Giustizia Privata

La Fonte Aquilana


L'Aquila è forse l'unica città importante, capoluogo di regione che i romani non riuscirono a conquistare e porre sotto il proprio dominio per la semplice ragione che al tempo di Roma L'Aquila non esisteva ancora.L'aquila come rapace non c'entra niente col carattere del popolo dall'indole tutt'altro che aggressiva e grinfànte che la abita.Oltretutto questo non è il nome originale della città, capoluogo d'Abruzzo. La sua radice etimologica si riferiva senz'altro all'acqua chiara e spumeggiante che riga i terreni della valle; quindi l'acqua fu trasformato in L'Aquila per compiacere all'imperatore Federico II nipote del Barbarossa che favorì la nascita della città e teneva come simbolo della casata appunto il grintoso rapace.L'Aquila è città particolare, unica nel Medioevo italiano, nata non per una casualità ma per progetto secondo un disegno armonico che non trova precedenti nella storia dell'architettura urbana: in poche parole la città fu costruita secondo un progetto rigorosamente urbanistico che teneva conto non solo di case e palazzi, ma di un impianto fognario ben distinto da quello delle acque potabili e dai percorsi canalizzati per mulini e servizi alla popolazione.Contro i maggioriNella valle dell'Aterno (fiume più lungo d'Abruzzo) non esistevano che piccoli borghi popolati da contadini e artigiani. La nascita vera e propria della città si concretizza nel 1254 ad opera degli abitanti dei villaggi del territorio circostante fin da allora autonomi: costoro, proprio in quell'anno, si ribellarono alle continue vessazioni dei baroni feudali che imperversavano su tutto il territorio e decisero di unirsi in una confederazione di reciproca difesa che riuniva i vari agglomerati di uomini liberi. Così gli originali borghi si trasformano in quartieri organizzati della nascente città. Naturalmente essi a ricordo dei Longobardi che occuparono per molti secoli l'intera vallata dell'Aterno costituirono un brolo, cioè un centro logistico amministrativo dove si riunivano i rappresentanti non solo della città, ma anche dell'intero contado. Essi non solo in quella forma di giurisdizione mantenevano il diritto civile di una democrazia, ma sviluppavano l'uso comunitario delle proprietà collettive di pascoli, acque e boschi.La storia di questo straordinario evento e delle sanguinose lotte a cui dovettero partecipare i minori associati per ottenere e difendere la loro autonomia sono narrate da un geniale poeta a mezzo fra lo storico e il giullare in un'opera chiamata «Cronache» che ci è pervenuta quasi intatta e che egli stesso chiamò «La mordacchia e la libertà». Nella sua testimonianza spesso satirica Buccio si scaglia ferocemente contro i maggiori e le loro scorrerie, i delitti immancabilmente impuniti a cui fanno ricorso per riottenere potere perduto né, nei suoi interventi di sarcastica denuncia, si tira indietro quando si trova a dover coinvolgere principi, cardinali, nonché lo stesso Papa e imperatore. Per questo rischia assai e puntualmente ecco spuntare la più pesante delle censure dove gli immancabili servi del potere si scagliano in difesa della potestà e vanno cantando la risaputa litania del «è indegno, non si può fare! Mancar di rispetto al Santo Padre e all'egualmente Santissimo Imperator!».Bosch, disastri e promesse«È vergogna imperdonabile!» si grida mentre si assiste al precipitare dalle finestre - fatto accidentale - dei soliti reprobi e degli immancabili blasfemi e laggiù come in un dipinto di Bosch bruciano interi villaggi e qualche chiesa gestita da frati in odore di eresia.Poi scoppia la peste, naturalmente mandata dall'Altissimo per punire quell'umanità indegna che sventola il