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Messaggi del 22/05/2023

 

"L'ultima Intervista" a Mussolini nell’anno che cambiò le sorti del nostro Paese - Prima parte

Post n°130 pubblicato il 22 Maggio 2023 da daniela.g0
 

 

Cari Lettori, mi soffermo ancora sugli avvenimenti che caratterizzarono un anno drammatico che cambiò la Storia del nostro Paese, fino ad oggi: il 1945.  

Qui di seguito troverete - per chi non ne fosse già a conoscenza - il testo di un'intervista che Benito Mussolini concesse nel suo studio presso la Prefettura di Milano al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del "Popolo di Alessandria", nel pomeriggio del 20 aprile 1945, a soli sei giorni dalla sua esecuzione che avvenne il 28 aprile dello stesso anno. 

Il testo dell'intervista - a mio parere - si presenta controverso almeno in un punto. In particolare, mi riferisco a una visione antitetica che vedrebbe il Duce vagheggiare una moneta unica fra gli Stati: lui, che, come è noto, aveva posizioni saldamente e spiccatamente nazionalistiche. 

Ma, d'altra parte, l'intervista è di eccezionale importanza storica e umana, unica testimonianza del pensiero di Mussolini in quegli ultimi fatidici giorni e ha il pregio di offrire preziosi riferimenti circa accadimenti storici poco noti oggi, come le circostanze in cui Mussolini fu arrestato a Dongo (provincia di Como), il 27 aprile 1945. 

Il Duce aveva infatti con sé una grande busta di cuoio contenente riservatissimi documenti che riguardavano gli avvenimenti storici degli ultimi anni. Questa busta scomparve nel nulla e non fu più ritrovata. 

Evidentemente conteneva documenti di portata storica assai rilevante, che non dovevano divenire pubblici per nessuna ragione. I giornali e i vari commentatori dell'epoca costruirono dal nulla, senza possedere alcuna prova, un fantomatico carteggio che Mussolini avrebbe avuto con Winston Churchill e che sarebbe stato contenuto in quei documenti scomparsi. 

Durante l'intervista, che di fatto costituisce anche il testamento politico del Duce, egli stesso indicherà come in quei preziosi documenti invece fossero contenute le prove che avrebbero trasformato Benito Mussolini da "accusato" ad "accusatore", in un eventuale processo che poteva paventarsi imminente contro di lui. 

Ecco perché quei documenti dovevano sparire per sempre e Mussolini avrebbe dovuto essere eliminato in fretta. Il Duce era ben consapevole infatti che non gli sarebbe mai stata concessa la possibilità di continuare a vivere e di difendersi, perché questo avrebbe significato anche "l'accusa" dei suoi stessi "accusatori". 

E purtroppo così avvenne. Mussolini non ebbe diritto ad alcun processo, a differenza di tanti gerarchi nazisti che si erano macchiati di gravi crimini di guerra. 

Mentre alti gerarchi al servizio di Hitler - sembrerà assurdo ma è così - ebbero, negli anni che seguirono il termine del conflitto, prestigiosi incarichi nella Nato con il plauso degli americani, loro "nemici" durante la guerra mondiale. 

Un elenco: Adolf Heusinnger, Capo di Stato Maggiore di Hitler, diventò poi Presidente del Comitato militare della Nato dal 1961 fino al 1964. Ernst Ferber, fu Comandante della Nato per l'Europa centrale dal 1973 al 1975. Hans Speidel, Comandante della Nato per l'Europa centrale dal 1957 al 1963. Johann Steinhof, fu Presidente del Comitato militare della Nato dal 1971 al 1974. Johann von Kleimansegg, Comandante della Nato per l'Europa centrale dal 1967 al 1968. Carl Schnel, fu Comandante della Nato per l'Europa centrale nel triennio 1975-1977. Franz Josef Schulze, Comandante della Nato per l'Europa centrale dal 1977 al 1979. Ferdinand von Senger und Etterlin, Comandante della Nato per l'Europa centrale dal 1979 al 1983. 

D'altronde è storicamente accertato che i tedeschi fossero ben equipaggiati con armamenti di produzione statunitense. E Hitler intrattenesse ottimi rapporti con molti ricchi banchieri e dirigenti di varie corporation americane. 

