Un blog creato da Antologia1 il 25/11/2007

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Citazioni nei Blog Amici: 17
 
 
 
 
 
 
 

REINCARNAZIONE .....

L’uomo intuisce lo scarto tra le aspirazioni eccessive del suo cuore e le forze e il tempo che ha a disposizione, la soluzione reincarnazionista sembra fornire una facile via di soluzione, in quanto la realizzazione si dispiega in un indefinito numero di esistenze. In realtà essa cela l’illusione di risolvere quantitativamente un problema che è di natura qualitativa:

una relazione di amore con la Persona assoluta ed infinita non si costruisce mediante degli sforzi umani, per quanto ripetuti e numerosi essi siano. Questa sarebbe la torre di Babele. Certamente lo sforzo, nel senso di un impegno decisivo e totale della libertà appartiene strutturalmente a questa relazione che – essendo relazione dialogica e personale – è incontro tra libertà, tra la libertà assoluta e quindi infinita di Dio e la libertà partecipata, limitata e fragile dell’uomo. Il dialogo tra persone presuppone che le persone si incontrino e si fronteggino – volto contro volto -, siano ciò distinte e l’unico modo per distinguersi realmente dalla Persona infinita è quella di esser posti nel limite. Il limite allora, la creaturalità, lungi dall’essere un handicap, risulta essere proprio il presupposto di possibilità di quella relazione d’amore che è la perfezione propria della persona umana; dove il corpo, oltre ad essere il garante del limite in quella situazionalità spazio-temporale che gli è propria essenzialmente, è anche lo strumento indispensabile della relazionalità umana. Per l’uomo il proprio corpo è la condizione del suo essere nel mondo e della sua apertuta al mondo e all’altro. Paradossalmente voler diventare Dio - il che può essere espresso in formule accattivanti, come il dissolversi nell’Uno-Tutto, il perdersi nell’armonia universale di tutte le cose, ecc. – inteso in senso stretto e proprio - vorrebbe dire voler cadere nel nulla, desiderare nihilisticamente l’estinzione di qualunque consistenza del proprio io e della propria identità personale. Nulla di fatto succederebbe in Dio che da sempre è e sempre sarà, mentre la mia vicenda sarebbe solo quella di un annientamento del mio essere e della mia coscienza di me… C’è da chiedersi se questo sia possibile non solo da un punto di vista metafisico, posto che l’appetito dell’essere è connaturato all’essere, ma anche da un punto di vista antropologico: si può dire di desiderare l’annientamento, ma come ammonisce Aristotele «non è necessario che tutto ciò che uno dice lo pensi anche»[19]. Altro invece è vivere la propria relazione con Dio come partecipazione a relazioni sussistenti in Dio stesso, che sono le divine persone della Trinità.

 
 
 
 
 
 
 

 

 

Post N° 202

Post n°202 pubblicato il 16 Aprile 2008 da Antologia1

**********

   
Rino Cammilleri,

 "I Mostri Della Ragione. Dai Greci Al Sessantotto:
Viaggi Tra I Deliri Di Utopisti & Rivoluzionari"

MILANO, Ares 1997,
 
     

INVITO ALLA LETTURA


di Vittorio Messori
 
 
Il titolo di questo libro è un evidente rovesciamento della frase (troppo acriticamente ripetuta) che sta sotto la celebre incisione di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Come le pagine che seguono confermano ad abundantiam, può essere vero il contrario. Così, del resto, la storia ha sempre mostrato: sono certe “veglie” della Ragione (soprattutto quando è pensata e scritta con la maiuscola) a partorire mostri. E spesso terribili per inesausta sete di sangue.


L'insofferenza per il mondo com'è, il sogno di come potrebbe essere perfetto se organizzato “secondo ragione”, accompagnano da sempre gli uomini. Anche l'antichità classica si cimentò in celebri opere “utopistiche”: ma a differenza di quanto sarebbe poi successo nei secoli “moderni” nessuno pensò di tradurre, o di lasciar tradurre in pratica quei progetti, considerati come pure astrazioni, come una sorta di elegante quanto innocua ginnastica mentale. Neppure il cristianesimo “autentico” si prefisse di costruire qui e ora - “il mondo perfetto”: cuore della speranza cristiana è sì l'attesa di “terre nuove e cieli nuovi”, ma proiettati alla fine della storia. Secondo la sapiente legge (che è soprattutto segreto “cattolico”) dell'et-et, il cristianesimo, alla spinta ideale, alla proposta del meglio, affiancò sempre il realismo, con la sua comprensione e l'accettazione presente dell'uomo concreto.

  
Fare del mondo un monastero dove tutti praticassero tutte le virtù equivarrebbe a trasformarlo in un'immensa prigione, dove ciò che si potrebbe ottenere sarebbe al massimo il trionfo dell'ipocrisia. Questo, per fortuna, ha sempre creduto la Chiesa cattolica, che pure ha generato dal suo seno (a ogni generazione, e con una costanza straordinaria) degli “istituti di perfezione”: ordini, congregazioni, compagnie, dove uomini e donne vivono “l'utopia”, tentano di anticipare nel mondo ciò che sarà finalmente norma quando il mondo medesimo e la sua storia saranno consumati...
Ma non a caso si è sempre parlato di “vocazione”: occorre essere vocati, è indispensabile una “chiamata” divina, misteriosa e individuale, per mettersi su questa via tanto impervia e rischiosa da essere circondata da mille cautele codificate. Vaglio minuzioso delle “regole”, approvazioni ad experimentum, sorveglianza continua, esortazioni a moltiplicare l'impegno spirituale e ascetico sino all'eroismo: tutto questo per non ricadere nella condizione dell'“uomo naturale” sempre in agguato. Non a caso la storia di questi istituti è storia di continue riforme per tornare all'ideale.
Prima dell'inquinamento da ideologie post-cristiane (soprattutto nella versione della vulgata marxista), almeno nella sua versione cattolica il cristianesimo ha sempre avuto ben chiaro che ci è stato promesso un solo paradiso: e non per questa terra. Per dirla con Cammilleri, “la Chiesa ha sempre predicato all'uomo come dovrebbe essere, ma cominciando con l'accettarlo come è”.

Così che, come è stato osservato, la sapienza evangelica e insieme umanissima che presiedeva, nei seminari, alla formazione degli uomini di pastorale, dei sacerdoti “in cura d'anime”, raccomandava di essere araldi di utopia e di intransigenza sul pulpito e al contempo misericordiosi e comprensivi nel confessionale, confrontandosi con la debolezza della creatura concreta.


Quanto agli uomini organizzati in società, è significativo che la Chiesa non si sia mai espressa con dichiarazioni autoritative, sacralizzando un modo di governo, una struttura politica rispetto ad altre: possono esserci state, negli uomini di Chiesa, delle preferenze, determinate da condizioni storiche; ma nessuna presa di posizione de fide. Un affidarsi “cattolico”, anche qui, al pragmatismo realistico che ben sapeva, assai prima di Machiavelli, che non esiste - nella cosa pubblica -“piano”, per quanto attraente e studiato, che, applicato a un problema, non crei necessariamente altri problemi. Il solo modo davvero cristiano per rispondere al dovere di cercare di rendere il più ordinata e umana, il meno ingiusta possibile, la convivenza sociale è il puntare non sull'esterno, ma sull'interno dell'uomo: tentare di renderli davvero cristiani - uno a uno - e, dunque, aperti all'amore, alla solidarietà, alle virtù anche di buon cittadino.

Con la fuoriuscita, spesso polemica, dalla tradizione cristiana -a partire dal XVIII secolo - prima dell'intellighenzia occidentale e poi via via di settori sociali sempre crescenti, alla prospettiva di fede, con la sua concretezza attenta “all'uomo quale davvero è”, si sostituisce l'astrattezza della ideologia. “L'uomo quale dovrebbe essere”. Nel chiuso dei loro cabinets de travail o nello scintillio mondano dei salotti, si muovono i primi rappresentanti di una nuova, temibile categoria: quella degli “intellettuali”. Coloro, dunque, che, immemori della complessità umana, non usano che di una sola facoltà: “l'intelletto”, la “ragione”, e questa tendono a sostituire alla fede, sino al punto di attribuirle attributi divini e ad adorarla sotto le navate delle cattedrali dalle quali è stata finalmente cacciata la superstizione oscurantista di una “rivelazione” irrazionale e irragionevole. Assurda e dannosa a cominciare dalla radice stessa di quell'oscurantismo: la credenza nel peccato; e in quello “originale” in particolare. Se l'uomo è spesso infelice, se la società è disorganizzata e ingiusta, se liberté-egalité-fraternité non presiedono ai rapporti tra le persone, non è certo per qualche risibile causa teologica: è mancato un “piano steso secondo ragione”; non si è permesso ai “filosofi” di legiferare, non si è affidato il governo agli “esperti”, agli “intellettuali”, ai “migliori”; a coloro, insomma, che in tutto sanno di doversi adeguare alle categorie razionali. E a quelle soltanto, senza sciocchi rispetti per tradizioni, costumi, credenze, “superate” dai lumi.
 
