Creato da sanavio.stefano il 09/01/2010

Anniversarock

Ricorrenze e anniversari della musica rock

 

 

Accadde vent'anni fa: Oasis "Definetely Maybe"

Post n°82 pubblicato il 19 Agosto 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Ebbene si, lo ammetto, sono stato un fan degli Oasis della prima ora. Il primo album mi è piaciuto molto anche se era un po’ troppo pulito per i miei gusti (beh, pulito come può essere qualsiasi prodotto se confrontato con i Sonic Youth, ma questo è un altro discorso). Avevo già avuto nella mia collezione di dischi un album pop chitarristico fatto da gente di Manchester, erano gli Stone Roses col loro esordio omonimo. Ecco, vogliamo parlare di quei sfigati dei Stone Roses? Sono usciti col disco giusto al momento sbagliato, nel 1989: canzoni superbe che non si dimenticano, il traino della stampa e delle facce da ragazzi cresciuti troppo in fretta. Pochi se ne resero conto ma qualche anno dopo con la stessa miscela invece gli Oasis fecero il botto. 

La loro epopea come già detto inizia nei sobborghi mancuniani dove Noel Gallagher, scafato roadie degli Inspiral Carpets (altra influenza per la futura band) entra come despota tra le file della band capitanata dal fratello Liam dove già militano il chitarrista Paul Arthurs, il bassista Paul McGuigan ed il batterista Tony McCaroll. Despota perché ha un caratteraccio, e saranno molteplici le zuffe (verbali e non solo) col fratello nel corso degli anni. Comunque sia firmano per la benemerita Creation di Alan McGee e fu un toccasana invidiabile, giacché le casse dell’etichetta erano state sfiancate dalle costosissime e paranoiche sessioni di registrazione di “Loveless” dei My Bloody Valentine di tre anni prima (un capolavoro, sia ben chiaro). Ho sentito dire da qualcuno che il pop più convenzionale ripagò le spese al pop più estremista. Sacrosante parole. Escono in successione i singoli “Supersonic”, “Shakermaker” e soprattutto “Live Forever” a sancire il loro successo folgorante in patria.

Agosto 1994, vent’ anni fa esatti esce “Definitely Maybe”, il primo di una lunga serie di successi mondiali per il gruppo, contiene ovviamente i tre singoli già pubblicati (dei tre probabilmente “Supersonic” è il mio preferito, con la spocchiosa recita del cantante che si fa cullare dalle chitarre veramente supersoniche) ma anche “Rock’n’roll Star” posta ad aprire le danze, vero manifesto della band, assieme alla caustica “Cigarettes & Alcohol” e “Married With Children”.

 
 
 

Accadde trent'anni fa: David Sylvian "Brilliant Trees"

Post n°81 pubblicato il 16 Luglio 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

La storia del David Sylvian solista inizia con la fine dell’avventura dei Japan. La vicenda della band è nota: verso la fine del ‘73 tre giovani studenti londinesi, Anthony Michediles e i fratelli David e Steve Batt (AKA Mick Karn, David Sylvian e Steve Jansen) decidono di formare una band. A loro si uniscono tramite annuncio su Melody Maker Rob Dean e Richard Barbieri. 

Da qui in poi spazia la leggenda di un gruppo stratosferico come cifra stilistica, amanti dei Roxy Music, del glam rock (Bowie su tutti) ma anche del sound Motown, tra il 1978 e 1983 pubblicano alcuni album entusiasmanti, particolari, occhieggianti alle sonorità orientali, all’elettronica fino al jazz fusion e musica da camera. 

Al termine di un tour mondiale il gruppo si sfalda, ed il cantante, a sorpresa, rompe il silenzio con il proprio esordio da solista. 

