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Post N° 194


LA GIORNATA DELLE VOCAZIONI CHE MANCANO  «Cristo chiama sempre» La certezza che ci sferza  MARINA CORRADI  I l Concilio Vaticano II affermò che «Cristo chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, perché siano con lui e per inviarli a predicare alle genti». Lo ha ricordato Benedetto XVI nel messaggio per questa Giornata mondiale per le vocazioni. Un duplice accento di richiamo: in un tempo che di vocazioni sacerdotali è povero, quel «Cristo chiama sempre». E: «per inviarli a predicare alle genti», che dice come per la Chiesa la missione, l’annuncio, sia struttura costitutiva e originaria – in un tempo che la pretenderebbe silenziosamente dedita a una fede privata.  Cristo chiama sempre. Ma allora, perché le vocazioni, fatta eccezione per alcuni ordini femminili e claustrali, sono così poche? Già un principio di risposta potrebbe stare in questa parola, 'vocazione'. Parola antica, ma di cui il significato sembra cambiato. Se oggi si dice di un ragazzo che ha una vocazione per il giornalismo, si intende che è portato, ha una capacità o anche solo un’attrazione verso questo lavoro.  'Vocazione', comunemente parlando, è inclinazione verso qualcosa. Nel linguaggio cristiano invece è ben altro: è essere chiamati – che significa che qualcuno ti chiama. Dunque, che un Dio che ti conosce, e addirittura ha un disegno su di te. Ipotesi sbalorditiva, in un tempo che predica che 'Dio, se c’è, non c’entra' con gli uomini. Ipotesi scandalosa e vessatoria, nell’epoca del culto dell’Io, di ogni sua voglia, del mito della autorealizzazione. Oggi è difficile parlare di vocazione in senso cristiano. Questa parola presuppone il riconoscimento di un Altro e di una sua volontà su di noi: seguendo la quale si realizza la pienezza del proprio destino. Questo è quanto ti dice la giovane novizia trappista a Vitorchiano, con una pace in faccia che ti sbalordisce. O quei giovani preti, ostinati navigatori controvento, che abbandonando studio o lavoro arrivano all’ordinazione. Uomini, e donne, che hanno individuato una chiamata interiore spesso occultata in un mazzo di apparentemente più allettanti ipotesi. Come, dentro al rumore, riconoscendo, fra le tante, una voce diversa. E seguendola, certi che quella è la strada.  «Dio chiama sempre», assicura la Chiesa, ma nel rumore gli uomini faticano a sentire. Occorre, per riconoscere quella chiamata, stare attenti. Occorre che qualcuno ti abbia educato a ascoltare. Ma gli uomini certi di bastare a se stessi, non ascoltano niente. Un’altra cosa che ti dicono i giovani preti è: potevo avere un lavoro, dei soldi, una donna, ma, «io volevo tutto». La radicalità della domanda, così come della donazione di sé, è assoluta, e urta fragorosamente contro la forma mentale del mondo di oggi. Negli anni del precariato affettivo e lavorativo, del finché dura, dei progetti a breve termine, andare prete o suora è un volere e promettere tutto, e per sempre. Trovando, in questa adesione, il compimento della propria attesa. Che scandalo: la felicità, in un’obbedienza.  Anacronistico, quasi provocatorio. Accade che le famiglie di questi ragazzi ne osteggino la scelta, come se i figli fossero stati rapiti. Per seguire chi?  Per obbedire a che cosa? domandano smarrite.  Eppure quel Dio dato per morto, o sideralmente indifferente nel suo cielo, chiama ancora «quelli che egli vuole». Discretamente, a bassa voce.  Occorre tendere l’orecchio. E, se un figlio o una figlia mostra l’audacia di chi vuole 'tutto', non voler ridurre quella radicale domanda ad una saggia, triste, 'ragionevole' misura.  È un dono, e sta alla libertà riconoscerlo. Come quel ragazzo lombardo ora missionario a Taiwan, che appena arrivato si sentì dare, come usa laggiù, un altro nome in cinese, riecheggiante il suono di quello italiano. «Ma che vuol dire questo nome?» domandò. Vuol dire «grato per il dono ricevuto», gli risposero. Prete, dall’altra parte del mondo, per riconoscere finalmente il suo destino. 
 
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