Purtroppo, quel XVIII secolo si chiuse con un avvenimento che la Provvidenza aveva sino ad allora risparmiato all'umanità: a discorsi, libri, sogni, piani - restati sino a quel momento le divagazioni teoriche che dicevamo, sin dall'antichità - fu data la possibilità di farsi storia concreta. In quel fatale 1789, tra Versailles e Parigi, gli “amici dell'umanità”, i tedofori della ragione per la prima volta poterono mettere in pratica i loro begli schemi.

Cominciò così il martirologio della modernità. Da allora sino a oggi, il bilancio di quelle ideologie venute a sostituire “l'irrazionalismo religioso” è drammaticamente monotono: sempre, senza alcuna eccezione, i paradisi in terra promessi dal “piano” pensato a tavolino si sono trasformati in ben concreti inferni nella pratica. Sempre, in nome della “fraternità”, si è giunti al Terrore, non di rado al genocidio. E per un meccanismo tanto semplice quanto implacabile: l'utopia da intellettuale, così impeccabile e attraente sulla carta, applicata -con le buone, ma spesso con le cattive - alla carne viva dell'umanità mostra subito la sua astrattezza, la sua incapacità di far posto alla complessità del reale.
Ma se la teoria non funziona nei fatti, gli “ideologi” non ne deducono l'inadeguatezza, ma ne traggono un minaccioso: “Ebbene, tanto peggio per i fatti! ”.
  
Così l'utopia perde subito i suoi aspetti “umanistici” e mansueti, radicalizzandosi e divenendo oppressiva: “Sii mio fratello o muori!”.
Le prigioni cominciano ad aprirsi per gli “asociali”, cioè per coloro che non ce la fanno, come tutti , ma osano dirlo, ad adeguarsi a un modello così teorico e, dunque, disumano, di società. Ma poiché nessuna repressione basta, e tutto il meccanismo si inceppa sempre più - a cominciare, di solito, dal lato economico, ma anche da quello etico, morale: che è carissimo tra tutti al cuore di ogni utopista - ecco sorgere l'ossessione del complotto: la teoria è perfetta; volente o nolente (a parte le frange “asociali”, già castigate come meritano) la gente cerca di praticarla, anche perché la polizia vigila. Se le cose non funzionano, se anzi peggiorano sempre più, la colpa è delle “quinte colonne”, è dei sabotatori interni, è dei nemici esterni, è delle oscure forze della reazione, è del mondo che muore che non si rassegna al nuovo. Da qui purghe, epurazioni, lager e gulag = il Terrore.

E' la parabola tragica che ha accompagnato la modernità e che è costata così spesso sangue; sempre, delusioni cocenti, sperpero di energie e di intelligenze, rovesciamento delle attese (per limitarci all'ultima, impressionante, ubriacatura da utopie e da “piani per un mondo diverso” - quella del Sessantotto - si è forse dimenticato che i mitici “giovani” di allora sono diventati, vent'anni dopo, la generazione dei quarantenni più sfacciatamente “edonisti”, forse i meno “sociali” del secolo, i “rampanti” degli anni Ottanta e del boom economico dell'era reaganiana?).

  

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 ECCEZIONALE!!!!!

Post n°201 pubblicato il 16 Aprile 2008 da Antologia1

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Rino Cammilleri,

 "I Mostri Della Ragione. Dai Greci Al Sessantotto:
Viaggi Tra I Deliri Di Utopisti & Rivoluzionari"

MILANO, Ares 1997,
 
     

INVITO ALLA LETTURA


di Vittorio Messori
 
 
Il titolo di questo libro è un evidente rovesciamento della frase (troppo acriticamente ripetuta) che sta sotto la celebre incisione di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”. Come le pagine che seguono confermano ad abundantiam, può essere vero il contrario. Così, del resto, la storia ha sempre mostrato: sono certe “veglie” della Ragione (soprattutto quando è pensata e scritta con la maiuscola) a partorire mostri. E spesso terribili per inesausta sete di sangue.


L'insofferenza per il mondo com'è, il sogno di come potrebbe essere perfetto se organizzato “secondo ragione”, accompagnano da sempre gli uomini. Anche l'antichità classica si cimentò in celebri opere “utopistiche”: ma a differenza di quanto sarebbe poi successo nei secoli “moderni” nessuno pensò di tradurre, o di lasciar tradurre in pratica quei progetti, considerati come pure astrazioni, come una sorta di elegante quanto innocua ginnastica mentale. Neppure il cristianesimo “autentico” si prefisse di costruire qui e ora - “il mondo perfetto”: cuore della speranza cristiana è sì l'attesa di “terre nuove e cieli nuovi”, ma proiettati alla fine della storia. Secondo la sapiente legge (che è soprattutto segreto “cattolico”) dell'et-et, il cristianesimo, alla spinta ideale, alla proposta del meglio, affiancò sempre il realismo, con la sua comprensione e l'accettazione presente dell'uomo concreto.

  
Fare del mondo un monastero dove tutti praticassero tutte le virtù equivarrebbe a trasformarlo in un'immensa prigione, dove ciò che si potrebbe ottenere sarebbe al massimo il trionfo dell'ipocrisia. Questo, per fortuna, ha sempre creduto la Chiesa cattolica, che pure ha generato dal suo seno (a ogni generazione, e con una costanza straordinaria) degli “istituti di perfezione”: ordini, congregazioni, compagnie, dove uomini e donne vivono “l'utopia”, tentano di anticipare nel mondo ciò che sarà finalmente norma quando il mondo medesimo e la sua storia saranno consumati...
Ma non a caso si è sempre parlato di “vocazione”: occorre essere vocati, è indispensabile una “chiamata” divina, misteriosa e individuale, per mettersi su questa via tanto impervia e rischiosa da essere circondata da mille cautele codificate. Vaglio minuzioso delle “regole”, approvazioni ad experimentum, sorveglianza continua, esortazioni a moltiplicare l'impegno spirituale e ascetico sino all'eroismo: tutto questo per non ricadere nella condizione dell'“uomo naturale” sempre in agguato. Non a caso la storia di questi istituti è storia di continue riforme per tornare all'ideale.
Prima dell'inquinamento da ideologie post-cristiane (soprattutto nella versione della vulgata marxista), almeno nella sua versione cattolica il cristianesimo ha sempre avuto ben chiaro che ci è stato promesso un solo paradiso: e non per questa terra. Per dirla con Cammilleri, “la Chiesa ha sempre predicato all'uomo come dovrebbe essere, ma cominciando con l'accettarlo come è”.

Così che, come è stato osservato, la sapienza evangelica e insieme umanissima che presiedeva, nei seminari, alla formazione degli uomini di pastorale, dei sacerdoti “in cura d'anime”, raccomandava di essere araldi di utopia e di intransigenza sul pulpito e al contempo misericordiosi e comprensivi nel confessionale, confrontandosi con la debolezza della creatura concreta.


Quanto agli uomini organizzati in società, è significativo che la Chiesa non si sia mai espressa con dichiarazioni autoritative, sacralizzando un modo di governo, una struttura politica rispetto ad altre: possono esserci state, negli uomini di Chiesa, delle preferenze, determinate da condizioni storiche; ma nessuna presa di posizione de fide. Un affidarsi “cattolico”, anche qui, al pragmatismo realistico che ben sapeva, assai prima di Machiavelli, che non esiste - nella cosa pubblica -“piano”, per quanto attraente e studiato, che, applicato a un problema, non crei necessariamente altri problemi. Il solo modo davvero cristiano per rispondere al dovere di cercare di rendere il più ordinata e umana, il meno ingiusta possibile, la convivenza sociale è il puntare non sull'esterno, ma sull'interno dell'uomo: tentare di renderli davvero cristiani - uno a uno - e, dunque, aperti all'amore, alla solidarietà, alle virtù anche di buon cittadino.