vessillo della parità dei diritti. E a chiudere l'arcata del castigo ecco esplodere nel 1315 un tremendo terremoto con crollo di case, palazzi e perfino una chiesa: quella dedicata a San Francesco. I morti, su una città di diecimila abitanti, sono ottocento, i feriti non si contano. Ben poche sono le case rimaste in piedi. Le vie di comunicazione sono interrotte in centinaia di passi, a cominciare dai ponti crollati e dalle strade montane franate a valle.Dopo quest'ultimo terremoto ne seguono altri e con loro si alternano i nuovi governanti della città. Ognuno di loro abbattendo il rivale promette un governo di libertà e progresso e aggiunge: «Certo dovrete darmi del tempo e collaborare...», ma il tempo è breve e ne sale su un altro. Signori d'ogni regione e razza: ognuno viene a far visita dopo ogni funerale, porta vivande, qualche tenda, abbraccia e bacia le vedove delle vittime davanti alle bare, sempre ordinatamente disposte e ogni volta, lancia l'immancabile promessa: «Ricostruiremo di nuovo questa città, più bella di prima!».Biblico, come GericoLo strano è che ognuno dei despoti visitatori, svolazzando in giravolte come avvoltoi sui feretri, si susseguono sbrodolanti parole di speranza e conforto... dopo un po' vengono colpiti da una sorte feroce che li elimina dal gioco del potere. C'è chi subisce attentati, chi incidenti di viaggio, tanto in carrozza che su vascelli e addirittura facendo l'amore con donne piacenti, travolte da tanta pomposa autorità.Dire L'Aquila e pensare al terremoto, col tempo diventa quasi luogo comune. Nei secoli a seguire, si ripetono immancabili scosse e disastri, ma sempre la città e i suoi cittadini dimostrano una forza straordinaria nel riuscire caparbiamente a ricostruire, nonostante che ad ogni cinquantennio si verifichino scosse disastrose, finché si giunge a cavallo fra il Sei-Settecento. Si tratta di un «cavallo davvero scatenato che va scaraventandosi di dosso ogni cosa gli stia sul groppo». Caracolla per giorni interi finché nulla rimanga più in piedi: gli storici parlano di scosse che raggiungono i 10 gradi della Scala Mercalli. Tutte le chiese danneggiate, alcune crollano completamente quasi ridotti in polvere. Sempre gli storici stimano che nelle varie scosse i morti in quel cataclisma raggiungono oltre 6.000 vittime. I sopravvissuti non erano nemmeno in grado di salvare qualche oggetto, delle loro case non restavano che detriti, perciò la maggior parte delle famiglie era costretta ad abbandonare la città.Si assisteva a qualcosa di tragicamente biblico, pari all'esodo dalla città di Gerico abbattuta dalle trombe di Giosuè. Solo un gran pulviscolo che saliva a dismisura, non si leggevano nemmeno i profili delle montagne né il declinare delle valli, tanto era fitta e intensa la polvere che il vento portava roteando intorno al flagello.La scelta di Clemente XIMa Papa Clemente XI, sant'uomo di straordinaria tempra e caricato di un impeto a dir poco sacrale, impose che L'Aquila dovesse ritornare a risorgere.«Ma come può una città rivivere senza la presenza di cittadini ricchi di prole?» gli contestarono vescovi e cardinali.E di rimando il pontefice: «Vi si conducano giovani uomini e donne, in grado di formare famiglie in grande quantità».«E dove pensate di raccogliere, Santità, un numero sufficiente di nuovi abitanti procreatori?».«Facciamo razzia? - azzardò un chierico screanzato - Magari presso gli indigeni delle coste africane?».«No, nessuna razzia. Ci rivolgeremo ai nostri più stretti collaboratori. La Chiesa è ricca di giovani suore e di seminaristi, nonché preti appena consacrati: saranno loro la nuova linfa di Gerusalemme... sì, voglio dire de L'Aquila!»