Luglio 1984, trent’ anni fa esatti esce “Brilliant Trees” con addosso le aspettative dei vecchi fan dei Japan, aspettative che, diciamolo subito, non vanno disperse: si tratta di un disco introspettivo, a tratti ostico, venato di ambient, jazz e soul, lasciando spazio al rock alla sola “Red Guitar” e all’iniziale funkeggiante “Pulling Punches”; per il resto si spazia dalla sognante (e splendida) “Nostalgia” a “The Ink In The Well”, la sua autocelebrazione termina con la perla che da titolo al disco, ancora sognante e melanconica dotata di arrangiamenti ambient etnici e arricchita dal canto di Sylvian, mai così caldo e avvolgente. 

Dopo questo disco il nostro continuerà a sfornare regolarmente dischi più o meno buoni, collaborando nel proprio percorso, tra gli altri, con l’ex Can Holger Czukay e con l’ex King Crimson Robert Fripp. 

 
 
 

Accadde trent'anni fa: Husker Du "Zen Arcade"

Post n°80 pubblicato il 01 Luglio 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Ricordo chiaramente che all’uscita dal concerto degli U2 tenutosi a Modena nell’ormai lontano 1987 captai per sbaglio una scambio tra alcuni coetanei che rilanciavano l’appuntamento a Torino per vedere gli Husker Du. A parte la distanza scoraggiante lasciai perdere perché non è che girassero molti soldi da dedicare agli spettacoli live e toccava fare delle scelte, comunque mi sarebbe piaciuto vederli dal vivo durante il tour di promozione dell’allora recente (e ultimo della loro storia, ma nessuno poteva saperlo) “Warehouse: Song And Stores”, ancora oggi un disco stupendo che resterà per sempre immortale ricordo di un’epopea finita troppo presto. I protagonisti si chiamavano e si chiamano tutt’ora Bob Mould, Grant Hart e Greg Norton; i primi due geniali tessitori del suono mentre il terzo cuscinetto tra le due forti personalità dei compagni nonché raccordo ritmico nell’economia della band. L’inizio di tutto è il live “Land Speed Record” dove si esalta un suono aspro, furibondo nel classico stile hardcore tanto in voga nel periodo, le chitarre allucinate martellano assieme alle percussioni inni di impressionante velocità, così come nel successivo “Everything Falls Apart” dell’83. Poi dopo un altro EP dal nome “Metal Circus” inizia quel periodo indimenticabile grazie al quale gli Husker Du entrano nell’olimpo delle band più importanti di sempre. 

Luglio 1984, trent’ anni fa esatti esce il doppio “Zen Arcade” per la SST Records (che Dio la benedica), concept album di immenso valore dove i nostri spaziano su altri terreni a loro congeniali, dopo aver incendiato la scena punk virano su sonorità psichedeliche (ad esempio “Hare Krisna”) non dimenticando però di rafforzare il mito delle esaltanti cavalcate hardcore (l’iniziale “Something I Learned Today”); in tutto ventitre pezzi per un totale di oltre un’ora di buona musica punk che si mescola con canzoni d’autore “Never Talking To You Again” o con incubi (e ce ne sono tanti) come la finale “Reoccurring Dreams” di oltre 13 minuti. Come molti sanno questo disco assieme al già citato “Warehouse” rappresenta il top della produzione dei nostri, poi ci sarà lo scioglimento a causa di risentimenti trascinati troppo oltre e soprattutto ad alcune sostanze tossiche che erano entrate, purtroppo, nel loro stile di vita. Ci possiamo consolare tutt’ora con le ultime uscite di Hart “The Argument” dell’anno scorso e l’ancor fresco di stampa “Beauty  & Ruin” di Mould. Norton non pervenuto negli ultimi anni, dopo che aveva deciso di riprendere la strada perduta.

 
 
 

Accadde quarant'anni fa: Bad Company "Bad Company"

Post n°79 pubblicato il 18 Giugno 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Nel 1973 dall’unione del cantante Paul Rodgers e del batterista Simon Kirke (entrambi provenienti dai Free) con il bassista Boz Burrel (ex King Crimson) e il chitarrista Mick Ralphs (già nei Mott The Hoople) nacque uno dei super gruppi più quotati degli anni settanta, i Bad Company. Il loro potenziale era altamente esplosivo, tanto da far scomodare un pezzo grosso (in tutti i sensi) quale Peter Grant, manager dei Led Zeppelin, che li volle a tutti i costi alla Swan Song, per la pubblicazione del loro esordio. 