Con la fuoriuscita, spesso polemica, dalla tradizione cristiana -a partire dal XVIII secolo - prima dell'intellighenzia occidentale e poi via via di settori sociali sempre crescenti, alla prospettiva di fede, con la sua concretezza attenta “all'uomo quale davvero è”, si sostituisce l'astrattezza della ideologia. “L'uomo quale dovrebbe essere”. Nel chiuso dei loro cabinets de travail o nello scintillio mondano dei salotti, si muovono i primi rappresentanti di una nuova, temibile categoria: quella degli “intellettuali”. Coloro, dunque, che, immemori della complessità umana, non usano che di una sola facoltà: “l'intelletto”, la “ragione”, e questa tendono a sostituire alla fede, sino al punto di attribuirle attributi divini e ad adorarla sotto le navate delle cattedrali dalle quali è stata finalmente cacciata la superstizione oscurantista di una “rivelazione” irrazionale e irragionevole. Assurda e dannosa a cominciare dalla radice stessa di quell'oscurantismo: la credenza nel peccato; e in quello “originale” in particolare. Se l'uomo è spesso infelice, se la società è disorganizzata e ingiusta, se liberté-egalité-fraternité non presiedono ai rapporti tra le persone, non è certo per qualche risibile causa teologica: è mancato un “piano steso secondo ragione”; non si è permesso ai “filosofi” di legiferare, non si è affidato il governo agli “esperti”, agli “intellettuali”, ai “migliori”; a coloro, insomma, che in tutto sanno di doversi adeguare alle categorie razionali. E a quelle soltanto, senza sciocchi rispetti per tradizioni, costumi, credenze, “superate” dai lumi.
 
Purtroppo, quel XVIII secolo si chiuse con un avvenimento che la Provvidenza aveva sino ad allora risparmiato all'umanità: a discorsi, libri, sogni, piani - restati sino a quel momento le divagazioni teoriche che dicevamo, sin dall'antichità - fu data la possibilità di farsi storia concreta. In quel fatale 1789, tra Versailles e Parigi, gli “amici dell'umanità”, i tedofori della ragione per la prima volta poterono mettere in pratica i loro begli schemi.

Cominciò così il martirologio della modernità. Da allora sino a oggi, il bilancio di quelle ideologie venute a sostituire “l'irrazionalismo religioso” è drammaticamente monotono: sempre, senza alcuna eccezione, i paradisi in terra promessi dal “piano” pensato a tavolino si sono trasformati in ben concreti inferni nella pratica. Sempre, in nome della “fraternità”, si è giunti al Terrore, non di rado al genocidio. E per un meccanismo tanto semplice quanto implacabile: l'utopia da intellettuale, così impeccabile e attraente sulla carta, applicata -con le buone, ma spesso con le cattive - alla carne viva dell'umanità mostra subito la sua astrattezza, la sua incapacità di far posto alla complessità del reale.
Ma se la teoria non funziona nei fatti, gli “ideologi” non ne deducono l'inadeguatezza, ma ne traggono un minaccioso: “Ebbene, tanto peggio per i fatti! ”.
  
Così l'utopia perde subito i suoi aspetti “umanistici” e mansueti, radicalizzandosi e divenendo oppressiva: “Sii mio fratello o muori!”.
Le prigioni cominciano ad aprirsi per gli “asociali”, cioè per coloro che non ce la fanno, come tutti , ma osano dirlo, ad adeguarsi a un modello così teorico e, dunque, disumano, di società. Ma poiché nessuna repressione basta, e tutto il meccanismo si inceppa sempre più - a cominciare, di solito, dal lato economico, ma anche da quello etico, morale: che è carissimo tra tutti al cuore di ogni utopista - ecco sorgere l'ossessione del complotto: la teoria è perfetta; volente o nolente (a parte le frange “asociali”, già castigate come meritano) la gente cerca di praticarla, anche perché la polizia vigila. Se le cose non funzionano, se anzi peggiorano sempre più, la colpa è delle “quinte colonne”, è dei sabotatori interni, è dei nemici esterni, è delle oscure forze della reazione, è del mondo che muore che non si rassegna al nuovo. Da qui purghe, epurazioni, lager e gulag = il Terrore.

E' la parabola tragica che ha accompagnato la modernità e che è costata così spesso sangue; sempre, delusioni cocenti, sperpero di energie e di intelligenze, rovesciamento delle attese (per limitarci all'ultima, impressionante, ubriacatura da utopie e da “piani per un mondo diverso” - quella del Sessantotto - si è forse dimenticato che i mitici “giovani” di allora sono diventati, vent'anni dopo, la generazione dei quarantenni più sfacciatamente “edonisti”, forse i meno “sociali” del secolo, i “rampanti” degli anni Ottanta e del boom economico dell'era reaganiana?).

  

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... FANTASTIC !!!

Post n°200 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

         INTERVISTE          

CHIARA AMIRANTE 

GESÙ CRISTO È LA VITA CHE VINCE OGNI MORTE 

 
di Tonino Palmese

Chiara Amirante, giovane fondatrice della comunità "Nuovi Orizzonti" e straordinaria testimone all'ultima edizione del Meeting dei Giovani di Pompei, ci racconta la sua esperienza di fede e di servizio a favore dei giovani emarginati nel nome del Cristo Risorto, pace e gioia per tutti.

Chiara Amirante: una ragazza come tante, decide di fare dell'ospitalità uno stile di vita, anzi lo scopo della sua vita. Chiara andava in giro per i posti meno raccomandabili della città e avvicinava i "rifiuti" della società: barboni, prostitute, drogati, si sedeva accanto a loro e li ascoltava perché era ben contenta dell'opportunità che gli davano di entrare nel loro mondo per condividere momenti preziosi della loro vita.! Quante volte, percorrendo le strade della città, le capitava di incrociare sguardi spenti, persi nel vuoto; giovani raggomitolati al bordo di qualche marciapiede, fieri di una chitarra sgangherata e dei loro jeans sdruciti! E quante volte avrebbe voluto fermarsi ad ascoltare il loro canto, il loro silenzio, per poter entrare in punta di piedi nel mondo di ciascuno! La solitudine che poteva scorgere in tanti di quei volti le pareva un ottimo biglietto d'invito e il desiderio di poter condividere con quante più persone possibili la gioia profonda che da tempo sperimentava, diventò la spinta decisiva per avvicinare quei volti. Fu così che iniziò il suo viaggio nel mondo della strada. Nessuna ricetta, nessun giudizio, nessuna pretesa di cambiare le cose… solo la voglia di CONDIVIDERE. Così sul suo cammino, un giorno Chiara incontrò una ragazza: era triste, trasandata, il suo sguardo sembrava quasi implorare aiuto. Chiara le si avvicinò per accertarsi che stesse davvero bene e lei cominciò ad aprirsi, a confidarsi. Era tanto semplice parlare con Chiara dei suoi problemi per i suoi modi così gentili, per la voglia che dimostrava di ASCOLTARE, per il suo sguardo sereno. La ragazza si chiamava Luciana, aveva 15 anni ed era nata da una famiglia molto ricca e conosciuta. Sin da piccola le era stata imposta un'educazione rigida e i genitori pretendevano da lei il massimo: doveva essere la prima della classe, al corso di pianoforte e danza doveva essere la più brava e la più elegante. I suoi genitori si preoccupavano così tanto di "apparire" che non si accorgevano di quanto Luciana avesse bisogno di loro: si guardava allo specchio e vedeva una persona con mille difetti, non riusciva ad accettare il suo carattere introverso e questo la portava ad estraniarsi dal resto del gruppo. Non andava alle feste perché pensava di non piacere ai suoi compagni di classe: come avrebbero potuto accettare lei, così piena di difetti? E così, questo suo "non-accettarsi" l'aveva portata al vero e proprio isolamento. Ora si trovava li, per la strada e non sapeva più che fare: non voleva tornare dai suoi genitori che non la capivano, né aveva amici che la potessero aiutare. Chiara, con le parole giuste, la aiutò ad avere più fiducia in se stessa, ad accettare i suoi difetti… insomma, ad AMARSI perché Dio ci insegna che non possiamo amare gli altri se prima non amiamo noi stessi. Così Chiara, senza ostilità né pregiudizi, continuò ad aiutare la gente che incontrava sul suo cammino. Aveva tanti amici e fra questi molti immigrati. Aveva capito che la DIVERSITA' è un dono e non bisogna averne paura. Aveva capito che ACCOGLIERE L'ALTRO non vuol dire stare solo con il più simpatico, con quello che ci fa divertire di più, ma significa amare in primo luogo quelli che nessuno ama. Oggi Chiara Amirante è conosciuta come la fondatrice della "Comunità Nuovi Orizzonti", che gestisce varie case di accoglienza che si ispirano alla comunità dei primi cristiani: si chiede solo di provare a vivere il Vangelo e di "pensare positivo".


