L'angolo di Montotto

Corse sulla spiaggia.


Ho corso tante volte sulla spiaggia, anche d’inverno. Col bel tempo. Spogliavo i miei piedi, rivoltavo l’orlo dei pantaloni e cominciavo a camminare. Cominciavo lentamente, poi ci prendevo gusto: e quindi mi mettevo a correre, dapprima piano, poi sempre più veloce, il mio passo si allungava. E sulle spiagge della riviera romagnola, avrei potuto correre così per tutta la giornata. Ogni piccolo molo, ogni rotonda sul mare era un obbiettivo, ogni passo lasciava un’orma sulla sabbia bagnata della battigia. Sentivo dentro la mia testa le voci dei miei genitori, che litigavano; i rimproveri della mia fidanzata, che mi rintronavano le orecchie; le inutili parole che trasmetteva la televisione, i rumori della città e quello sordo che sentivo in un treno in corsa, le urla di rabbia e di dolore che ogni tanto esplodevano dagli altoparlanti dei cinema, le voci acide e fredde di alcuni conduttori televisivi, i commenti gratuiti ed urlati che mio padre lanciava alla televisione quando il telegiornale mandava i servizi di politica interna… Tutti quei suoni dapprima mi riempivano la mente, mi facevano sentire quasi colpevole di aver trovato la spensieratezza di togliermi scarpe e calzini e passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia. Anche le nuvole, d’inverno, ed il grigio del cielo mi ricordavano continuamente i lati negativi della vita, del mondo, della storia e di noi stessi. Le mie corse non avrebbero potuto cominciare in maniera peggiore: quasi me ne passava la voglia, e camminavo “un piede leva e l’altro metti”, come avrebbe scritto Camilleri. Il mio corpo era rigido, l’andatura era controllata, le mani affondavano il più profondamente possibile nelle tasche: e col capo reclinato in avanti, fissavo con sguardo imbronciato i pochi metri di battigia che mi precedevano. Ma spesso mi imbattevo in qualche conchiglia frantumata, in una penna, in un’alga, a volte in qualche lattina di coca cola: dapprima non ci badavo, perso com’ero nella consapevolezza della mia colpevolezza; ma poco dopo, mi fermavo, mi chinavo e le mie mani finalmente riemergevano dal profondo delle tasche, magari per appoggiarsi una su un ginocchio, e l’altra per raccogliere delicatamente una pompetta o un piccolo pezzo di carta strappato da chissà quale giornale. Rimanevo là, chino, a pormi domande imbecilli su chi avesse potuto perderlo, o se era una conchiglia da quale abisso marino fosse resuscitata, a che specie animale fosse appartenuta e qual era il suo habitat naturale. E la mia mente cominciava a sgombrarsi, si dissolvevano molti dei fastidi che opprimevano i miei pensieri, e il mio sguardo si rialzava all’orizzonte sul mare, piatto, calmo, illimitato; riprendevo la mia passeggiata, sollevando il capo, cercando di riconoscere alcune sagome nella forma delle nuvole, e non di rado in quei momenti rispuntava il sole, fra il grigiore delle nubi. E andava a colpire la superficie dell’acqua, rimandando riflessi abbaglianti, illuminando anche il mio volto e le costruzioni che davano sulla spiaggia. Le mie preoccupazioni cominciavano a svanire, a venire ricacciate nell’inconscio, e ai miei occhi restava solamente il piacere di sentire sotto i piedi qualcosa che non fosse una suola o una soletta fredda. Camminavo più speditamente, le mie mani ondeggiavano al passo, mi rendevo conto di un flebile sentimento di felicità, di gaiezza, che lentamente pervadeva il mio spirito. Le mie espressioni corrucciate si distendevano, a volte mi fermavo a fissare qualche piccola imbarcazione che galleggiava sull’orizzonte, a chiedermi chi vi fosse sopra e perché fosse uscito proprio quel giorno. E pensavo alla distanza che separava la battigia sulla quale mi trovavo dall’altra sponda, proprio di fronte a me, a centinaia di chilometri; a che altezza avrei dovuto spostare il mio sguardo per poterla vedere; a chi vi abitava vicino e a cosa stava facendo. Oppure immaginavo che ci fosse un altro ragazzo dall’altra parte del mare che fissasse anch’egli l’orizzonte e si chiedesse dove fossi io e cosa stessi pensando. Non mi sedevo mai: non sentivo il bisogno di riposarmi, di fermarmi, ma piuttosto raggiungevo la punta di tutti i moli che incontravo lungo la costa, mi fermavo sotto al faro e mi ci appoggiavo. Il freddo vento dell’inverno pungeva il volto, gonfiava i vestiti ed avrebbe molto probabilmente portato via i miei pensieri, veloci com’erano, se non fossero rimasti nella mia testa. Poi, non appena