E non è tutto. L'FBI era a conoscenza del fatto - secondo quanto ha riportato il giornalista Cesare Sacchetti - che Adolf Hitler non si fosse mai suicidato ma invece avesse riparato in Argentina, come tanti altri nazisti scampati e rimasti impuniti per i loro crimini di guerra. Altri documenti provano inoltre come lo stato profondo americano avesse aiutato la sua fuga. 

Come si è visto, in seguito tutto l'apparato nazista passò al soldo degli Stati Uniti. 

In Italia invece, sin dal primo giorno dell'inizio del conflitto, fu un susseguirsi di tradimenti, di cui si accenna nel corso di questa straordinaria intervista, che riguardarono tutti i settori della vita nazionale e che amareggiarono tanto il Duce. 

Fu lunghissimo infatti l'elenco delle spie italiane a servizio del nemico che determinarono pesantemente l'esito del conflitto. Contrariamente a quanto sostenuto dai tanti storici del dopoguerra, la potenza militare italiana, specialmente navale, era di tutto rispetto. 

Dalla Casa Reale sabauda agli alti vertici militari, fino ad arrivare a settori chiave dell'industria nazionale, che si attivarono all'unisono allo scopo di "far perdere la guerra a Mussolini". 

Un nome emblematico: quello dell'ammiraglio Franco Maugeri, che verrà decorato dagli Alleati a fine conflitto "per la condotta eccezionalmente meritoria nell'esecuzione di altissimi servizi resi al governo degli Stati Uniti come Capo dello spionaggio navale italiano [...]". 

La causa di questa lunga serie di tradimenti? L'appartenenza della maggioranza degli alti vertici militari alla Frammassoneria e perciò legati fraternamente ai loro colleghi britannici. Essi prestarono giuramento nelle mani della Casa regnante dei Savoia, aderendo soltanto esteriormente al governo fascista. La medesima posizione fu condivisa dai Savoia, da altri noti circoli dell'aristocrazia italiana e da una parte degli industriali. 

Traditori non tanto di Benito Mussolini, come rimarcherà egli stesso, ma della Patria, dell'Italia. 

Ma torniamo ora a quei documenti. Che fine fecero? 

Già in quel momento, di fatto, si annovera la presenza di agenti dei servizi segreti inglesi sul territorio lombardo. Non è difficile pensare che finirono nelle mani dei servizi segreti anglo-americani e, forse, non soltanto. Il resto lo immaginerete. 

Un'altra nota di particolarissimo interesse storico è il tentativo che Mussolini dichiarerà, nel corso dell'intervista, di aver compiuto sin dall'inizio per scongiurare lo scoppio della guerra mondiale in ogni modo. Tentativo che smentisce categoricamente alcune convinzioni molto comuni e ormai radicate, come quella che vedrebbe proprio Benito Mussolini a volere il conflitto a causa della sua smisurata brama di potere. 

Dichiarazioni del Duce inoltre supportate da altre fonti indipendenti, e confermate anche dallo stesso Vladimir Putin in un'intervista rilasciata nel 2020, quando dichiarò come il Secondo conflitto mondiale fu voluto in realtà da Inghilterra e Francia con il deliberato, quanto lucidamente calcolato, proposito di spingere Hitler ad invadere la Polonia per poi dirigersi verso la Russia, vero obiettivo del conflitto. E Putin dichiarò, in quella circostanza, di possedere anche i documenti comprovanti quella tesi. 

La potentissima finanza anglo-americana neoliberista desiderava infatti occupare la Russia e sottomettere anche Italia e Giappone, potenze allora fuori dalla loro orbita e caratterizzate dal forte senso nazionalistico. Fu il primo vero tentativo di instaurare un Nuovo Ordine Mondiale. 

La Storia ci attesta che tale sogno tuttavia si infranse proprio in Russia, con la solenne disfatta di Kubinka nella fine del 1941, alle porte di Mosca, che segnò l'inizio della caduta del Terzo Reich. 

Proprio il 9 maggio scorso, in Russia, si è da poco conclusa con grande festa delle Forze Armate la commemorazione della Vittoria sul Nazismo di Hitler, e Putin, in occasione del suo discorso, ha lanciato un monito contro la Nato e le "elite globaliste occidentali" perché non ripetano ancora gli errori del passato, ricordando come fu proprio la Russia a sconfiggere realmente il Nazismo.  

L'intenzione che da sempre si propone questo blog è infatti far luce sulla Storia, tra presente e passato, per rivelarne le dinamiche più nascoste, che una facile e abile propaganda ha voluto occultare e cancellare nel tempo. 

"Abilissima propaganda!", dirà Mussolini fra poco. 