 

 
 
 

Post N° 199

Post n°199 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

 
   
 LA SCANDALOSA CENSURA CONTRO IL PAPA    

    17.01.2008 


 
Un passo del discorso che Benedetto XVI avrebbe fatto all’Università, e che non ha potuto pronunciare, recita:


“Non avevano bisogno, quindi, (i cristiani) di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": 

 
il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa” .

* * *


A processare Galileo fu un intellettuale laico…


Un gruppo di professori dell’Università di Roma, in nome della “tolleranza”, vuole che il Papa non parli nell’ateneo romano (l’intervento era stato richiesto dalle autorità accademiche). Strana idea di tolleranza. Il Pontefice sarebbe una figura che non ha niente a che fare con l’università? A parte il fatto che a fondare l’università romana è stato proprio il papa. Praticamente è casa sua. Si legge infatti nello stesso sito internet dell’ateneo: “L’atto di nascita della Università di Roma reca la data del 20 aprile 1303; in questo giorno venne infatti promulgata da Papa Bonifacio VIII Caetani la Bolla In Supremae praeminentia Dignitatis, con la quale veniva proclamata la fondazione in Roma dello ‘Studium Urbis’ ”. Cosa ovvia essendo la Chiesa all’origine di gran parte delle nostre istituzioni culturali.

A parte poi il fatto che Joseph Ratzinger è appunto un docente universitario, anzi un luminare, uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo ed è casomai lui che fa onore all’Università di Roma, intervenendo, non l’Università che fa un favore al Papa. A parte il fatto, infine, che i laici ogni tre secondi citano Voltaire (“non condivido ciò che dici, ma mi batterò fino alla fine perché tu possa dirlo”) e poi lo contraddicono nella pratica.

Ma l’aspetto più paradossale è un altro. Perché quello che viene imputato al Papa è di aver citato – in un discorso tenuto quando era cardinale – un intellettuale laico-agnostico, un antidogmatico, un libertario, uno che insegnava a Berkeley dove cominciò la contestazione e che – da anarchico - applaudì alla rivolta, insomma uno dei loro, il celebre epistemologo Paul Feyerabend. Ecco la sua frase citata dall’allora cardinale Ratzinger: “All’epoca di Galileo, la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina di Galilei. Il suo processo contro Galilei era razionale e giusto, mentre la sua attuale revisione si può giustificare solo con motivi di opportunità politica”.

In effetti la vicenda Galilei fu molto più complessa di quanto racconti la storia a fumetti che vede un S. Uffizio tenebroso che opprime l’illuminato scienziato. E il cardinale Bellarmino, peraltro grande uomo di cultura, aveva le sue ragioni. Questo intendeva dire il filosofo Feyerabend. La sua provocazione sul processo non era condivisa da Ratzinger che, oltretutto, fu colui che volle la revisione del “caso Galileo” con Giovanni Paolo II. Quindi è l’ultimo a poter essere oggi accusato per questo.

Ma – da studioso – ricostruendo il complesso dibattito moderno su quel caso, per far capire la complessità dei problemi e la pluralità delle posizioni in materia, Ratzinger citò anche la celebre pagina di Feyerabend. Quindi Ratzinger viene oggi “scomunicato” in base non al proprio pensiero, ma al pensiero di un altro. Che oltretutto è uno “scettico”, uno della loro stessa area culturale laica (ma lui è coerente e rifiuta tutti i dogmi, anche i loro). “Sono parole” scrivono i professori romani “che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano”.

Ma – chiediamo, cari illustri professori – vi rendete conto che queste “parole” da voi citate e “scomunicate” appartengono non al papa, ma ad un vostro illustre collega epistemologo che ha insegnato per anni nei maggiori atenei? E come potete attribuire all’uno le parole dell’altro? No, i professori non sentono ragioni. E sentenziano: “In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato”. Quindi, “in nome del rispetto di ogni credo” chiedono che non sia fatto parlare Benedetto XVI. Tutti, ma non lui.

Se non fossero fatti preoccupanti, ci sarebbe da ridere. Perché in quel discorso tenuto a Parma il 15 marzo 1990, evocato e “scomunicato” dai professori, il cardinale Ratzinger insieme a Feyerabend citava – su una linea analoga – anche un altro filosofo, il “marxista romantico” Ernst Bloch su cui sarebbe interessante sentire il parere dei professori della Sapienza.

Secondo Bloch sia il geocentrismo che l’eliocentrismo si fondano su presupposti indimostrabili perché la relatività di Einstein ha spazzato via l’idea di uno spazio vuoto e tranquillo: “pertanto” ha scritto Bloch “con l’abolizione di uno spazio vuoto e tranquillo, non accade nessun movimento verso di esso, ma solo un movimento relativo dei corpi l’uno in relazione agli altri e la loro stabilità dipende dalla scelta dei corpi presi come punti fissi di riferimento: dunque, al di là della complessità dei calcoli che ne deriverebbero, non appare affatto improponibile accettare, come si faceva nel passato, che la terra sia stabile e che sia il sole a muoversi”.

Il filosofo marxista non tornava certo all’universo tolemaico, né alle conoscenze scientifiche del tempo di Bellarmino e di Copernico, per i quali si potevano fare solo delle ipotesi. Bloch parlava in nome delle più avanzate scoperte scientifiche del XX secolo, esprimeva così – spiegava Ratzinger – “una concezione moderna delle scienze naturali”. Infatti un’altra mente eccelsa del Novecento, grande nome del pensiero ebraico, una combattente contro il totalitarismo, Hannah Arendt, nel libro “Vita activa”, scrive la stessa cosa: “Se gli scienziati precisano oggi che possiamo sostenere con egual validità sia che la terra gira attorno al sole, sia che il sole gira attorno alla terra, che entrambe le affermazioni corrispondono a fenomeni osservati, e che la differenza sta solo nella scelta del punto di riferimento, ciò non significa tornare alla posizione del cardinale Bellarmino e di Copernico, quando gli astronomi si muovevano tra semplici ipotesi. Significa piuttosto che abbiamo spostato il punto di Archimede in un punto più lontano dell’universo dove né la terra né il sole sono centri di un sistema universale. Significa che non ci sentiamo più legati nemmeno al sole, scegliendo il nostro punto di riferimento ovunque convenga per uno scopo specifico”.

Secondo la Arendt “per le effettive conquiste della scienza moderna il passaggio dal sistema eliocentrico a un sistema senza un centro fisso è tanto importante quanto fu, in passato, quello da una visione geocentrica del mondo a una eliocentrica”. Ratzinger – uno dei grandi intellettuali del mondo moderno – lo ha capito molto bene e segnala, come la Arendt, la necessità di riflettere sulle conseguenze sociali di questo nuovo scenario e sull’uso che, in questa situazione, si fa della scienza. Invece il mondo accademico italiano, più provinciale e ideologizzato, sembra ancora fermo al Seicento.

Io penso che il professor Ratzinger si riconoscerebbe di sicuro in quest’altro pensiero della Arendt: “i primi 50 anni del nostro secolo hanno assistito a scoperte più importanti di tutte quelle della storia conosciuta. Tuttavia lo stesso fenomeno è criticato con egual diritto per l’aggravarsi non meno evidente della disperazione umana o per il nichilismo tipicamente moderno che si è diffuso in strati sempre più vasti della popolazione; l’aspetto forse più significativo di queste condizioni spirituali è di non risparmiare nemmeno più gli scienziati”.

Ma vi pare che l’università italiana possa volare a queste altezze? Dove domina l’intolleranza non c’è spazio per l’avventura della conoscenza e per l’inquietudine delle domande. C’è spazio solo per le piccole lotte di potere attorno al rettorato di cui ha parlato Asor Rosa al Corriere. Buonanotte Illuminismo.


Antonio Socci


Da “Libero” 16 gennaio 2008

   

 
 
 

Post N° 198

Post n°198 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

 
   
 LA SCANDALOSA CENSURA CONTRO IL PAPA    

    17.01.2008 


 
Un passo del discorso che Benedetto XVI avrebbe fatto all’Università, e che non ha potuto pronunciare, recita:


“Non avevano bisogno, quindi, (i cristiani) di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università. È necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra "scientia" e "tristitia": 

 
il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa” .

* * *


A processare Galileo fu un intellettuale laico…


Un gruppo di professori dell’Università di Roma, in nome della “tolleranza”, vuole che il Papa non parli nell’ateneo romano (l’intervento era stato richiesto dalle autorità accademiche). Strana idea di tolleranza. Il Pontefice sarebbe una figura che non ha niente a che fare con l’università? A parte il fatto che a fondare l’università romana è stato proprio il papa. Praticamente è casa sua. Si legge infatti nello stesso sito internet dell’ateneo: “L’atto di nascita della Università di Roma reca la data del 20 aprile 1303; in questo giorno venne infatti promulgata da Papa Bonifacio VIII Caetani la Bolla In Supremae praeminentia Dignitatis, con la quale veniva proclamata la fondazione in Roma dello ‘Studium Urbis’ ”. Cosa ovvia essendo la Chiesa all’origine di gran parte delle nostre istituzioni culturali.

