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LA SCALA A CHIOCCIOLA

Post n°30 pubblicato il 04 Dicembre 2010 da pacatissima
Foto di pacatissima

Giorni di attesa, ad inventarmi giochi che occupassero il tempo. Un tempo solitario e caldo, dove nessuno si preoccupava di offrirmi stimoli. Avevo eletto a mio regno una terrazza ombreggiata dalla vite dello zibibbo da cui si vedeva il mare. Per raggiungerla dovevo percorrere una scala a chiocciola in metallo grigio e, mentre giravo su me stessa, temevo il mostro nascosto: la tarantola. Non si mostrò mai, ma sapevo che abitava lì. Una volta in terrazza ero al sicuro per tutta la mia permanenza. Il pensiero del dopo, del rientro, non mi importunava. Cosa facessi lì sopra e da sola, non lo ricordo. A volte, un desiderio forte di proibito e di indipendenza rendeva innocuo il rientro e correvo per la scala a spirale, leggera, incontro al mio da fare. Raggiungevo una piccola cucina rettangolare, dove l’azzurro, nel pomeriggio assolato, diventava fosforescente. Lì , dietro il mobiletto del pane, mia zia riponeva la carta straccia che usava per scolare i fiori di zucca, fritti nell’olio pesante di Gallico. Avevo otto anni e mi sconcertava il sapore. Il mio palato era abituato ad un olio molto più dolce. Ma, per quanto  dopo quarantadue anni ancora lo ricordi, mi abituai a quell’olio, come al dialetto e alla cadenza calabra. Con la carta straccia costruivo sigarette che fumavo beata, sfruttando la solitudine in cui mi lasciavano e assaporando libertà d’azione. Quando venivano a trovarmi, le proponevo  ai miei cugini che non se le lasciavano sfuggire.

Spesso, quando pensavo a mia madre, sentivo un nodo legarmi l’esofago, una sensazione dolorosa irrigidiva le mie morbide cartilagini. Non sapevo ancora fosse l’anticamera del pianto. E che si potesse restare lì, in quell’anticamera, senza piangere.

Rimasi lì due mesi. In estate. Il tempo per capire il dialetto paterno senza saperlo parlare, assimilandone le inflessioni. Ritornando alla terra materna mi chiedevano dove avessi cambiato così le mie O, diventate chiuse nel frattempo e mi pregavano di riprendere a parlare nel nostro modo. Nonostante tutto, un fiero orgoglio mi attraversava gli occhi che abbassavo. Orgogliosa che l’ibrido si manifestasse ora anche nel linguaggio.

 
 
 
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