Creato da titolabieno il 03/03/2008
 

PEDALARE IN LIBERTA'

PERDERSI NELLA NATURA E NEL PAESAGGIO PEDALANDO

 

 

Umore e pastasciutta

Post n°49 pubblicato il 13 Novembre 2009 da titolabieno
 
Tag: pasta, umore

ROMA - Il sospetto c'era già: se si mangia meno pasta, si vede nero; uno studio australiano ha ora confermato che una dieta povera di carboidrati (pasta, pane) e ricca di grassi, protratta per almeno un anno, provoca ansia e depressione, perché isola socialmente e diminuisce la produzione di serotonina nel cervello, una sostanza che ha effetti benefici sull'umore. Lo studio 'Effetti sull'umore e sulla memoria di diete con pochi carboidrati o pochi grassì, condotto da un gruppo di esperti guidati da Grant Brinkworth del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization-Food and Nutritional Sciences, è stato pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine. I ricercatori hanno monitorato 122 partecipanti, sovrappeso e obesi, di età compresa tra i 24 e i 64 anni per 52 settimane, prescrivendo a un primo gruppo una dieta composta da una percentuale molto alta di grassi (61%) e bassa di carboidrati (4%), pari a una quantità di 40 grammi al giorno. Il regime dietetico del secondo gruppo, invece, era basato per il 46% di carboidrati e il 30% del totale di grassi, con una restrizione fino a 10 grammi al giorno per i grassi saturi. Entrambi i gruppi, sottoposti a vari test cognitivi e dell'umore, hanno dimostrato un miglioramento psicologico e della memoria a soli due mesi dall'inizio della dieta. La differenza è, invece, emersa sul lungo periodo: dopo un anno chi era stato messo a 'stecchetto' di carboidrati ha provato infelicità, depressione e ansia. Il livello della memoria e il peso corporeo migliorano ma in pari misura nei due gruppi, entrambi più veloci nel ricordare e dimagriti di 13 chilogrammi.

 
 
 

Nucleare

Post n°48 pubblicato il 13 Novembre 2009 da titolabieno
 

NUCLEARE       

La catacombe dell'atomo
nel caveau delle scorie
Cinquecento metri sotto le argille dello Champagne, i francesi stanno costruendo i "sarcofagi" dove verranno smaltiti i rifiuti delle centrali atomiche. Saranno radioattivi per 300mila anni dal nostro inviato MAURIZIO RICCI

 

 
BURE - L'ascensore viaggia a due metri al secondo. Fra pause e rallentamenti, ci vogliono otto minuti per arrivare in fondo, sotto quasi 500 metri di roccia. La cabina ha pareti e grate di acciaio, di un rosso vivace. È un ascensore da miniera. Ma questa non è una miniera.

Nell'intrico di gallerie che si apre davanti alla porta si scava, solo per seppellire. L'argilla della terra che dà al mondo lo champagne accoglierà le bare di qualcosa che vivo non è stato mai, ma che ora è, e resterà a lungo, assolutamente letale. Siamo alla destinazione finale delle scorie radioattive. Queste sono catacombe: le catacombe dell'atomo. Lungo le pareti di una roccia grigia e polverosa si aprono i loculi.

Ai Comuni che hanno accettato di farsi scavare sotto campi e foreste, il governo ha distribuito circa 20 milioni di euro

Scelte zone non a rischio terremoti e nel profondo di una roccia, dove l´acqua non può infiltrarsi Ma non tutte le rocce sono uguali

Dentro al contenitore in acciaio inossidabile, i residui sono schermati da un secondo involucro in vetro
Il costo del "cimitero" dell´atomo è di circa 60 miliardi di euro, quanto l´intero deficit italiano

L'imboccatura è un foro circolare, con un diametro di non più di settanta centimetri, che introduce ad un cunicolo profondo fino a 40 metri. Qui verranno infilati i sarcofagi, lunghi poco meno di una bara - circa un metro e sessanta - dove sono stati deposti i residui di combustibile nucleare spento, destinati a restare attivi per centinaia di migliaia di anni. Il termine tecnico è "scorie ad alta radioattività e a vita lunga". In ogni cunicolo ce ne stanno dodici: ma la successione ne prevede uno pieno e due vuoti, per limitare il carico radioattivo e disperdere più facilmente l'enorme calore accumulato.