«Cioè, pensate di unire anche sessualmente suore consacrate e converse con giovani sacerdoti creando famiglie?!... E come la mettete Santo Padre con il sacro vincolo della castità?». Il Papa lo guardò con espressione d'odio e pensò a una risposta addirittura triviale, ma giacchè era un uomo risoluto sì, ma saggio e paziente rispose: «Fortunatamente noi, grazie allo Spirito Santo, abbiamo la facoltà di dire e anche di disdire... quindi come consacriamo sorelle e giovani fratelli alla castità possiamo ancora dispensarli, toglierli dai loro doveri corporali in obbedienza alla priorità dello spirituale e scioglierli da ogni voto... liberi da ogni vincolo... salvo quello di accoppiarsi per procreare con feconda continuità. Quindi selezioniamo giovani religiosi adatti al compito e spediamoli sul luogo del disastro con l'ordine di ricostruire e di creare amandosi con la giusta passione perché continui la vita in quella città».Da non crederciStupefacente, no? C'è da non crederci! Voi ne eravate al corrente? No? Nessuno? Ebbene, nemmeno io. E vi dirò che subito mi sono dato alla verifica su più di un volume di storia patria... niente! Vuoi vedere che quel cronista che ci ha fornito 'sta folle testimonianza se l'è del tutto inventata... così per allocchirci di scalpore... tant'è che s'è tenuto anonimo! Però c'è un particolare non da poco che mi ha sorpreso e che mi fa pensare. Sfogliando le cronache aquilane del '700 mi ha stupito constatare che prima di tutto le notizie del cataclisma di quell'inizio di secolo sono tutte concordi nel denunciare l'alto numero di vittime, (oltre diecimila, e più di trecentomila feriti) che per venir curati in mancanza di ospitali agibili, furono costretti ad essere traslocati in ricoveri della regione non colpiti dal cataclisma. Altro dato certo è che vi sia rimasto un gran numero di superstiti privi di abitazioni: circa il 50% dei sopravvissuti si è deciso a emigrare in luoghi non soggetti a perturbazioni sismiche continue. In poche parole fra le macerie erano rimasti come statuette di coccio di un orrendo presepe solo vecchi e qualche tapino che la violenta aggressione del terremoto aveva reso attonito, quasi demente. Quindi è più che attendibile la notizia dello svuotamento della città ridotta a reperto fantasma.Eppure, sempre le cronache di quel secolo ci danno testimonianza di una seguente avvenuta ripresa sia mercatale che manufattiera: ecco riapparire le tessiture e le imprese edili, nonché i mercati e perfino un carnevale strabordante di gente che si dà allo sgamàzzo e gran risate da far tremare il terreno.E da dove viene tutta 'sta popolazione? E nota bene, nessuno parla di immigrazioni più o meno forzate, quindi ecco che la testimonianza del cronista anonimo prende decisamente tono veritiero. I nuovi aquilani son figli di suore converse e preti amorosi. Frati e sante hanno fatto il miracolo della ripopolazione.E qui devo confessarvi che 'st'idea di trasformare queste desolate terre aquilane in un Eden gioioso e stracarico di creature, Clemente XI non l'ha partorita solo grazie al suo fecondo cervello, ma da uomo colto ed erudito qual era s'è rivolto ai poeti. Certo Clemente doveva di sicuro conoscere i grandi lirici e umanisti del Rinascimento: Petrarca, Bembo e naturalmente soprattutto Ruzzante. Ed ecco che è proprio da lui, dal Beolco, che ha tratto la pensata del travolgere d'amore anche i parroci e le monachelle. E ve ne voglio dare dimostrazione con un brano tratto dall'orazione al Cardinal Cornaro declamato personalmente da Ruzzante in persona davanti al sommo prelato.Parla il contadino del RuzzanteSiamo nel paradosso: è il contadino Ruzzante che dà consigli al gran Cornaro e il sant'uomo lo ascolta con molta attenzione