A parte poi il fatto che Joseph Ratzinger è appunto un docente universitario, anzi un luminare, uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo ed è casomai lui che fa onore all’Università di Roma, intervenendo, non l’Università che fa un favore al Papa. A parte il fatto, infine, che i laici ogni tre secondi citano Voltaire (“non condivido ciò che dici, ma mi batterò fino alla fine perché tu possa dirlo”) e poi lo contraddicono nella pratica.

Ma l’aspetto più paradossale è un altro. Perché quello che viene imputato al Papa è di aver citato – in un discorso tenuto quando era cardinale – un intellettuale laico-agnostico, un antidogmatico, un libertario, uno che insegnava a Berkeley dove cominciò la contestazione e che – da anarchico - applaudì alla rivolta, insomma uno dei loro, il celebre epistemologo Paul Feyerabend. Ecco la sua frase citata dall’allora cardinale Ratzinger: “All’epoca di Galileo, la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina di Galilei. Il suo processo contro Galilei era razionale e giusto, mentre la sua attuale revisione si può giustificare solo con motivi di opportunità politica”.

In effetti la vicenda Galilei fu molto più complessa di quanto racconti la storia a fumetti che vede un S. Uffizio tenebroso che opprime l’illuminato scienziato. E il cardinale Bellarmino, peraltro grande uomo di cultura, aveva le sue ragioni. Questo intendeva dire il filosofo Feyerabend. La sua provocazione sul processo non era condivisa da Ratzinger che, oltretutto, fu colui che volle la revisione del “caso Galileo” con Giovanni Paolo II. Quindi è l’ultimo a poter essere oggi accusato per questo.

Ma – da studioso – ricostruendo il complesso dibattito moderno su quel caso, per far capire la complessità dei problemi e la pluralità delle posizioni in materia, Ratzinger citò anche la celebre pagina di Feyerabend. Quindi Ratzinger viene oggi “scomunicato” in base non al proprio pensiero, ma al pensiero di un altro. Che oltretutto è uno “scettico”, uno della loro stessa area culturale laica (ma lui è coerente e rifiuta tutti i dogmi, anche i loro). “Sono parole” scrivono i professori romani “che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano”.

Ma – chiediamo, cari illustri professori – vi rendete conto che queste “parole” da voi citate e “scomunicate” appartengono non al papa, ma ad un vostro illustre collega epistemologo che ha insegnato per anni nei maggiori atenei? E come potete attribuire all’uno le parole dell’altro? No, i professori non sentono ragioni. E sentenziano: “In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato”. Quindi, “in nome del rispetto di ogni credo” chiedono che non sia fatto parlare Benedetto XVI. Tutti, ma non lui.

Se non fossero fatti preoccupanti, ci sarebbe da ridere. Perché in quel discorso tenuto a Parma il 15 marzo 1990, evocato e “scomunicato” dai professori, il cardinale Ratzinger insieme a Feyerabend citava – su una linea analoga – anche un altro filosofo, il “marxista romantico” Ernst Bloch su cui sarebbe interessante sentire il parere dei professori della Sapienza.

Secondo Bloch sia il geocentrismo che l’eliocentrismo si fondano su presupposti indimostrabili perché la relatività di Einstein ha spazzato via l’idea di uno spazio vuoto e tranquillo: “pertanto” ha scritto Bloch “con l’abolizione di uno spazio vuoto e tranquillo, non accade nessun movimento verso di esso, ma solo un movimento relativo dei corpi l’uno in relazione agli altri e la loro stabilità dipende dalla scelta dei corpi presi come punti fissi di riferimento: dunque, al di là della complessità dei calcoli che ne deriverebbero, non appare affatto improponibile accettare, come si faceva nel passato, che la terra sia stabile e che sia il sole a muoversi”.

Il filosofo marxista non tornava certo all’universo tolemaico, né alle conoscenze scientifiche del tempo di Bellarmino e di Copernico, per i quali si potevano fare solo delle ipotesi. Bloch parlava in nome delle più avanzate scoperte scientifiche del XX secolo, esprimeva così – spiegava Ratzinger – “una concezione moderna delle scienze naturali”. Infatti un’altra mente eccelsa del Novecento, grande nome del pensiero ebraico, una combattente contro il totalitarismo, Hannah Arendt, nel libro “Vita activa”, scrive la stessa cosa: “Se gli scienziati precisano oggi che possiamo sostenere con egual validità sia che la terra gira attorno al sole, sia che il sole gira attorno alla terra, che entrambe le affermazioni corrispondono a fenomeni osservati, e che la differenza sta solo nella scelta del punto di riferimento, ciò non significa tornare alla posizione del cardinale Bellarmino e di Copernico, quando gli astronomi si muovevano tra semplici ipotesi. Significa piuttosto che abbiamo spostato il punto di Archimede in un punto più lontano dell’universo dove né la terra né il sole sono centri di un sistema universale. Significa che non ci sentiamo più legati nemmeno al sole, scegliendo il nostro punto di riferimento ovunque convenga per uno scopo specifico”.

Secondo la Arendt “per le effettive conquiste della scienza moderna il passaggio dal sistema eliocentrico a un sistema senza un centro fisso è tanto importante quanto fu, in passato, quello da una visione geocentrica del mondo a una eliocentrica”. Ratzinger – uno dei grandi intellettuali del mondo moderno – lo ha capito molto bene e segnala, come la Arendt, la necessità di riflettere sulle conseguenze sociali di questo nuovo scenario e sull’uso che, in questa situazione, si fa della scienza. Invece il mondo accademico italiano, più provinciale e ideologizzato, sembra ancora fermo al Seicento.

Io penso che il professor Ratzinger si riconoscerebbe di sicuro in quest’altro pensiero della Arendt: “i primi 50 anni del nostro secolo hanno assistito a scoperte più importanti di tutte quelle della storia conosciuta. Tuttavia lo stesso fenomeno è criticato con egual diritto per l’aggravarsi non meno evidente della disperazione umana o per il nichilismo tipicamente moderno che si è diffuso in strati sempre più vasti della popolazione; l’aspetto forse più significativo di queste condizioni spirituali è di non risparmiare nemmeno più gli scienziati”.

Ma vi pare che l’università italiana possa volare a queste altezze? Dove domina l’intolleranza non c’è spazio per l’avventura della conoscenza e per l’inquietudine delle domande. C’è spazio solo per le piccole lotte di potere attorno al rettorato di cui ha parlato Asor Rosa al Corriere. Buonanotte Illuminismo.


Antonio Socci


Da “Libero” 16 gennaio 2008

   

 
 
 

Post N° 197

Post n°197 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

    LE AGGRESSIONI A FERRARA


L'invenzione dei mostri


di Ernesto Galli Della Loggia

Certo: si può chiudere il discorso tirando in ballo le solite «frange folli », dicendo che dopotutto si tratta di non più di qualche centinaio di scalmanati, ignari della fondamentale distinzione tra la forza degli argomenti e l’uso della forza come argomento: cose che ci sono e ci saranno sempre e dovunque. Si può fare così, certo: ma sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia al pari degli struzzi. Le ripetute, violente manifestazioni inscenate ai comizi di Giuliano Ferrara, i tentativi di impedirgli di parlare, testimoniano infatti di qualcosa di diverso e di più grave.

Nel vilipendio della stessa immagine fisica dell’avversario (l’evocazione insistita della sua corpulenza come sinonimo di un’anormalità più sostanziale, antropologica, che va punita), nel pregiudizio livoroso verso ciò di cui egli viene eletto a simbolo («tornatene in televisione») così come verso i supposti veri moventi delle sue opinioni («servo dei servi di Berlusconi »), in tutto questo si avverte l’eco di qualcosa che conosciamo anche troppo bene, e che non è certo patrimonio esclusivo di qualche gruppetto di esagitati.


Ci sentiamo l’eco del disprezzo e della manipolazione che in Italia viene regolarmente riservato a chi non la pensa come noi. E non già dalle «frange folli », ma spessissimo dai più illustri commentatori, dai rappresentanti più accreditati della cultura. Ha un bel dire oggi con tono virtuoso Miriam Mafai (e con lei tanti altri) che se fosse stata a Bologna sarebbe stata con Giuliano Ferrara «contro coloro che con la violenza gli hanno impedito di parlare». Vorrei vedere il contrario!  