Bure, in realtà, non è la destinazione finale delle scorie. E' un laboratorio, un modello, dove si studiano e si affinano tecniche e procedure del confinamento.

Ma si sa già che il vero deposito sarà costruito a qualche chilometro da qui, dentro la stessa roccia, ai confini dei dipartimenti della Meuse e della Haute Marne, a ridosso delle colline, dove coltivatori grandi e piccoli curano, con precisione maniacale, le vigne che danno alla Francia la gloria nazionale dello champagne. La costruzione inizierà nel 2015, il cimitero comincerà ad accogliere i primi sarcofagi nel 2025. Qualche Comune ha protestato e si è chiamato fuori. Altri hanno accettato di farsi scavare sotto campi e foreste. Il governo ha distribuito circa 20 milioni di euro per la costruzione di scuole e infrastrutture sul posto. La Francia spera così di aver tamponato il problema più spinoso dell'intera partita nucleare: se un reattore in funzione fa paura, qui ed ora, le scorie spaventano per 300 mila anni e via, oltre ogni comprensibile conto: il pianeta che verrà.

Non tutte le scorie, peraltro, sono così pericolose. Anzi, lo è solo una quota minima. Anche se va trattato con mille cautele ed attenzioni, ad esempio seppellendolo nel cemento, poco meno del 90 per cento dei rifiuti nucleari ha una vita radioattiva inferiore ai 30 anni. E meno del 5 per cento sono quelli con una vita semieterna e un'alta radioattività.

Se togliamo da questa quota gli involucri dei reattori e delle pasticche di combustibile, restiamo con il nocciolo duro delle scorie: in sostanza, l'uranio esaurito dei reattori. Una volta riprocessato per ottenerne combustibile fresco, quello che resta è lo 0,2 per cento del totale delle scorie. Ma questo 0,2 per cento rappresenta il 95 per cento della radioattività totale. E lo 0,2 per cento di 1 milione 800 mila metri cubi - il totale di scorie radioattive che le centrali francesi avranno accumulato al 2020 - è la rispettabile cifra di 3.600 metri cubi. Dove metterli?

In una zona che non sia a rischio terremoti e nel profondo di una roccia, dove l'acqua non possa infiltrarsi. Ma non tutte le rocce sono uguali. "Quelle adatte - spiega Bertrand Vignal, dell'Andra, l'organismo francese che si occupa della gestione dei rifiuti radioattivi e del laboratorio di Bure - sono il sale, il granito, l'argilla". Il sale è difficile da trovare. I finlandesi - gli unici al mondo, oltre ai francesi, che stanno costruendo un deposito definitivo per le scorie, ad Olkiluoto, vicino alla nuova centrale in costruzione - hanno scelto il granito. "E' solido e compatto - dice Vignal - ma è più permeabile alla radioattività". Nel progetto finlandese, infatti, i sarcofagi delle scorie ad alta radioattività prevedono una addizionale camicia di rame. I francesi, invece, pensano di poterne fare a meno. Alti un massimo di un metro e sessanta, larghi 64 centimetri, i sarcofagi di Bure sembrano enormi proiettili di cannone, con un'ansa in cima per consentirne il movimento e la gestione automatizzati.