Giugno 1974, quarant’anni fa esatti esce l’omonimo “Bad Company”, primo disco di una lunga serie ma mai più così godibile a mio avviso, contiene dei pezzi gustosi che caratterizzarono il primo periodo del gruppo, quali il singolo “Can’t Get Enough” primo di otto pezzi che inaugura nel migliore dei modi il disco, un southern rock ad alta gradazione alcoolica, si prosegue con “Rock Steady” dove spicca la malleabile voce di Rodgers, per continuare con “Ready For Love” caratterizzato da una cadenza blues. Altre chicche da citare l’omonimo “Bad Company” ad aprire la seconda facciata e la finale “Seagull”, acustica come sapevano fare i signori della ‘cattiva compagnia’.

Il successo è travolgente, l’album scala le classifiche soprattutto in America dove bisseranno col successivo “Straight Shooter” del ’75  ma perdendo via via il mordente iniziale, come ad esempio nel terzo “Run With The Pack”, sempre nei top ten peraltro.

La storia della band termina nell’ottantadue con il mesto abbandono di Rodgers e il tentativo da parte degli altri di far resuscitare il morto.

 
 
 

Accadde vent'anni fa: Marlene Kuntz "Catartica"

Post n°78 pubblicato il 30 Maggio 2014 da sanavio.stefano
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Di band italiane così sarebbe bello averne di più; ma non per lo stile che hanno abbracciato o per la loro immagine (che comunque hanno un peso nello show business) quanto perché nel corso della loro lunga vita artistica sono riusciti a regalare ogni sorta di emozioni pur non abbandonando mai la loro pura dignità di cesellatori di suoni ostici ed estremi, svariando nel pop mai banale rimanendo sempre loro stessi, un po’ come le anime belle di cui parlava De André e che non hanno mancato di omaggiare nel loro disco del 2013 “Ricoveri Virtuali e Sexy Solitudini”. Si parla dei Marlene Kuntz, nati agli albori degli anni novanta (quindi fanno ventiquattro anni di attività!) per opera del chitarrista Riccardo Tesio e del Batterista Luca Bergia, tutti originari di Cuneo, ai quali si unisce Cristiano Godano, voce e chitarra dei disciolti Jack On Fire. Dopo alcuni demo che ne segnano la gavetta vengono dotati da Gianni Maroccolo, ex Litfiba della prima ora ed ex Consorzio Suonatori Indipendenti con velleità di produttore, che li introduce al mondo della nuova etichetta dei CSI, il Consorzio Produttori Indipendenti. 

Maggio 1994, vent’anni fa esatti esce “Catartica” il loro esordio su lunga durata, contiene alcuni dei pezzi più pregiati del loro repertorio di sempre, per cominciare “Sonica”, un po’ il loro manifesto sonoro della loro irruenza assieme all’iniziale “MK”, “Lieve” ripresa poi da Giovanni Lindo Ferretti da quanto è bella, “Festa Mesta” con la frase diventata tormentone “complimenti per la festa..”; e poi “Giù Giù Giù” trascinante di adrenalina pura e “Trasudamerica” indolente, sognante, dal ritmo sexy. In generale stupisce la maturità dell’esordio, il suono noise con chitarre grezze e ululanti e la sezione ritmica compatta. Uno dei più entusiasmanti dischi italiani che io abbia mai sentito. In quel periodo scorazzarono a lungo per le contrade venete, io assistetti a ben sei (diconsi 6!) loro concerti tra improbabili capannoni e campi sportivi di periferia. 

Ad oggi sono ancora in attività, pur con qualche cambio formazione e di stile (dalla ferocia iniziale si è passato ad una forma di songwriting cantautorale introspettivo), il loro ultimo disco è dell’anno scorso “Nella Tua Luce” per la Sony; nella  loro storia c’è anche una dignitosa partecipazione a San Remo, senza rincorrere modelli di successo e senza snaturarsi per la vasta platea del festival.