Senza voler prendere le parti di nessuno (ricordando anche come in Italia sia reato l'apologia del Fascismo!) ma cercando di offrire al Lettore una visione più autentica e, al contempo, più oggettiva possibile degli avvenimenti, al fine di giungere alla conoscenza della verità. 

Ritorniamo - prima di chiudere e lasciarvi infine alla lettura dell'intervista - agli ultimi drammatici momenti della vita di Benito Mussolini: la narrazione che ne fece il suo carnefice, verosimilmente Walter Audisio, "Colonnello" della Brigata Garibaldi, fu di un Duce tremante di fronte all'esecuzione. Tuttavia, altri due partigiani (Aldo Lampredi e Michele Moretti) presenti in quel giorno - 28 aprile 1945 - resero negli ultimi anni di vita due versioni tra loro concordanti e in sedi separate: il Duce morì in realtà chiedendo ai suoi esecutori di mirare dritto al cuore e gridando a gran voce: "Viva l'Italia!".  

Il resto è cosa nota. Il vile tradimento, la barbarie, non meritano di essere raccontati. 

Significherebbe narrare di una delle pagine più nere - profondamente nere - della Storia del nostro Paese.  

Buona lettura.

 

 

L'ultima Intervista  

 

Chi scrive è il giornalista Gian Gaetano Cabella, ex direttore del "Popolo di Alessandria", giornale che nel 1944 si pubblicò anche a Milano in una edizione destinata alla Lombardia.
Nell'aprile del 1945 il Cabella, non appena seppe che Mussolini, proveniente da Villa Feltrinelli sul Garda, era arrivato a Milano, chiese e ottenne un'udienza dal Capo della Repubblica Sociale.
Lasciamo al Cabella il compito di narrare egli stesso le varie fasi dell'intervista. Cominciò come una delle tante conversazioni che Mussolini aveva non di rado con questo o con quel direttore di giornale.
Ma ben presto l'intervista assunse una portata eccezionale: sia perché fu l'ultima che Mussolini concesse, sia perché egli stesso volle rivederla, completarla, correggerla, annotarla, nella sua redazione definitiva.  

 

