pontefice, toccanti e bellissime, ricolme di amore per la Chiesa di cui egli è al servizio, proiettano anche noi verso un futuro pieno di speranza: in fondo la morte non è altro che un mezzo per raggiungere la vita vera, uniti eternamente a Dio insieme alla comunione dei Santi. Mentre nel suo Testamento, scritto già nel 1965, Paolo VI lascia pensieri e volontà per quanto riguarda la sua morte: «[...] Raccomando vivamente di disporre per convenienti suffragi e per generose elemosine, per quanto è possibile. Circa i funerali. Siano pii e semplici. (Si tolga il catafalco ora in uso per le esequie pontificie, per sostituirvi apparato umile e decoroso). La tomba: amerei che fosse nella vera terra, con umile segno, che indichi il luogo e inviti a cristiana pietà. Niente monumento per me. E circa ciò che più conta, congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio: dovrei dire tante cose, tante. Sullo stato della Chiesa; abbia essa ascolto a qualche nostra parola, che per lei pronunciammo con gravità e con amore. Sul concilio: si veda di condurlo a buon termine, e si provveda ad eseguirne fedelmente le prescrizioni. Sull'ecumenismo: si prosegua l'opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica. Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo.» E' doveroso qui sottolineare almeno due aspetti. Il primo, riguardo al Concilio Vaticano II, cui fa cenno il pontefice. Pochi sanno, probabilmente, non conoscendo a fondo i documenti conciliari, che soltanto una piccola parte delle disposizioni contenute in essi è stata concretamente messa in pratica dalla gerarchia ecclesiastica. Il resto è rimasto deliberatamente ignorato: un esempio per tutti è costituito dalla Sacrosanctum Concilium, la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia (4 dicembre 1963). Nonostante i progressisti si riempiano continuamente la bocca della parola "Concilio", non hanno mai desiderato concretamente applicarne le norme: ricordando ancora come il Vaticano II confermi in larga parte la dottrina immutabile della Chiesa Cattolica. Essi si sono serviti invece di quei pochi punti oscuri presenti per interpretarli a loro favore, allo scopo ormai non troppo nascosto di distruggere la fede cattolica. Il secondo aspetto invece riguarda l'ecumenismo: qui le parole del pontefice sono chiare e non lasciano dubbi: «si prosegua l'opera di avvicinamento con i Fratelli separati, con molta comprensione, con molta pazienza con grande amore; ma senza deflettere dalla vera dottrina cattolica». Il papa di Cesio non arretra dunque di un millimetro su quanto riguarda la dottrina della Chiesa Cattolica: ogni dialogo paziente in chiave ecumenica o interreligiosa deve tenere conto prima di tutto di questo principio fondamentale. Basterebbero queste concise e altrettanto chiare affermazioni per convincere a tacere i detrattori di Paolo VI, che da decenni invece spargono vergognose offese sul pontefice defunto.
L'amicizia con Aldo Moro Infine, ma non ultima, l'amicizia che papa Paolo VI serbò per Aldo Moro, «amico di studi e fratello di fede». Moro ricordava nelle sue lettere, indirizzate al «Beatissimo Padre», la «paterna benevolenza» dimostratagli tante volte. Il giornalista Sacchetti ha parlato giustamente in un suo articolo molto bene di Moro e del valore morale della sua persona. Ricordando la visione del politico italiano, in anticipo con i suoi tempi, di un'Italia finalmente sovrana, libera dal dominio dell'anglosfera rappresentato dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra. Cita in proposito l'episodio avvenuto nel 1973, quando Moro rifiutò nettamente di mettere a disposizione degli Stati Uniti le basi militari italiane per supportare Israele nella guerra in Medio Oriente dello Yom Kippur, che imperversava in quegli anni. Moro non voleva che l'Italia partecipasse attivamente al conflitto e si schierasse contro i Paesi Arabi. A decidere l'assassinio di Moro fu molto probabilmente Henry Kissinger, tedesco di origini ebraiche che fece grande fortuna negli Stati Uniti, dove ricoprì cariche politiche prestigiose e occupò ruoli strategici fino a tarda età. Fu fondatore nel 1973, insieme a David Rockefeller (a sua volta tra i fondatori del gruppo Bilderberg e in quel periodo anche presidente della Chase Manhattan Bank) e altri dirigenti e notabili, della nota Commissione Trilaterale.
Henry A. Kissinger (1923 - 2023)
Sacchetti riporta come «in un'aula di tribunale nel corso del processo sulla strage di via Fani, lo storico collaboratore di Aldo Moro, Corrado Guerzoni, rivelò che il presidente fu minacciato pesantemente dall'ex segretario di Stato, Henry Kissinger, già nel 1974. E la stessa vedova del presidente, Eleonora Moro, confermava quanto disse Guerzoni. Henry Kissinger rivolse pesanti minacce nei confronti del leader della balena bianca. All'epoca Moro era il ministro degli Affari Esteri e la sua visione diplomatica stava già uscendo dal seminato che l'atlantismo aveva assegnato all'Italia». Una verità nascosta al grande pubblico, né scritta sui libri di scuola, anche se - per correttezza - devo ricordare come gli attenti testimoni dell'epoca, come era mio padre, ne furono consapevoli. Ma dell'amicizia che Aldo Moro condivideva con il Santo Padre non v'è traccia nell'articolo di Sacchetti: non fu soltanto il giovane Bettino Craxi a tentare di salvare la vita di Moro. Silenzio, anche da parte di tanti giornalisti negli anni successivi, sull'accorato appello che papa Paolo VI volle fare, umiliandosi personalmente, per cercare in ogni modo a lui possibile di salvare l'amico, implorando i rapitori di liberarlo senza condizioni. Silenzio anche sugli avvenimenti successivi, quando il pontefice, infischiandosene dell'etichetta che gli avrebbe impedito di partecipare a una messa esequiale privata, celebrò personalmente un rito funebre in suffragio di Aldo Moro, attirando su di sé non poche critiche.
Paolo VI legge il suo discorso in occasione del rito funebre in memoria di Aldo Moro
Queste le belle parole del papa, profondamente commosso, al rito funebre di Moro: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il "De profundis", il grido, il pianto dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!» Con queste parole Paolo VI espresse i sentimenti di tutta l'Italia, addolorata e attonita per la barbara uccisione del presidente della Democrazia Cristiana. Era il 13 maggio 1978. Aldo Moro era stato rinvenuto cadavere il 9 maggio, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani a Roma. Paolo VI avrebbe seguito l'amico solo pochi mesi più tardi, lasciando questo mondo il 6 agosto 1978.
Fine seconda parte.
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