 
 
 

Accadde trent'anni fa: Spandau Ballet "Parade"

Post n°77 pubblicato il 26 Maggio 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Solo a sentire il loro nome le fanciulle cadevano in estasi: Spandau Ballet, questa era la ragione sociale della band che spopolava fra gli (ma soprattutto le, inteso come genere femminile) adolescenti dei primi anni ottanta. D’altronde per chi aveva quattordici anni e sognava di essere invitata a cena da Simon Le Bon l’unica alternativa valida era quel bel manzo di Tony Hadley, ciuffo corvino fluente, mascella volitiva e una voce non sempre impeccabile ma capace di piegarsi alle mielose arie partorite dal gruppo e destinate a tempestare via onde FM gli appassionati di pop rock easy listening. E per chi era fuori dal giro non c’era scampo: in televisione, alla radio, sulle copertine dei magazine esistevano solo Spandau Ballet e Duran Duran, toccava sorbirseli in tutte le salse. E per chi era all’opposizione non restava altro che rintanarsi in casa, chiudersi in camera e suonare a livello “MAX” (cioè a palla) la propria copia lisa di “Pornography” e a chi ci invitava a discutibili festini dove si ballavano i lenti sulle note di “I’ll Fly For You” non restava che sventolare la nostra copia formato C46 di “Unknown Pleasures” a mò di crocefisso per spaventare il vampiro di turno. Raccontarla oggi la vita di trent’anni fa poteva essere tremenda per le insidie che potevano esserti inflitte dal compagno di banco, dalla vicina di casa oppure dai tuoi familiari. Io dagli Spandau (come venivano chiamati dai fan) son stato sempre alla larga. Vero è anche che durante la loro carriera hanno collezionato 23 singoli di successo e hanno trascorso un totale di oltre cinquecento settimane nelle classifiche inglesi , e le vendite dei loro dischi hanno superato i venticinque milioni (ripeto venticinque milioni!) in tutto il globo terrestre, segnando in maniera indelebile il decorso di quegli anni. 

E allora che Spandau Ballet sia; inizialmente formati col nome Cut i giovani fratelli Kemp (Gary e Martin, la vera anima della band, dapprima musicisti e in seguito approdati al mondo della celluloide) si uniscono al cantante Tony Hadley, al batterista John Keeble e al tuttofare ma soprattutto sassofonista Steve Norman per formare un ulteriore gruppo elettro pop pronto a cavalcare l’onda in voga a quel tempo nel Regno di sua maestà Elisabetta. Scritturati con molta fortuna fin da subito dalla major Chrysalis nell’arco di due anni tra il 1981 e ’82 rilasciano due dischi synth-pop-funk molto ruffiani adatti al pubblico dei teenagers. Ma è l’anno successivo che avviene la svolta, con “True”, disco che scala le classifiche inglesi e non solo, con dei singoli (e dei video) dove risaltano la vena orecchiabile ed il buon gusto per arrangiamenti funkeggianti. Anche il look ha il suo peso nell’economia degli Spands, sono bellocci, ben curati e rappresentavano i ragazzi ideali con cui far uscire le figlie e questo non può mai far male. 

Maggio 1984, trent’anni fa esatti esce “Parade”, che bissa il successo con una carrellata di pop song che mi torturavano ogni qual volta accendevo la radio. A quel tempo ricordo ad esempio il video di “Only When You Leave” con il mandrillo Tony Hadley che occhieggiava lo schermo con fare del consumato latin lover e il resto della band non era da meno. Pop però di buona qualità, confrontato con quanto passa oggi il convento, con molti riferimenti ai Roxy Music senza però la loro classe, con gli altri pezzi forti “Round And Round” e la tenera “I’ll Fly For You” che contribuirono, e molto, a far aumentare a dismisura il saldo dei conti correnti dei nostri. Gli Spandau continuarono la carriera con altri bei colpi commercialmente parlando quale “Through The Barricades” dell’86 (forse il pezzo più amato dai seguaci) fino a spegnersi definitivamente ad inizio degli anni novanta; a conti fatti forse è meglio così, non potevano reggere il grunge e shoegaze. Ogni tanto Tony Hadley si rivede in video, ospite di qualche trasmissione reducistica, palesemente ingrassato e con voce afona. A conti fatti hanno avuto più di quello che meritavano.