 Ma il punto non sta qui. Non è quando si arriva alle sediate in testa e all’assalto al palco, infatti, che bisogna far sentire la propria voce. È — o meglio era, ormai — quando da mille parti si è dipinto di continuo Ferrara come una sorta di orco antiaborista, uno che voleva ricacciare le donne nella clandestinità delle mammane.


Quando, piuttosto che riconoscere che le cose che il direttore del Foglio diceva, e per come le diceva, ponevano alla politica questioni tremendamente, forse insopportabilmente, serie, si è preferito invece consegnarlo in pasto alla demonizzazione estremistico- femminista nascondendosi dietro la solfa fintamente virtuosa del «ma nessuno è favorevole all’aborto in quanto tale»; lasciando quindi che lo si considerasse come un subdolo mistificatore o, nel caso migliore, uno squilibrato.    

 Si è preferito cioè, seguire il copione abituale che in Italia caratterizza la discussione pubblica — si parli di aborto o della Costituzione, di immigrazione o di storia del fascismo —: cambiare le carte in tavola, fingere di non capire, far dire all’altro ciò che quello non ha mai detto ma che secondo noi voleva dire.


Tutto pur di non prendersi l’incomodo di discuterne realmente le idee, ritenute pericolose per le certezze nostre e della nostra parte. Con il risultato inevitabile, e voluto, di far passare chi ha il solo torto di non pensarla come noi, di far passare lui, paradossalmente, come il colpevole di strumentalizzare le idee in funzione di chissà quale disegno politico. E gettando così le premesse per la costruzione della figura del nemico pubblico numero uno: attività alla quale, in Italia, per strano che possa sembrare, non sono dediti tanto gazzettieri di terz’ordine o politici senza scrupoli, ma per lo più la crema intellettuale del Paese, uomini e donne assolutamente dabbene.

   

 
 
 

Post N° 196

Post n°196 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

  

 La coalizione guidata da Silvio Berlusconi vince le elezioni con un ampio margine.   Il Popolo della Libertà (assieme a Lega Nord e Movimento per l'autonomia), ha una larghissima maggioranza alla Camera (il premio ovviamente la amplifica)  e molto solida anche al Senato, con 167 senatori contro 137. L'alleanza di centrodestra ottiene infatti il 47,2% dei voti per Palazzo Madama contro il 38,1% del Partito democratico con l'Italia dei valori. Su base regionale, 15 Regioni su 18 vanno al Pdl, che rispetto al 2006 ne strappa 4 al centrosinistra. Smentiti clamorosamente i primi exit poll diffusi subito dopo la chiusura delle urne che indicavano una differenza di soli due o tre punti percentuali tra Pdl-Lega-Mpa e Pd-Idv. Alla Camera il vantaggio è altrettanto inequivocabile: l'alleanza guidata dal Popolo della libertà ottiene (quando sono state scrutinate 56.511 sezioni su 61.062) il 46,6% dei voti, quella del Partito democratico il 37,7%. Un distacco che fin dalle prime proiezioni è sembrato incolmabile, tanto che in serata è stato lo stesso Veltroni a riconoscere la vittoria dell'avversario: «Ho telefonato a Berlusconi - annuncia il leader del Pd - per augurargli buon lavoro».

BERLUSCONI «COMMOSSO» - Grande soddisfazione da parte di Pdl e Lega. Berlusconi si dice «commosso» e annuncia di avere già in mente la squadra di governo, di cui faranno parte «almeno quattro donne». Annuncia inoltre di essere aperto al dialogo con chiunque voglia lavorare con il Popolo della libertà alla guida del Paese. Anche Umberto Bossi esulta: «Siamo forti, il nostro boom era atteso». Il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, promette dal canto suo «un'opposizione costruttiva». Da segnalare la buona performance della Lega e il flop della Sinistra-Arcobaleno, che appare destinata a sparire dal Parlamento (tanto che il candidato premier, Fausto Bertinotti, si è dimesso da tutti gli incarichi dirigenziali).

MENO PARTITI - In un solo colpo le scelte dei partiti maggiori di andare da soli (in realtà con mini coalizioni), in combinazione con i meccanismi della legge elettorale, hanno cancellato dal panorama politico parlamentare diversi gruppi partiti. Imprevista e di ampie dimensioni il crollo della Sinistra Arcobaleno, che non arriva al 4%. Se si pensa che da sola Rifondazione due anni fa aveva superato il 7%, si capisce quanto lo scenario sia cambiato. E d'altra parte nessuna piccola formazione ha raggiunto la soglia d'accesso al Senato, ma nemmeno alla Camera. Drastico il ridimensionamento dei gruppi parlamentari: cinque alla Camera e quattro al Senato.

SENATO - Entrando più nel dettaglio, alle elezioni per il Senato la coalizione di centrodestra si attesta circa nove punti sopra l'alleanza guidata da Veltroni. Quando sono state scrutinate per il Senato oltre 58mila sezioni su 60.048, il Pdl-Lega-Mpa ottiene il 47,2 % contro il 38,19% di Pdv-Idv. Il Popolo della libertà è al 37,9%, la Lega all'8,1%, l'Mpa all'1%; il Pd al 33,8%, l'Idv al 4,3%. Gli altri: Udc al 5,6%, Sinistra-Arcobaleno al 3,2%, la Destra al 2%, il Partito socialista allo 0,8% (dopo questo risultato il segretario, Enrico Boselli, si è dimesso). A Palazzo Madama la coalizione del centrodestra, secondo le elaborazioni dei primi scrutini, avrebbe 167 seggi contro i 137 di Pd e Italia dei valori. Sono esclusi i 6 seggi della Circoscrizione Estero. Il calcolo, per il Senato, avviene su base regionale e da questo punto di vista il Pdl (assieme a Lega e Mpa) conquista (stando alle proiezioni) 12 Regioni, strappandone 5 a Pd+Idv (Sardegna, Campania, Liguria, Abruzzo e Calabria) e lasciandone dunque agli avversari soltanto 6. In particolare a Berlusconi andrebbero: l'Abruzzo, la Campania, il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Lombardia, il Piemonte, la Puglia, la Sicilia, la Calabria e la Liguria. Al centrosinistra di Veltroni vanno la Basilicata, l'Emilia-Romagna, le Marche, il Molise, la Toscana e l'Umbria.

CAMERA - Netta vittoria per il Cavaliere anche alla Camera. A spoglio non ancora ultimato, l'alleanza guidata dal Popolo della libertà si attesta infatti sul 46,6% dei voti, quella del Partito democratico al 37,7%. Nel dettaglio il Pdl è al 36,9%, la Lega all'8,6% e l'Mpa all'1%. Di contro il Pd è al 33,3% e l'Idv al 4,3%. Tra i partiti minori l'Udc è al 5,5%, la Sinistra-Arcobaleno crolla al 3%, la Destra racimola il 2,4% e i socialisti lo 0,9%. L'alleanza guidata dal Cavaliere otterrebbe 340 seggi, quella guidata da Veltroni 241.


SICILIA - Diffuse anche le proiezioni sulla Sicilia dove si vota per le Regionali. Anna Finocchiaro, candidato del centrosinistra, è poco oltre il 30%; Raffaele Lombardo, candidato del centrodestra, supera il 60%. Per quest'ultimo, dunque, si profila un successo schiacciante.

G. Ant.
14 aprile 2008

 
 
 

Post N° 195

Post n°195 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

 

 

 BENEDETTO XVI VERSO GLI USA

 L’AZZARDO PAPALE DAVANTI A GROUND ZERO

 DAVIDE RONDONI


Nel gesto di inginocchiarsi compirà an­che il grande azzardo. Nell’atto di u­miltà alzerà anche il più grande azzardo. Nel gesto di aderire per come si può uma­namente, cristianamente al dolore di quel­l’immenso fosso al centro di New York, e at­traverso quel fosso, a tutte le altre cavità di guerra e pena aperte nel mondo, compirà anche il gesto inaudito: chiederà la con­versione dei terroristi. Nel punto che è em­blema dell’oscuramento dell’odio, invo­cherà Dio perché le persone che l’hanno compiuto o che ne vogliono compiere di analoghi si convertano. Al mostruoso az­zardo dell’odio risponderà con l’azzardo della preghiera.