Dentro il contenitore esterno in acciaio inossidabile, i residui sono schermati da un secondo involucro in vetro. "In realtà - ammette, davanti ad uno dei loculi, Marc - Antoine Martin, ancora dell'Andra - noi sappiamo benissimo che, entro 300 anni, nell'involucro ci sarà il primo forellino". E allora? "A questo punto, a contenere la radioattività ci pensa la roccia". "Abbiamo scelto l'argilla - spiega Vignal - perché, rispetto al granito, la radioattività si muove più lentamente attraverso l'argilla. Noi calcoliamo che, quando avrà risalito i 500 metri verso la superficie, la radioattività iniziale delle scorie sarà scesa ai livelli che si trovano normalmente in natura".

Funziona? E', per ora, ancora una scommessa. "In questo campo, non esistono certezze scientifiche" dicono all'Irsn, l'istituto francese che si occupa specificamente degli aspetti tecnici e scientifici della sicurezza nucleare. "Tutti i tentativi di creare dei modelli delle interazioni a lungo termine di un sistema così complesso sono discutibili e discussi, avvolti in parecchie incertezze". L'elenco che ne fa l'Irsn è lungo: le reazioni chimiche determinate dalle radiazioni dentro i fusti, la fisica dei flussi all'interno delle materie radioattive immagazzinate, il comportamento dei metalli e del cemento impiegati nello stoccaggio, la possibilità stessa che lo scavo delle catacombe possa danneggiare la roccia e creare crepe entro cui si potrebbe infilare l'acqua, offrendo alla radioattività una facile e rapida via di fuga". "Non si possono applicare semplicemente - concludono all'Irsn - gli usuali parametri di radioprotezione".

Per questo, a Bure, si continua a lavorare e a sperimentare. Soprattutto, la legge francese sulle scorie prevede esplicitamente la "reversibilità". Anche una volta sigillati i loculi, le catacombe di questo Est della Francia resteranno aperte per altri 100 anni. I tecnici continueranno a scendere, con l'ascensore rosso, nelle gallerie grigie a monitorare la situazione, ma anche, eventualmente, ad estrarre i sarcofagi. Nel caso si scoprano metodi più sicuri di stoccaggio delle scorie o che entri finalmente in funzione la nuova generazione di reattori, in grado di bruciare completamente il combustibile e azzerare il problema dei rifiuti ad alta radioattività. Nel frattempo, però, le scorie continueranno ad accumularsi. Il cimitero nucleare previsto fra la Meuse e l'Haute Marne è progettato per accogliere 6 mila metri cubi di scorie altamente radioattive. Di fatto, aprirà nel 2025 e sarà pieno fino all'orlo nel 2030. Poi? "Possiamo sempre estenderlo" assicura Martin.

Su una cosa, però, i francesi non hanno dubbi. Nel suo ufficio all'Assemblea Nazionale, Claude Birraux, presidente dell'Ufficio parlamentare di valutazione delle scelte scientifiche e tecnologiche, torna e ritorna su un punto: "La legge che abbiamo votato è chiarissima. Non accetteremo in Francia scorie che non provengano dalle centrali francesi. Ogni paese si gestisca le sue".

Per l'Italia, che si accinge a varare un piano nucleare nuovo di zecca, significa far salire di un gradino il livello di complessità delle scelte. Si tratta non solo di trovare un posto che non rischi terremoti e abbia la roccia adatta, per installarvi un deposito permanente di scorie, ma anche di pagarlo, facendo salire ulteriormente la fattura nucleare. Nell'ipotesi migliore (cioè che i costi rispettino il preventivo) le quattro centrali a cui pensa l'Enel costeranno poco meno di 20 miliardi di euro. Se se ne realizzassero otto, come progetta il governo, il costo sarebbe vicino ai 40 miliardi. A questi bisogna aggiungere il deposito: quello progettato a Bure costa, da solo, 15 miliardi di euro, quanto tre centrali. Poi bisogna aggiungere i depositi per le scorie meno pericolose. Il totale è vicino ai 60 miliardi di euro, quanto l'intero deficit statale l'anno scorso.
 