 
 
 

Accadde vent'anni fa Blur "Parklife"

Post n°76 pubblicato il 14 Aprile 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Inizio anni novanta: in terra albionica non c’è un gran che in grado di dettare legge in campo musicale, il mondo ascolta solo grunge e per i giovani inglesi giusto Manchester regala qualche soddisfazione per mano degli Happy Mondays ed il mondo baggy style; il giovane Damon Albarn sbarca il lunario come factotum in uno studio di registrazione. La voglia di studiare non è mai stata una delle sue priorità, la pop music invece si, ed è un bene perché da lui nasce l’idea di formare una band, e che sia di successo, ovviamente.
“Ho sempre saputo che ce l’avrei fatta, che avrei avuto successo” dichiarava con l’arroganza del predestinato senza velate forme di falsa umiltà. La scuola gli serviva solo per le relazioni sociali, relazioni che fruttano la conoscenza del chitarrista Graham Coxon, del batterista Dave Rowntree e del bassista Alex James ed il gioco è fatto. Si esibiscono con un repertorio fresco ed elettrizzante che intercetta l’attenzione di un boss della Food Records che manda in avanscoperta un certo Dave Balfe, ex tastierista dei Teardrop Explodes, il quale prende i giovani per mano e li porta in sala di registrazione scegliendo il nome futuro della band: non Sensitive, come desideravano dall’inizio, ma Blur, più fresco e tagliente come uno spot televisivo.
L’esordio del ’91 “Leisure” è un po’ un’occasione mancata; si respira un po’ di baggy, un po’ di Charlatans, qualcosa dei Stone Roses, ma niente che li stacchi dai modelli originali.
L’anno successivo sarà un calvario per i quattro: un tour americano dove a far da padrone è l’alcool più che la musica, problemi finanziari e litigi continui tra Albarn e Coxon non fanno ben sperare per il futuro. Al ritorno a casa si chiudono in studio con Andy Partridge che intende produrre il lavoro, ma purtroppo non se ne fa niente. Il fatto che i Blur siano molto somiglianti agli XTC incide sulla buona riuscita della collaborazione, e la band si trova senza produttore. In ogni caso riescono nel ’93 a dare vita a “Modern Life Is Rubbish”, titolo eloquente e sonorità più smarcate dai modelli vigenti, si può dire che sia la prova della maturità. Ed è un nuovo inizio per il brit pop che verrà, compresa la rivalità con gli Oasis (Noel Gallagher ebbe in proposito a rilasciare questa distensiva dichiarazione: “il chitarrista mi è simpatico, il batterista non lo conosco ma mi dicono sia un bravo ragazzo, gli altri due spero che prendano l’aids e muoiano perché li odio”). Nel mezzo di questo buonismo il linguacciuto Albarn che sa maneggiare i media renderà pan per focaccia ogni volta ne avrà l’opportunità.
Aprile 1994, vent’anni fa esatti esce “Parklife”, il disco che farà fare il salto di qualità: intanto per la varietà di sonorità espresse, per abbracciare con noncuranza melodie tipiche dei sixties e refrain veloci cari agli XTC (ma guarda un po’…) e dando sempre l’impressione di modernità. Anticipato dal singolo irresistibile “Girls     and Boys” robotico e mellifluo a metà strada fra Devo e Fall, l’album contiene un campionario di musica english oriented da far restare di stucco: ci sono le melodie anni sessanta (Kinks?), le tendenze post new wave e piccoli scherzi geniali che hanno il compito di spezzare la tensione. I pezzi che si elevano sugli altri a mio avviso “To The End”, “London Loves” e la title track.
Il disco vende e la band diventa un elemento importante dello star system: ai British Awards si porta a casa il premio per il miglior singolo, miglior album, miglior video e miglior gruppo. Aggiungo il mio personale award per questa band che ha tracciata una lunga strada che verrà percorsa con successo negli anni successivi con dischi anche più stimolanti di questo, ancorché molto diversi.