  Ecco cosa farà Benedetto. Ecco cosa fa il papa che fa il papa e non l’uomo pubbli­co, che non fa 'solo' l’uomo di pace. Al ge­sto più spavaldo e furioso compiuto dal­l’odio risponde con l’umiltà più sfrontata, se così si potesse dire. All’eccesso di odio, risponde con l’eccesso di preghiera. Con u­na domanda che ci suona eccessiva. Che sembra fuori luogo. Impossibile, così come ci sembrarono impossibili le immagini del­le torri colpite, in fiamme e poi del crollo. Alla morte inflitta dai terroristi, risponde chiedendo non la lo­ro morte, non la loro punizione, ma la conversione dei loro cuori. All’azzardo dei loro gesti assurdi, al­la ferocia di chi compì quel feroce mestiere di morte, oppone l’azzardo di chiedere a Dio di fa­re fino in fondo il suo mestiere di Dio.

Co­me se non bastasse chiedere più pace. Come se non bastas­se, in quel buco che si è aperto nel centro della città che mai dorme e che pensava d’esser potente, chiedere un po’ di sicu­rezza. O un po’ di giustizia.
Come se in quell’abisso provocato dall’odio, occor­resse domandare qualcosa d’altrettanto a­bissale: la conversione del terrorista.

  Non so come gli sia venuto in mente. Ma non è la prima volta che la Chiesa aggiun­ge alle normali richieste di maggiore giu­stizia, di più equo rapporto tra i popoli, an­che una sua speciale domanda. Questa preghiera per la conversione è stata alza­ta di fronte a tremendi fatti di mafia. In oc­casione di delitti ciechi, efferati in tanti luo­ghi della nostra Italia ferita. Non è la pri­ma volta che la Chiesa aggiunge qualcosa a quel che possono dire tutti. A quel che giustamente si soffermano a chiedere i po­­litici, le istituzioni, gli uomini pubblici. Un po’ più di pace, un po’ più di giustizia. Lei aggiunge una domanda in più.

  La Chiesa ragazza di Dio fa una domanda fuori luogo. Impertinente. Un azzardo. Chiede la conversione dei peggiori. Dei col­pevoli. Non solo la loro condanna, la loro messa in situazione di non colpire. Ma la loro conversione. L’addolcimento, l’aper­tura del cuore a Dio.

  Lo chiede per loro, quasi guardando Dio negli occhi, con amore e dignità infiniti. Lo chiede per loro, perché lo chiede per tutti.
Anche per noi che osserviamo quei fossi del sangue, quei buchi della storia e magari pensiamo di essere i giusti, i già a posto. La chiede per i peggiori, così che anche coloro che si sentono migliori ab­biano l’inquietudine di non essere a po­sto, e di avere un cuore che solo Dio può colmare.

  Inginocchiato in uno dei luoghi più bui di questi decenni, Papa Benedetto chiederà quello che chiedono tutti. Che non si ri­peta, che gli uomini e i governi facciano di tutto perché da orrore non nasca altro or­rore. Lo chiederà sapendo di essere suc­cessore del Papa che si oppose alla logica di rispondere con le armi alle armi.

  Ma non farà solo richieste politiche, non farà solo le preghiere 'normali'. Farà que­sta domanda incredibile, altrettanto forte e memorabile del gesto che creò quell’or­rendo fosso.
Farà la domanda che certifi­ca più di ogni altra cosa, più di ogni mo­numento, più di ogni cerimonia, che la speranza è più forte e la vita chiede la vita.
  

 

 

 

 
 
 

Post N° 194

Post n°194 pubblicato il 15 Aprile 2008 da Antologia1

LA GIORNATA DELLE VOCAZIONI CHE MANCANO
 «Cristo chiama sempre» La certezza che ci sferza
 

 MARINA CORRADI 


 I
l Concilio Vaticano II affermò che «Cristo chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, perché siano con lui e per inviarli a predicare alle genti». Lo ha ricordato Benedetto XVI nel messaggio per questa Giornata mondiale per le vocazioni. Un duplice accento di richiamo: in un tempo che di vocazioni sacerdotali è povero, quel «Cristo chiama sempre». E: «per inviarli a predicare alle genti», che dice come per la Chiesa la missione, l’annuncio, sia struttura costitutiva e originaria – in un tempo che la pretenderebbe silenziosamente dedita a una fede privata.
  Cristo chiama sempre. Ma allora, perché le vocazioni, fatta eccezione per alcuni ordini femminili e claustrali, sono così poche? Già un principio di risposta potrebbe stare in questa parola, 'vocazione'. Parola antica, ma di cui il significato sembra cambiato. Se oggi si dice di un ragazzo che ha una vocazione per il giornalismo, si intende che è portato, ha una capacità o anche solo un’attrazione verso questo lavoro.
  'Vocazione', comunemente parlando, è inclinazione verso qualcosa. Nel linguaggio cristiano invece è ben altro: è essere chiamati – che significa che qualcuno ti chiama. Dunque, che un Dio che ti conosce, e addirittura ha un disegno su di te. Ipotesi sbalorditiva, in un tempo che predica che 'Dio, se c’è, non c’entra' con gli uomini. Ipotesi scandalosa e vessatoria, nell’epoca del culto dell’Io, di ogni sua voglia, del mito della autorealizzazione. Oggi è difficile parlare di vocazione in senso cristiano. Questa parola presuppone il riconoscimento di un Altro e di una sua volontà su di noi: seguendo la quale si realizza la pienezza del proprio destino. Questo è quanto ti dice la giovane novizia trappista a Vitorchiano, con una pace in faccia che ti sbalordisce. O quei giovani preti, ostinati navigatori controvento, che abbandonando studio o lavoro arrivano all’ordinazione. Uomini, e donne, che hanno individuato una chiamata interiore spesso occultata in un mazzo di apparentemente più allettanti ipotesi. Come, dentro al rumore, riconoscendo, fra le tante, una voce diversa. E seguendola, certi che quella è la strada.
  «Dio chiama sempre», assicura la Chiesa, ma nel rumore gli uomini faticano a sentire. Occorre, per riconoscere quella chiamata, stare attenti. Occorre che qualcuno ti abbia educato a ascoltare. Ma gli uomini certi di bastare a se stessi, non ascoltano niente. Un’altra cosa che ti dicono i giovani preti è: potevo avere un lavoro, dei soldi, una donna, ma, «io volevo tutto». La radicalità della domanda, così come della donazione di sé, è assoluta, e urta fragorosamente contro la forma mentale del mondo di oggi. Negli anni del precariato affettivo e lavorativo, del finché dura, dei progetti a breve termine, andare prete o suora è un volere e promettere tutto, e per sempre. Trovando, in questa adesione, il compimento della propria attesa. Che scandalo: la felicità, in un’obbedienza.
  Anacronistico, quasi provocatorio. Accade che le famiglie di questi ragazzi ne osteggino la scelta, come se i figli fossero stati rapiti. Per seguire chi?
  Per obbedire a che cosa? domandano smarrite.
  Eppure quel Dio dato per morto, o sideralmente indifferente nel suo cielo, chiama ancora «quelli che egli vuole». Discretamente, a bassa voce.
  Occorre tendere l’orecchio. E, se un figlio o una figlia mostra l’audacia di chi vuole 'tutto', non voler ridurre quella radicale domanda ad una saggia, triste, 'ragionevole' misura.
  È un dono, e sta alla libertà riconoscerlo. Come quel ragazzo lombardo ora missionario a Taiwan, che appena arrivato si sentì dare, come usa laggiù, un altro nome in cinese, riecheggiante il suono di quello italiano. «Ma che vuol dire questo nome?» domandò. Vuol dire «grato per il dono ricevuto», gli risposero. Prete, dall’altra parte del mondo, per riconoscere finalmente il suo destino.
 




 
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Post N° 193

Post n°193 pubblicato il 10 Aprile 2008 da Antologia1

Chiara, raccontaci come hai incontrato il Signore. C'è sempre un momento della vita di ognuno in cui nasce il desiderio di conoscerlo e di incontrarlo. Pensavo che Dio fosse irraggiungibile. Poi l'incontro con dei giovani sul cui volto vedevo una gioia esplosiva. Ho chiesto quale fosse il loro segreto. Mi hanno risposto semplicemente: "Il segreto di questa gioia che tu vedi sui nostri volti è l'incontro con Cristo Risorto". Domando: "Come, con Cristo Risorto?". Mi hanno spiegato: "Sì, perchè Cristo si fa presente in mezzo a noi. La Scrittura ci ricorda che dove due o più sono uniti nel Suo nome, Lui ancora oggi si fa presente e noi l'abbiamo incontrato, ed è Lui che ci ha cambiato la vita. Tu prova a vivere il Vangelo, prova ad amare e capirai". Allora ho raccolto questa sfida e mi sono detta: "Anch'io voglio incontrare Gesù, accipicchia!" E due frasi del Vangelo mi hanno colpito particolarmente: "A chi mi ama mi manifesterò" e "Come fai ad amare Dio che non vedi se non ami il fratello che vedi?". Ho capito che questa era la strada da intraprendere. E devo dire che questo incontro c'è stato, ed è stato sconvolgente, travolgente, come può essere il passaggio di Cristo nella nostra vita. Ho veramente scoperto che Lui è la Via: in Lui trovavo tutto quello che il mio cuore cercava, in Lui trovavo la pace, in Lui trovavo la gioia, in Lui trovavo un senso alla mia esistenza, in Lui trovavo quei colori capaci di riempire, di colorare di cielo la mia piccola vita.