Fu il ministro Zerbino che il 19 aprile mi comunicò l'invito. Mussolini mi avrebbe ricevuto all'indomani, in Prefettura. Feci subito rilegare i numeri del giornale: tutta la edizione milanese dal settembre 1944 fino all'ultimo numero, uscito con la data del 21 aprile 1945. Volevo offrire al Duce l'intera collezione, insieme coi prospetti e i grafici della tiratura, del "Popolo", che, da 18 mila copie stampate e 16 vendute nel primo anno di vita, era ora asceso a 270 mila copie tirate e vendute, senza contare i numeri speciali, che avevano ottenuto un successo anche maggiore. Le richieste, negli ultimi tempi, superavano la tiratura. 
Molti camerati mi consegnarono scritti e messaggi da presentare al Duce. Divisi queste carte in tre gruppi: 1) quelle che gli avrei dato in ogni caso; 2) quelle meno importanti; 3) quelle che avrei consegnato solamente se il colloquio si fosse svolto in modo particolarmente favorevole. 
Preparai anche una breve relazione delle lunghe trattative che avevo condotto con elementi partigiani, i quali, in un primo tempo, mi avevano scritto invitandomi a prendere contatto con alcuni loro rappresentanti. Avevo accettato senz'altro questo abboccamento che avvenne il 7 febbraio a Rondissone, vicino a Torino: incontro interessante sotto molti rapporti e che permise utili intese nell'interesse superiore del Paese. 
Alle 14.30 del 20 aprile ero in Prefettura. Nella prima sala d'aspetto passeggiavano e discorrevano ufficiali e gerarchi. Il Prefetto, capo della Segreteria particolare, attraversava spesso la sala che divideva lo studio di Mussolini dal suo ufficio. Nel secondo salone c'erano il colonnello Colombo, comandante della "Muti" con il vice comandante e altri.
Alle 15 giunsero il comandante Borghese accompagnato da alcuni ufficiali, e il Capo di Stato Maggiore della GNR. Il ministro Fernando Mezzasoma parlava con un gruppo di giornalisti, fra i quali ricordo Daquanno, Amicucci, Guglielmotti. Si unì al gruppo, poco dopo, anche Vittorio Mussolini. 
Un'apparente serenità regnava fra quelle persone e, specialmente nella prima sala, c'era il più discreto silenzio. Un ufficiale delle SS germaniche passeggiava fumando. Il servizio di guardia era limitato al portone d'ingresso del Palazzo del Governo e a due sentinelle armate (una SS tedesca e un milite della Guardia) alla postierla della scaletta che dal cortile conduceva all'appartamento occupato dal Duce e dai membri del governo.
Alle 15.20 giunse il Questore, che parlò col Prefetto Bassi. Poco dopo uscì dallo studio del Duce il personaggio che vi stava già da venti minuti; ma non ricordo chi fosse. Forse Pellegrini. Entrò un usciere, che chiuse la porta dietro di sé; ma non tanto velocemente da impedirmi di scorgere Mussolini seduto dietro una piccola scrivania. Nel frattempo, mi aveva raggiunto il mio redattore capo, già direttore di "Leonessa", settimanale della Federazione bresciana: il sottotenente dei bersaglieri Galileo Lucarini Simonetti.
Finalmente, la porta del Duce si aprì. L'usciere disse forte il mio nome. Mi precipitai dentro. Deposti i pacchi sopra una sedia alla mia destra, salutai sull'attenti. Mussolini mi accolse con un sorriso. Si alzò e mi venne vicino. Subito osservai che Mussolini stava benissimo in salute, contrariamente alle voci che correvano. Stava infinitamente meglio dell'ultima volta che l'avevo visto. Fu nel dicembre del 1944, in occasione del suo discorso al Lirico. Le volte precedenti che mi aveva ricevuto - nel febbraio, nel marzo e nell'agosto del '44 - non mi era mai apparso così florido come ora. Il colorito appariva sano e abbronzato; gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti. Era anche leggermente ingrassato. Per lo meno, era scomparsa quella magrezza, che mi aveva tanto colpito nel febbraio dell'anno avanti e che dava al suo volto un aspetto scarno, quasi emaciato. Quel ricordo, dinanzi ad un uomo ora tanto diverso, si dileguò immediatamente dalla mia memoria.
Egli indossava una divisa grigio-verde senza decorazioni, né gradi. Lasciò i grossi occhiali sul tavolo, sopra un foglio pieno di appunti a matita azzurra. Notai che il tavolo era piccolo: molti fascicoli erano stati collocati sopra un tavolino vicino. Alcuni giacevano perfino in terra, presso la finestra. M'è rimasta l'impressione visiva che sulla scrivania, in un vaso di cristallo, ci fosse una rosa rossa; ma non potrei garantire l'esattezza di questo particolare. Sopra una sedia, scorsi tre borse porta documenti: due in cuoio grasso, una di pelle giallo scura. 
Mussolini mi posò la destra sulla spalla e mi chiese: "Cosa mi portate di bello?". Queste le prime parole, che già mi aveva dette quattordici mesi prima, benché con altro tono: un tono più lento, con voce più bassa e stanca. 
Non seppi rispondere lì per lì. Come al solito, e come succedeva a molti davanti a lui, mi sentii alquanto disorientato e dopo una breve esitazione risposi che ero felice di vederlo, e che gli portavo la raccolta del giornale. Mi batté la mano sulla spalla. Fissandomi, mi disse: "Vi elogio per quanto avete fatto per il consolidamento della Repubblica Sociale. Pavolini mi ha riferito del vostro discorso a Torino per il 23 marzo e del successo che avete ottenuto. Non vi sapevo anche oratore".
Gli offersi la raccolta del giornate e gli mostrai i grafici della diffusione, della vendita, delle lettere ricevute. Gli consegnai diversi scritti di fascisti, di combattenti, di giovanissimi. Mi fu largo di elogi, specialmente per i tre numeri speciali, ricchi di illustrazioni, dedicati a "Stellassa" (Umberto di Savoia), a "Pupullo" (Badoglio) e a "Bazzetta" (Vittorio Emanuele III). 
Sfogliò la raccolta, soffermandosi su alcuni numeri. Rise.
"I tre numeri illustrati per "Bazzetta", " Pupullo" e "Stellassa" sono fatti veramente bene. Mi hanno divertito. Che tiratura hanno avuto?". 
" Duecentosettantamila copie vendute. Per mancanza di carta non ho potuto far fronte alle trecentottantamila richieste...". 
"Avrete la carta che vi occorre...". Prese la matita e, stando in piedi, tracciò qualche nota su un foglio di appunti. Allora mi feci animo e gli esposi il caso disgraziato di due camerati bolognesi. Il suo volto si rattristò. 
Farò aver loro diecimila lire. Va bene?". Volle sapere i nomi e gli indirizzi. Li scrisse egli stesso, negli appunti. Poi mi chiese: " Desiderate qualche cosa da me?". Dopo un momento di perplessità risposi: "Il mio premio l'ho già avuto, è stato l'elogio che avete voluto farmi. Oso troppo se vi chiedo una dedica?". Gli mostrai una grande fotografia. La fissò un attimo, scosse il capo. Evidentemente, non era troppo soddisfatto dell'immagine. Poi tornò al tavolo, si sedette, prese la penna e scrisse: "A Gian Gaetano Cabella, pilota de Il Popolo di Alessandria, con animo della vecchia guardia. B. Mussolini, 20 aprile XXIII".  