 
 
 

Accadde vent'anni fa: Soundgarden "Superunknown"

Post n°75 pubblicato il 25 Marzo 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Sul finire degli anni ottanta dopo la sbornia dei sintetizzatori passata qualche anno prima, cominciarono a riemergere band che prediligevano imbastire il loro suono con dei riff granitici molto vicini ai Black Sabbath o Led Zeppelin; era un periodo strano, le massime glorie del rock britannico e americano (leggi U2 e R.E.M.) erano state messe sotto contratto da major, sembrava che veramente e in modo irreversibile l’industria del disco, sempre a caccia di novità pronte a rimpinguare i portafogli dei manager, puntasse sulla scena indipendente (leggi Sonic Youth) senza preclusioni, anche quando la musica non era immediatamente spendibile come moneta sonante (leggi Husker Du). Dunque, nuove band hard rock, si diceva poc’anzi. Una delle prime novità da questo punto di vista che giunse alle mie orecchie si chiamava Jane’s Addiction, veri extraterrestri: non si era mai sentita una musica simile. Subito dopo vennero i Soundgarden. 
La loro storia inizia a Seattle, estremo baluardo nord ovest americano dove Chris Cornell, Kim Thayil e Hiro Yamamoto, conosciutisi al college, ingaggiano il batterista Matt Cameron (proveniente dai grezzi Skin Yard) e decidono di fare sul serio, talmente sul serio che Thayil, grazie al contributo di un filantropo DJ esperto della nascente scena grunge, mette in piedi la Sub Pop. I quattro pubblicano i loro due primi EP “Screaming Life” e “Fopp” (ripubblicati come album singolo nel ’90) e firmano per la SST per il loro esordio sulla lunga distanza. “Ultramega OK” del 1988 è un colpaccio, la band è richiesta in tutti i club più prestigiosi, insomma si fanno largo nel marasma della scena indie. Il disco è un sapiente melange fra hard grezzo e travolgente e puntate di oscurità che ricorda il post punk inglese. Sono anche spiritosi i nostri: due tracce vengono sapientemente chiamate “665” e “667”, i lati estremi del numero del diavolo, tanto per prendere un po’ in giro le solite voci che si rincorrono da (troppi) anni sul presunto satanismo legato alla musica rock; in mezzo a questi scherzi invece un pezzo tenebroso quale “Beyond The Wheel” con la voce di Cornell che si esprime su livelli di decibel sontuosi e tra le altre una riuscitissima cover di “Smokestack Lightning” del bluesman Howlin’ Wolf. Alcuni acuti critici discografici clonano la definizione Led Sabbath per definire il fenomeno Soundgarden, che è sicuramente calzante ma anche riduttivo, la fase ritmica richiama più di una volta punk e new wave, insomma la commistione è abbastanza riuscita ed originale. L’anno dopo firmano per una major, la A&M che li ha a lungo corteggiato ed è disposta a lasciare mano libera sulla conduzione artistica del gruppo. Bene farà, perché i nostri hanno in canna uno dei migliori album dell’89 in toto: “Louder Than Love” è un granitico monumento di hard tenuto ad altissimi livelli, la voce di Cornell non si pone limiti (se non quelli appartenuti a Robert Plant e Ozzy Osbourne), i pezzi sono tra i migliori che hanno mai scritto, i testi a volte bricconi (vedi “Full On Kevin’s Mom”) a volte visionari spiazzano l’ascoltatore e parlano di una band in grandissima forma. Nel ’90 il bassista Yamamoto lascia la band per motivi di studio, rimpiazzato in maniera definitiva da Ben Shepherd. L’anno successivo tornano con “Badmotorfinger”, piaciuto molto ai fan, che regala ancora momenti indimenticabili. E’ il 1991 e c’è nei dintorni una band che trascina col suo immenso successo commerciale tutto il movimento denominato grunge. Si parla dei Nirvana ovviamente. In quel periodo la band si prende una pausa e Cornell approfitta per varare un progetto parallelo denominato Temple Of The Dog, nato per ricordare uno sfortunato compagno di stanza di Cornell prematuramente venuto a mancare, sfoggia al suo interno una serie di bei nomi della scena grunge quali Eddie Vedder, Mike McReady, Jeff Ament e lo stesso Cameron. L’esito atteso è il monumentale omonimo “Temple Of The Dog”. Ora però è tempo di affermare a livello mondiale la ditta Soundgarden, il momento giusto avviene due anni dopo.
Marzo 1994, vent’anni fa esatti esce “Superunknown”,  un disco meno omogeneo del solito ma dai grossi risultati di vendita, tant’è che la ballata “Black Hole Sun” (chi non la ricorda?) funge da traino in virtù di una melodia psichedelica cristallina e di un video passato in hard rotation su MTV. Ma non solo, sfila una sequenza di pezzi inarrestabile per un totale di un’ora e dieci minuti di pura adrenalina, con la sinuosa “Fell On Black Days”, una “Spoonman” che potrebbe appartenere al repertorio degli Zeppelin e altre prelibatezze quali “My Wave” e la scatenatissima title track. Questo disco rimane l’apice della band, molto più levigato e mainstream dei precedenti ma capace ancora di emozionare i fan. Peggio andrà col successivo “Down On The Upside” e con la fine repentina della prima vita dei Soundgarden. Torneranno, come ormai fan tutti, con la reunion targata 2010.

