Apulia Cinema

David Phelps, un giovane americano che ama gli antichi film della Russia


Appare straordinario sentirsi magnificare «la vecchia aria nostalgica dei film di una volta» da parte del giovanissimo David Phelps, che si preoccupa della «morte della realtà, della fine di quello che è l’autenticità dell’home movie». Da un ragazzone sportivo, ma molto magro, con occhi penetranti, capelli corti, riga a sinistra, che dimostra molto meno dei suoi 26 anni, uno che ogni mamma vorrebbe come figlio, ci si aspettano i programmi, le macchine digitali, che tutto traducono in codice binario.E invece lui parla dell’octopus (il polpo) che apprezza nei ristoranti della Puglia: avviene nella Mediateca di Bari in una conversazione a tutto campo a margine dell’iniziativa Digital Heritage con il filmmaker americano, che si dimostra una enciclopedia vivente della tecnologia, anche perché ha esperienza di insegnante di matematica.Arriva in anticipo, smonta il tavolo, lo porta giù dalla pedana, fa spostare le sedie, regola luminosità e contrasto dei proiettori, riempie di computer e telefonini il desk, tira fuori agende e fogli di appunti, poi si mette all’opera: esamina, scompone, ricompone le singole sequenze dei film muti, cerca i collegamenti, le allegorie, individua la posizione della camera cinema quasi fosse un essere vivente: l’occhio del cinema che fa vivere e rivivere le cose.Analizza Dziga Vertov o Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, proietta frames di Jean-Luc Godard, ricorda la cultura pop di Ken Jacobs, passa con facilità da Abraham Lincoln Polonsky alla saga Die Nibelungen di Fritz Lang o parla di Arun Farouki o Schnittstelle.È ammaliato dagli aerei e, mentre fa scorrere sullo schermo Les enfants jouent à la Russie, nota come gira l’elica del velivolo e ruota la bobina della pellicola, rileva come «gli aerei e il cinema fanno da ponte tra i diversi continenti, hanno la funzione di collegare un luogo ad un altro. Sono due tecnologie che hanno rivoluzionato il secolo scorso, ma chi le ha inventate non immaginava certo che ciascuna di esse avrebbe influenzato tutto il mondo».Due giornate molto intense con un gruppo attento di allievi, riuniti per la conclusione dei projet works: mostra tutti i film (suoi o della sua amica Gina Telaroli), esamina le immagini raccolte da Annalisa Colucci e dal gruppo Oggetti smarriti, riprende la stessa sala, insieme a loro monta le riprese, sovrappone le immagini, vira o brucia i colori, inserisce e «mixa» le musiche, tratte dalle classifiche U.S.A. o (addirittura) da La Cecchina di Niccolò Piccinni. E soprattutto spiega come si fa, risponde a tutte le domande: «Va bene Final Cut Pro, ma la settima versione, non la decima»; consiglia per il sonoro Audio Hijack Pro, usa i filtri, passa dal muto al sonoro, dal bianco /nero al colore, dal cinema alla tv.E chiude questa total immersion con la ovvia considerazione che «c’è sempre una distorsione tra ciò che c’è in realtà e ciò che appare sullo schermo». Poi parte alla volta di Bologna.Adriano Silvestri