Posò la penna. Volle vedere i grafici. La tiratura del giornale era descritta da un diagramma. Vi era tracciata una linea ascendente, con leggere contrazioni, qua e là.
A che cosa attribuite queste diminuzioni di vendita?".
Credo che occorra ogni tanto, specie dopo numeri di grande rilievo esteriore, fare uscire qualche numero pallido, senza forti titoli". 
Esposi, poi, brevemente i criteri che seguivo e che mi parevano giusti, quindi soggiunsi: "Mi siete stato maestro. Conservo la raccolta de "l'Avanti!" e quella del "Popolo d'Italia"...". 
Mussolini scosse la testa, stette un attimo pensoso e osservò: "Si nasce giornalisti come si nasce compositori o tecnici. Creare il giornale è come conoscere la gioia della maternità. Il criterio di non monotizzare è giusto. Non si può dare un concerto con soli tromboni e grancasse. Il pubblico, dopo i primi istanti di sbalordimento, finirebbe con l'abituarvisi. Vedo che siete anche un abile amministratore. Siete genovese...".
Si soffermò sul grafico che riguardava la corrispondenza ricevuta dal pubblico, lettori e lettrici e osservò: "Molte lettere anonime, vedo". 
Ricevo al giornale circa un dieci per cento di anonime. Però quando le vicende dell'Asse vanno meglio, le lettere anonime diminuiscono". Gli dissi anche che in Alessandria avevo appiccicato le più divertenti ad una parete. 
Mussolini sorrise: "Ho visto le fotografie della vostra redazione". 
"Nel mese di marzo - precisai - su 2785 lettere ricevute, 360 sono state anonime".
"Oltre 2400 lettere non anonime in un mese: sono moltissime. Fate rispondere?".
Gli dissi che rispondevo personalmente a tutti e nella rubrica "Il Direttore risponde" e, in gran parte direttamente. 
"Ho constatato che, così facendo, si ottiene una grande pubblicità. Chi riceve, specie in un piccolo centro, una lettera personale del direttore, la fa vedere a più persone. Automaticamente diventa un fedele propagandista". Mussolini prese il pacchetto delle lettere che gli avevo portato insieme con altre cose. Gli feci osservare che avevo diviso le missive in tre gruppi. Volle tenerle tutte. 
"Se avrò tempo, le leggerò stasera". 
Intanto aprì tre lettere che avevo messo più in vista: una di una signora che abitava presso Torino; un'altra di un giovane volontario, Puni, di Torino; la terza di una personalità ligure. 
"Ringrazierete la signora e il ragazzo. Lasciatemi l'altra: farò rispondere direttamente. Avete qualche cosa ancora da dirmi?". 
"Ho due collaboratori, un fascista e un vecchio socialista fiorentino...". 
Mussolini mi disse subito i nomi di entrambi e aggiunse: "Fate loro i miei elogi. Dite loro che leggo gli articoli che scrivono, con interesse". 
Ebbi l'impressione che l'udienza fosse per finire. Mussolini aveva riaperta la raccolta del giornale e, in ultimo, aveva trovato le copie del giornale "Il Monarchico", che avevo stampato alla macchia facendo finta fosse l'organo di un gruppo monarchico "C. Cavour" di Torino, e una copia del "Grido di Spartaco", che avevo stampato clandestinamente. Mussolini rise, ed esclamò: "Mi sono piaciuti. Anche per questo lavoro vi elogio". 
Allora mi feci animo: "Duce, permettete che vi rivolga qualche domanda?". 
Mussolini si alzò. Mi venne vicino. Guardandomi negli occhi, con un accento e un'espressione che non dimenticherò mai, mi chiese d'improvviso: 

***  
"Intervista o testamento?".  

***  

A quella domanda inaspettata io rimasi esterrefatto. Non seppi cosa rispondere. Non sfuggì la mia emozione a Mussolini, che cercò di dissipare la mia confusione con un sorriso bonario. "Sedetevi qui. Ecco una penna e della carta. Sono disposto a rispondere alle domande che mi farete".