 
 
 

Accadde vent'anni fa: Therapy? "Troublegum"

Post n°74 pubblicato il 12 Febbraio 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Visti all’inizio come la risposta britannica agli Husker Du in chiave hardcore fracassone e malato, i Therapy? (con punto di domanda finale, mi raccomando) si formano al crepuscolo degli anni ottanta per merito di Andy Cairns, corpulento chitarrista e cantante, Fyfe Ewing alla batteria e Michael McKeegan al basso.
Tra il ’91 e ’92 pubblicano due mini LP di spessore rispetto al panorama contemporaneo (Kurt Cobain ha fatto scuola) che hanno un discreto successo nelle charts indipendenti e spiccano i versi vergati da Cairns, in particolare “Potato Junkie” e quel verso che da subito richiama l’attenzione dei neo barbari grunge dove ‘James Joyce is fucking my sister’! Risate incondizionate si levano tra gli astanti.
Ancora nel ’92 l’esordio per un’etichetta major A&M dove la furia giovanile non si placa e il muro del suono del produttore Harvey Birrel sforna pezzi da antologia quali l’ipnotico “Disgracelands” e le chitarre al fulmicotone di “Accelerator” che hanno più di qualche debito con la band di Hart / Mould / Norton ormai disciolta ma non dimenticata da quelle parti.
Febbraio 1994, vent’anni fa esatti esce “Troublegum”, sempre per la A&M e segna un grosso colpo in termini di vendite; forse perché la vena deflagrante ha lasciato posto ad un respiro più pop (che è sempre stato latente nel loro sound), forse perché siamo già nel verso discendente dell’ispirazione, fatto sta che questo album è indiscutibilmente buono ma troppo ecumenico rispetto alle attese. Spicca la furiosa cover di “Isolation” dei Joy Division e i vari singoli estratti “Screamager” e “Turn” che arrivano anche alle radio FM con buon riscontro e gradimento.
Strano (o tragico) a dirsi la band è ancora attiva, l’ultimo disco uscito è "A Brief Crack of Light" del 2012 per la Blast Records.