 
 

CAVIE UMANE

Post n°47 pubblicato il 13 Novembre 2009 da titolabieno
 

Farmaci test e tanti soldi
parlano le cavie umane

Un sito raccoglie le storie del business dei volontari nelle sperimentazioni farmacologiche. Ecco come vivono di BENEDETTA PERILLI

 

 
PROFESSIONE cavia umana: numerosi prelievi di sangue al giorno, assunzione di medicinali mai testati prima sull'uomo, brevi ricoveri sotto osservazione, possibili danni alla salute e stipendi da capogiro. Passa quasi inosservata - in Italia solo alcune inchieste hanno raccontato del business dei volontari nelle sperimentazioni farmacologiche - ma sul web la professione della cavia umana è ampiamente documentata. C'è chi l'ha fatto in Svizzera (vero Eldorado del settore per gli ottimi pagamenti), chi in Texas, chi in Italia, dove il reclutamento dei volontari - prevalentemente ricercatori o studenti di medicina - avviene tramite l'Istituto superiore di sanità e i vari Comitati etici delle Asl nazionali. C'è chi l'ha provato una sola volta, chi denuncia i danni subiti da un familiare dopo la prova di un certo medicinale e chi invece ne ha fatto il lavoro di una vita.

E' il caso di Paul Clough: 30 anni, americano, cavia volontaria da cinque, 35 sperimentazioni, oltre 500 notti trascorse in 8 cliniche diverse e 3mila prelievi endovenosi. La sua storia è tutta raccontata in un sito, Just Another Lab Rat (Solo un altro topo da laboratorio), nel quale Paul spiega i retroscena di una professione molto discussa. Lui si augura di poter continuare almeno fino ai 45 anni e nel frattempo, tra la fine di un test e l'inizio del successivo, cerca di mettere da parte i soldi per quando il fisico non gli permetterà più di prestarsi alla scienza. Il sito è diventato presto il punto di ritrovo di tutta una comunità di cavie umane che, nella sezione Message Board, si conoscono, confrontano e consigliano sui prossimi test. Secondo Paul negli Stati Uniti altre 10mila persone hanno scelto la sua stessa professione.

Ufficialmente sono tutti volontari ma il cospicuo pagamento - più di 300 dollari al giorno - permette sin da subito di restringere il cerchio dei candidati. In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista New Scientist si apprende che sono soprattutto disoccupati, studenti, persone con debiti e, come nuovo trend, anche immigrati illegali e senzatetto. Aspetto, questo, che allarma non poco parte dei ricercatori scientifici e bioeticisti, che individuano nell'esigenza economica di queste persone un incentivo a sottoporsi a continui test, senza però rispettare i tempi e le corrette norme sanitarie.

A spiegare il giusto iter della cavia umana ideale, dal reclutamento alla degenza, ha pensato Paul nel suo dettagliatissimo sito. Tutto inizia con la ricerca delle cliniche e dei test: nella sezione Clinic List sono raccolti in ordine alfabetico tutti gli istituti americani che attualmente stanno cercando volontari. Si va dall'Arizona, dove mancano cavie per una "fase uno" (ovvero prima prova su uomo sano dopo quelle animali) e candidarsi è possibile compilando online una normale form, alle Hawaii dove per un compenso di 4750 dollari si cercano donne giapponesi di prima generazione tra i 45 e gli 80 anni. E così via per circa cinquanta cliniche, oltre a quelle universitarie e a quelle del sonno. In Italia non esistono siti di raccolta delle offerte, ma una semplice ricerca sui motori online permette di individuarne sia in Italia che nella vicina Svizzera.

Una volta scelta la ricerca in base ai requisiti e alla posizione geografica della clinica - alcuni volontari americani vivono addirittura nei camper per potersi spostare meglio da una località all'altra - inizia la fase degli esami. Il candidato cavia deve essere sano (la sperimentazione sui malati fa parte delle fasi 2, 3 e 4) e per attestarlo viene effettuato prima un test telefonico sull'età e le abitudini del candidato. Fumo, alcol, droghe, cattiva alimentazione, allergie, etnia: quasi tutto può compromettere la scelta. Una volta superata la prima fase si passa alle analisi di laboratorio: prelievo del sangue, analisi delle urine, pressione, elettrocardiogramma (per alcuni studi è rischiesto anche il monitoraggio cardiaco di 24 ore), prove allergiche e misurazioni di ogni genere.