 

Mussolini lascia la prefettura di Milano il 25 aprile 1945. Questa è l'ultima fotografia di Benito Mussolini vivo  

 

In preda ad una grande agitazione , mi sedetti alla sua sinistra. La sua mano era vicina alla mia. Molte idee mi si affollavano nella mente, ma tutte imprecise. Finalmente formulai una domanda assai generica: "Qual è il vostro pensiero, quali sono i vostri ordini, in questa situazione?". Invece di "ordini" dissi "disposizioni"; ma siccome nel testo dell'intervista, che il giorno dopo Mussolini rivide, corresse e siglò, sta scritto "ordini", lasciò l'espressione ch'egli stesso approvò. Debbo aggiungere che, quantunque io abbia preso nota con la maggiore attenzione possibile di quanto Mussolini mi andava dicendo, non ho potuto, nelle giornate che seguirono il colloquio, riferirlo con esattezza minuta, rigorosa. 
Solo a distanza di tempo, oggi, ricordo bene; con assoluta precisione. Perciò posso completare ciò che non mi fu possibile allora. Ecco il perché di queste note, delle note che seguiranno. 
Alla mia domanda, Mussolini, a sua volta domandò: 
"Voi cosa fareste?".  
Debbo aver accennato un gesto istintivo di sorpresa. Mussolini mi toccò il braccio, e sorrise di nuovo: "Non vi stupite. Faccio questa domanda a tutti. Desidero sentire il vostro parere". 
"Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati...".
"Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il Cardinale Schuster fa da intermediario. Non sarà versata una goccia di sangue". 
Veramente disse: "Ho l'assicurazione che non sarà
versata una goccia di sangue". "Un trapasso di poteri. Per il governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po' di tempo".  
Osai interromperlo: "Vi fidate, Duce, del Cardinale?". 
Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani. 
"E' viscido. Ma non posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. E' la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani". 
"Ma noi vogliamo seguire la vostra sorte...". 
"Dovete ubbidire. La vita dell'Italia non termina in questa settimana o in questo mese.
L'Italia si risolleverà. E questione di anni, di decenni, forse. Ma risorgerà, e sarà di nuovo grande, come l'avevo voluta io". 
Dopo una brevissima pausa, continuò: 
"Allora sarete ancora utili per il Paese. Trasmetterete ai figli e ai nipoti la verità della nostra idea, quella verità che è stata falsata, svisata, camuffata da troppi cattivi, da troppi malvagi, da troppi venduti e anche da qualche piccola aliquota di illusi".
Forse Mussolini non disse: "troppi". Ho l'impressione che dicesse solo: "malvagi e venduti". Quando rilesse le righe che seguono, le segnò a lato; e fece un gesto con la testa come per farmi comprendere che l'espressione non gli era troppo piaciuta. Tuttavia non la cancellò. 
La sua voce aveva i toni metallici che tante volte avevo udito nei suoi discorsi. Poi, con fare più pacato, continuò: 
"Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli uomini, che ho perduta la testa, che non dovevo dichiarare la guerra alla Francia e all'Inghilterra. Dicono che mi sarei dovuto ritirare nel 1938. Dicono che non dovevo fare questo, e che non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il passato". 
"Ho una documentazione che la storia dovrà compulsare per decidere. Voglio solo dire che, a fine maggio e ai primi di giugno del 1940 se critiche venivano fatte erano per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto. Noi non solo non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano, invasi e schiacciati".
Mussolini mi disse di far risaltare che le frasi da lui sottolineate riguardavano i discorsi della gente. Egli stesso sottolineò con segno più forte l'espressione: "La Germania aveva vinto", con tutto ciò che segue. 
"E cosa fa Mussolini? Quello si è rammollito. Un'occasione d'oro così, non si sarebbe mai più ripresentata". Così dicevano tutti e specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di potere, e la mia debolezza nei confronti di Hitler aveva portato alla guerra.   

 

Fine prima parte. Qui la seconda parte dell'articolo.

 

 
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