tornavo a camminare sulla sabbia, sentivo un irrefrenabile impulso a correre. Non so perché: forse per raggiungere il prima possibile quel ristorantino tipico, piccolo sui pali infissi nell’acqua bassa della baia, forse per sgranchirmi le gambe. O forse per il desiderio di sgombrare la mente impegnando il corpo. Così allungavo il passo, saltellavo come avevo imparato a fare da piccolo, ritmando i miei movimenti: poi finalmente correvo, dapprima piano, poi sempre più veloce, da solo. I miei muscoli cominciavano ad affaticarsi, li sentivo trasmettermi lo sforzo, ma non mi fermavo; continuavo imperterrito, e mi sentivo parte di un mondo diverso, totalmente avulso da quello in cui ero costretto a muovermi io: un mondo fatto di sabbia, acqua, nuvole e vento, quasi totalmente sconosciuto, che mi divertivo ad esplorare correndo. Mi sembrava quasi di lanciare i miei scatti sul verde intenso di una prateria irlandese, o di correre lungo le rive del Nilo, o nel deserto del Gobi, o nelle strade larghe ed affollate di Washington o di Roma. Sentivo tutto scorrere attorno a me, e tutto ciò che ero abituato a vedere nella mia vita (case, persone, strade, lampioni e quant’altro) sfumava sempre più velocemente, mi scompariva dietro, indefinito e dimenticato, per lasciare posto ai luoghi partoriti dalla mia fantasia. E correvo la maratona, correvo sulla Grande Muraglia cinese, correvo sulle piste dei bufali, assieme ad un branco di giraffe, tagliavo curve e chicane assieme a Montoya, e più su ancora, correvo beatamente e lentamente sulla luna, e ad ogni passo mi trovavo un chilometro più avanti, fino a quando non spiccavo un salto e mi allontanavo inesorabilmente… Il vento mi sferzava il volto, ma non lo sentivo; le gambe cominciavano a dolermi, ma non me ne curavo; gli occhi mi lacrimavano, ma non li chiudevo: proseguivo la mia corsa, fino a conquistare completamente ogni lembo di spiaggia, a marcarlo con le mie orme, e non contento, azzardavo qualche passo di danza, ma ne uscivano movimenti sgraziati e goffi, dei quali ridevo da solo; e così mi lasciavo cadere, sorridente, stanco e felice, sulla sabbia, fredda e dura, e fissavo il cielo, ansimando. Potevo vedere il cielo o solamente la cappa grigia di un’uggioso pomeriggio invernale: ma ero sempre ed ugualmente felice. Per pochi minuti, per pochi brevi istanti della mia vita, c’ero stato solo io, e niente e nessun altro, al centro di un universo immenso e sconosciuto. E solo io avevo potuto comandarlo. Non mi preoccupavo nemmeno dell’impatto che avrebbe avuto su me stesso il ritorno alla “civiltà” dal tempo della pietra nel quale mi trovavo. Là rimanevo, fantasticando sul mondo e su me stesso, ripetendomi frasi scherzose, richiamando alla memoria le espressioni più belle, le esperienze più care che avevo vissuto coi miei amici (e non erano molte), ridendo delle risate che m’ero fatto, dell’amore che avevo provato, della felicità che in qualche rara occasione della mia vita mi aveva spalancato il cuore, ma che spesso rivedevo negli occhi della mia ragazza. Rimanevo sdraiato anche per smaltire l’affanno, che ora si faceva sentire prepotente, e in quei momenti avrei potuto far di tutto, se non fossi stato solo: baciare un’amico, tuffarmi in mare anche se fosse stato febbraio, scavare tutta la sabbia della spiaggia ed infilarla – ah, ah! - in una bottiglietta di plastica. Ma il tempo correva: e mi rendevo conto di aver qualcosa legato attorno al polso. Lo guardavo, e spesso mi capitava di sbottare: “Cavolo, ma è tardissimo!”, così mi rialzavo, mi scrollavo di dosso la sabbia, appiccicatasi ai vestiti ed al mio sudore, e mi dirigevo verso casa, che correndo correndo m’ero lasciato molto indietro.Il rientro era sempre più o meno traumatico: il campanello, l’attesa davanti al portone di vetro e metallo, mal verniciato di grigio, poi mio padre che spuntava dalla finestra per chiedere chi fosse – ben sapendo che ero io -, mia madre che mi avvicinava subito per dirmi che un mio amico mi aveva cercato al telefono, la televisione, sempre accesa e sintonizzata su qualche stolido programma pomeridiano, oppure su un film western, oppure ancora zittito mentre trasmetteva della pubblicità, mio fratello che, appena tornato da scuola, mi minacciava di non avvicinarmi al computer perché “doveva scrivere una cosa importante”… Così finivo sempre per rintanarmi in camera mia, infastidito dai soliti rumori, dai soliti luoghi, dalla solita vita. E non riuscivo nemmeno ad addormentarmi.