e con mossa giocondità.Eccovi il brano tradotto in italianesco perché tutti possiate capire:Vui ben savéte, signor 'lustrìssimo Cornaro, che anco Deo Santissimo in lo creàr lo creato ha ordenàto che bisognàsse farse ragion dell'amore. Ah, l'Amore! Se non ce fodèsse l'amore! Non naserèbbe nissùno en 'sto onervèrso grando, e pégore, cavàgli e criàture de tuto lo rovèrso mondo non facerèbbero mai fructo.Oh, l'Amor! Inspécie lo quello naturale... Illo è la meglio cosa che ci sta nello monno. E viene senza dover enventàrse marchingegni strambi come quello de dondolàrse su doe altalene: una per la femmina e l'altra de contro per el màstcio. Or li vedìte: se van sfiorando in nel dondolo. El vento maligno suléva la vèsta de la filiola. Per colpa de un ramo allo zóvine se strazza le braghe. El vento virgola l'altalena: un de qua, l'altro de là se van scontrando in del mezzo e... sciàff!, restano inchiavardàdi! Oh che piasér! Illa remàn gravida, illu tutto sderenà! Oh che pecà!No, non hai besógno d'esti smachinaménti svolànti.L'amor, chillo veràce, zónze col vento, si ficca in lo profondo per farce innamorare la terra... nutrire le biade, il frumento, le rape... e dentro al mare fa innamorare pesci che zompano in branco come fontane. Ah s'è morirèsse tutti senza 'sta amore!La majór de tute 'ste nove regole, è che ogni prévete, curato, frate o cappellano, possa prendere moglie... e le converse sòre... maridàrse. E così andrà pure a ramengo 'sta maledetta fragilità della carne!Perloché 'sto foco pija anche i préveti che, sebbene coperti di religione, immersi nell'incenso che sfumàzza dai turiboli, quando gli accatta 'sto fremito della carne, non sanno in che buco cacciàrse. Ché, d'accordo che so' préveti ma so' anco uòmmeni come noàltri, e qualcuno è pur anco più maschio de nui.E per il fatto che non hanno femmine sottomano quando lo spiffero amoroso si infila deréntro al suo aspersorio, appena si imbatte in una delle nostre femmine... alla prima botta benedetta di fatto le ha già ingravidate. E noi poveretti facciamo le spese dei suoi figlioli... ci tocca mantenerli, crescerli, allevarli 'sti figli d'un curato! Al contrario, se saranno castrati, noi non avremo questa bega sulle spalle. E meglio, se avranno moglie... non saranno di continuo con gli orpelli infuocati... e in eterno il perno in calore!... Che, 'ste loro mogli, li terranno costantemente ben munti.E se anche continueranno a ingravidare le nostre femmine, nui alla stessa manéra, engravidarémo anche quelle de loro.E alla fine se sarebbe alla pari... che d'accordo che dovarèmmo far le spese di allevàrglie e crescere i loro figliuoli... ma anche loro dovranno crescere e mantenere i nostri... e per giunta dovranno non soltanto nutrigàre l'anima a 'sti figli, ma dovranno darce da magnàre anco al corpo, se no quelli ce màgnano il Vangelo, la Bibbia, le candele e il sacrestano!In 'sta manéra, a la fine, se sarebbe tutti una stessa cosa, non ce potrà stare più invidia né inimicizia... per il fatto che saremo tutti un parentado. E tutte le donne sante o non troppo saranno piene gravide, e si adempirà infine la legge del signor Jesus-Dio Cristo che dice: "Crescete e moltiplicatevi!".Così, di sicuro, non ce avremo giammai orrendo spavento né de tempeste e ne manco de' tremammòti che fa stragge, per la razÓn che n'avrèm di rencàlzi per 'na razza nova da covrìr coi figlioli ogni nostro terretòrio fino al ziélo.Ecco da chi s'è arrubbato l'idea per regenerare L'Aquila il Santo Papa Clemente XI! Di qui, dall'orazione del Ruzzante! E poi dìcheno la conoscenza non è necessaria! Forse per i minchioni, ma a chi tocca governare le femmene, l'uommini e l'animaccia loro e l'è issinziàle!www.dariofo.it