La tua vita quando è cambiata veramente? L'esperienza che mi ha segnato fortemente è stato il passaggio nel "mondo della strada". Non avevo in mente di aprire Comunità di Accoglienza. Avevo altri progetti. Mi ero laureata in Scienze Politiche e pensavo di fare giornalismo. A 21 anni, poi, una malattia improvvisa agli occhi, fino a perdere otto decimi di vista e il responso dei medici che mi diagnosticavano, di lì a poco, la cecità totale. Che situazione paradossale: trovarsi a 21 anni nel pieno della giovinezza e con una voglia esplosiva di fare mille cose, ma con la prospettiva della cecità! Quello che mi ha impressionato di più in questa esperienza di sofferenze e dolori è stato la presenza di Cristo Risorto, che rendeva possibile quello che io chiamo il miracolo nella mia vita.

Scusami, come si fa a parlare di miracolo in una condizione di totale sofferenza e perciò di disagio? Stavo per diventare cieca eppure sperimentavo profondamente nel mio cuore la gioia e la pace che Gesù aveva promesso: "Vi lascio la pace, vi dono la pace, non come il mondo Io la dono a voi". La scoperta che Cristo mi aveva amato fino al punto da prendere su di sé tutta la mia sofferenza, per trasformarla, mi ha portato a dire: "Ma se tu, Dio mi hai amato fino a questo punto da dare la tua vita per me, perché io possa essere risorta, possa anch'io essere nella gioia della risurrezione nonostante una malattia così grave. Voglio dare la mia vita per Te, affinché tutti i disperati della terra possano sapere che Tu sei la gioia, che Tu sei la pace".

E questa gioia interiore, cosa ti ha spinto a fare? È da questa consapevolezza di comunione con il Risorto che è nato il desiderio di andare per le strade ad incontrare tanti giovani che avevo visto abbandonati e "buttati" alla Stazione Termini di Roma. Li avevo visti con la disperazione sul volto, con la siringa nel braccio, con le lacrime fermate dall'eroina. Avevo un po' di perplessità ma il desiderio si faceva sempre più prepotente. Mi sono detta: "Voglio vivere perché tutti i disperati del mondo possano scoprire che Cristo è la gioia che vince ogni sofferenza, che Cristo è la vita che vince ogni morte, che Cristo è la pace che vince ogni angoscia". Ed allora ho fatto una semplice preghiera a Gesù, dicendo: "Guarda Gesù, non so se sei tu che mi metti in cuore questo desiderio un po' matto di andare a cercare di notte questi nostri fratelli, però se per caso sei Tu, sappi che io ti dono il mio sì. Tu mettimi nelle condizioni di poterlo realizzare". La risposta c'è stata. Il giorno dopo vado in ospedale per fare un'iniezione agli occhi, come indicava la terapia. Ad un tratto, si crea un fitto brusìo tra i medici. Mi chiedo cosa sarà successo? I medici sempre più agitati, dopo una lunga consultazione con il loro primario, mi dicono: "Guarda, non sappiamo spiegare che cosa è successo, ma la tua malattia è scomparsa. Per chi crede è un miracolo. Noi non abbiamo spiegazioni per quanto è successo".  E così ho riacquistato una vista perfetta, anzi superiore alla norma. La spiegazione non poteva non essere che nella conferma di ciò che avevo chiesto nella preghiera del giorno prima a Gesù: "Tu puoi tutto, mettimi nelle condizioni di..., se credi". E quindi è iniziata questa che io chiamo "l'avventura nel mondo della strada".

C'è un fatto che ha segnato particolarmente questa tua esperienza? Un giorno, era di Venerdì Santo, avevo deciso di consacrare la mia vita a Dio. Volevo essere una risposta di amore al suo amore pazzesco donatoci sulla Croce. Sono andata alla Stazione a festeggiare con i miei amici dove ho incontrato una di queste ragazze che avevo indirizzato ad una comunità. È venuta da me tutta infangata per la pioggia. Piangeva e mi ha abbracciato con uno sguardo disperato, dicendomi: "Ti cerco da tutta la settimana, Chiara, non ne posso più". Le chiedo: "Ma non sei entrata in comunità", mi risponde: "No, non ce l'ho fatta, la fila era troppo lunga, non mi hanno preso". Mi ha riabbracciato e mi ha detto: "Ti prego io questa sera non ce la faccio a prostituirmi, portami via, portami via da questo inferno".
In quell'abbraccio ho sentito l'abbraccio del mio Cristo, quel Cristo crocifisso cui avevo consacrato la mia vita, che mi chiedeva: "Ho sete, ho sete del tuo amore. Portami via da questo inferno". Allora ho detto non basta venire qui la notte alla Stazione, non basta stare qui in mezzo a questi nostri fratelli, bisogna trovare un posto dove vivere insieme questo incontro con Cristo. Ed è iniziata la ricerca di una casa, anche se dubbiosa ed incerta: "Come farò a mantenerli? Che cosa gli farò fare a questi ragazzi? Come faccio a mettere insieme una ragazza che viene dalla prostituzione, l'altro che viene dalla droga, l'altro che viene dal crimine? Avevo, però, la certezza che tutto è possibile a Dio.
 

Ebbene, cosa hai fatto per dare a Dio la possibilità di salvare i giovani dall'inferno? Ci siamo buttati in questa avventura ed è arrivata la casa. Di giorno in giorno sperimentavamo in mille modi i segni dell'amore di Dio Padre. Per esempio, mi avevano detto che per mantenere 15 persone occorrevano 15 milioni, ma io non avevo una lira e già eravamo in 25. Mi chiedevo: "come farò, a fine mese, a reperire questi milioni?". Ero preoccupata, ma ricordavo che Gesù aveva detto: "Cercate il regno di Dio e la sua Giustizia, tutto il resto arriva in aggiunta"; "Non vi affannate, i gigli del campo non tessono e non filano, ma neppure Salomone in tutta la sua gloria fu rivestito come uno di loro". Tutto quello che è avvenuto è stato semplicemente stupendo: c'era la bolletta di 362.000 lire da pagare? arrivava una persona mai vista e conosciuta con una busta di 363.000 lire; serviva una macchina perché eravamo rimasti senza macchina? in settimana tre telefonate e tre macchine in regalo; era il compleanno di una delle ragazze che amava pazzamente i gelati? suonano alla porta ed arriva un camion di gelati. Tutti fatti che ci facevano toccare con mano l'amore di un Dio che si manifestava come Padre. Allora, servivano circa 15 milioni per arrivare a fine mese, adesso i ragazzi accolti nelle comunità sono 150, quindi i milioni necessari sono un po' di più. Ci sono centri che stanno nascendo in varie parti d'Italia, adesso anche in Colombia, Brasile, Africa. Per la Regione noi avremmo bisogno di 150 milioni al mese, ma non riceviamo niente dalla Regione e dai genitori, eppure non ci manca niente, perché c'è un Padre che pensa a noi.

Regalaci un messaggio di speranza guardando tutto il bene che lasci alle tue spalle.  La cosa più incredibile in questi anni per me è stata veramente vedere centinaia e centinaia di giovani arrivare disperati, arrivare morti, con la morte nell'anima, e vedere la meravigliosa gioia di vivere che è scoppiata nel loro cuore grazie all'incontro con Cristo Risorto. Non abbiamo grandi terapie, ma chiediamo a tutti di vivere il Vangelo. Cristo ha segnato la Storia, ha sconvolto la nostra storia, ha dato risposte al nostro cuore. Provate a vivere il Vangelo, è meraviglioso: sono centinaia i giovani che ho visto passare dalla morte alla vita e diventare testimoni. Con alcuni di loro andiamo in giro per l'Italia proponendo un musical di testimonianza: eravamo morti e grazie a Cristo siamo risorti. Le canzoni di questo musical sono state raccolte in un CD che porta il titolo della nostra Comunità: "Nuovi Orizzonti". Chi volesse riceverlo può richiederlo al nostro numero telefonico: 0775 502353.

Casa accoglienza "Nuovi Orizzonti
via Prenestina, 95 - 03010 Piglio (FR)
Tel.: 0775.502353
E-mail: nuovi_orizzonti@libero.it
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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