 
 
 

Accadde trent'anni fa: The Smiths "The Smiths"

Post n°73 pubblicato il 05 Febbraio 2014 da sanavio.stefano
Foto di sanavio.stefano

Una settimana fa mi sono recato in un grande supermercato della mia città e bighellonando tra un reparto salumi e quello dei giochi per bambini mi sono imbattuto in un piccolo scaffale contenente diversi cd a basso prezzo. Ho pensato alle solite cianfrusaglie tipo il meglio dei Collage oppure una raccolta di Fausto Papetti (che se non altro aveva il merito di sfoggiare delle copertine interessanti, non so se mi spiego…) e invece mi sono trovato davanti ad una raccolta degli Smiths.
Questo inaspettato incontro mi da modo di parlare di una band che ho amato parecchio, di un amore a prima vista, anzi a primo udito, negli anni ottanta. La storia è ambientata a  Manchester dove l’aspirante giornalista grafomane appassionato anche di cinematografia Stephen Patrick Morrissey, affascinato dalla scena post punk locale (oltre alle glorie Joy Division, Magazine e Fall, crescono minori di grande pathos quali Ludus e Passage) incontra John Martin Maher, talentuoso chitarrista meglio conosciuto come Johnny Marr, invasato di psichedelica sixties; i tempi sono propizi per il lancio di una nuova band e dopo aver assoldato  una sezione ritmica adeguata (il bassista Andy Rourke e il batterista Michael Joyce) decidono fra tre opzioni: Smithdom, Smith’s Family e, quella definitiva, The Smiths. Non ci fosse il manager Joe Moss, padre putativo pronto a fare gli straordinari per i suoi protetti, la band non andrebbe avanti per molto; complice un nastro registrato ai Decibel Studio, la loro fama aumenta a dismisura anche con il contributo delle interviste memorabili che il linguacciuto e debordante Morrissey rilascia a piè sospinto. Ad esempio: “Hand in Glove è la canzone più importante al mondo” oppure “sono un ribelle in pantofole”. Gli Smiths si fanno strada tra concerti grondanti di passione e sudore e articoli incoraggianti degli organi di stampa che hanno fame di un segno rivitalizzante per la musica albionica, stanca di elettro pop, ultimi bagliori di new wave e neo romantici divenuti loffe star da tutto esaurito. Arriva finalmente la Rough Trade a siglare un sodalizio destinato a durare fino alla fine (della band, non dell’etichetta) e nel maggio ’83 esce un singolo epocale, “Hand in Glove”: epocale perché stupendo e comunque suggella simbolicamente la fine della new wave che conta. Troppo diverso il suono di questa band per essere catalogata con quanto si conosce, troppo anni sessanta la chitarra, e la voce di Morrissey che cinguetta beatamente versi incomprensibili e stuzzicanti. Nel giro di un anno i nostri partoriscono alcune tra le canzoni più memorabili degli anni ottanta, “This Charming Man”, “Reel Around the Fountain” e soprattutto l’irresistibile “What Difference Does It Make?”, perle di rara bellezza che ammutoliscono anche le critiche pretestuose che piovono sul gruppo per una presunta pedofilia a causa di alcuni versi su “Suffer Little Children”. Ma tant’è, anche le polemiche servono ai fini pubblicitari, e l’esordio su lunga distanza spazzerà ogni dubbio.
Febbraio 1984, trent’anni fa esatti esce “The Smiths”, nome semplice ma trame complicate (nel corso dei lavori alla produzione troviamo prima Troy Tate, ex sodale di Julian Cope nei Teardrop Explodes, e poi John Porter) per un disco che sfiora il capolavoro; colpisce la voce di Morrissey, elegante e raffinata che si piega alla bisogna passando dal falsetto a rigogliosi yodel di stampo altoatesino, colpiscono i riff chitarristici scolpiti da Marr con furia e maestria, colpisce l’insieme, la band destinata a marchiare a fuoco la decade. Disco non perfetto, si diceva poc’anzi, colpa di qualche episodio minore a mio avviso, un nome su tutti “The Hand That Rock The Cradle”. Ma avranno modo di rifarsi con gli interessi.

 
 
 

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