Sempre sul sito Just Another Lab Rat si apprende che superata questa fase, circa due settimane dopo, inizia la vera sperimentazione. Al check-in ci si presenta con il cellulare, ma la videocamera non è ammessa; con prodotti di bellezza, ma non a base di aloe o cocco; elettrodomestici, ma senza cuffie: si effettuano nuove analisi e solo se i valori sono compatibili allo studio si procede al ricovero. La sperimentazione ha una durata variabile a seconda del farmaco assunto e durante il ricovero la cavia viene sottoposta a continue analisi, pasti regolari e controllati, ore di sonno cadenzate. Non sono permesse le visite e qualsiasi effetto indesiderato, dal mal di testa alla sudorazione, deve essere segnalato al personale medico. Se il volontario non può proseguire il test a causa di controindicazioni inaspettate viene comunque retribuito e, in caso di compensi superiori a 600 dollari, la somma è soggetta a tassazione.

Alla fine di ogni studio la cavia deve rispettare un periodo di disintossicazione di almeno 30 giorni, durante i quali l'assunzione di vitamine, acqua e pesce aiutano a rimettersi in forma. Questa è la testimonianza di Paul Clough, professione cavia umana. Trent'anni, ancora sano, con la media di 7 studi all'anno guadagna circa 30mila dollari. A 45 anni smetterà ma agli interessati ricorda: "Assumerete medicinali sperimentali che nessuno o pochi umani hanno preso prima. Quindi, certo, è possibile incorrere in malattie, effetti indesiderati o addirittura morte".
 
 
 

Ancora speranza

Post n°46 pubblicato il 12 Novembre 2009 da titolabieno
 

ROMA - Un'elica molecolare potrebbe rivoluzionare la cura di molti tipi di tumori, dalle leucemie al cancro ovarico, pancreatico, polmonare e gastrointestinale; e' stata infatti creata in laboratorio una molecola a forma di elica, SAHM1, che blocca potentemente una proteina del cancro, Notch1, da lungo tempo nota ma considerata invincibile. Pubblicata sulla rivista Nature, la scoperta apre le porte a un nuovo gruppo di farmaci che siano diretti contro la famiglia di molecole, i 'fattori di trascrizione', di cui fa parte Notch1, molecole finora non utilizzabili come bersaglio di farmaci.

Il traguardo si deve all'equipe di Gregory Verdine della Harvard University a Boston. Notch1 e' da tempo nota come causa o concausa di molti tumori, ma finora non e' stato trovato nessun farmaco con cui bersagliarlo. Notch1 e' un fattore di trascrizione, cioe' una molecola che controlla l'attivita', spegnendoli e accendendoli, di altri geni. Finora non sono stati trovati farmaci adatti a bersagliare i fattori di trascrizione, molti dei quali sono coinvolti nei tumori. I ricercatori si sono accorti che Notch1 ha un punto debole, una parte della molecola a forma di elica che gli serve per congiungersi con altre molecole o con recettori. Cosi' gli esperti hanno creato una serie di molecoline piccole a loro volta a forma di elica e selezionato tra tutte SAHM1 che si e' dimostrata efficace in modo potente contro Notch1. Testata su topolini con leucemia linfoblastica acuta, SAHM1 si e' dimostrata capace di inibire Notch1 e fermare la crescita del tumore. La moleocla, quindi, potrebbe fare da apripista a una nuova classe di farmaci contro il cancro.

 
 
 

PEPERONCINO E LE SEU QUALITA'

Post n°45 pubblicato il 11 Novembre 2009 da titolabieno
 

Tutti i gradi del peperoncino Avete appena cucinato degli spaghetti aglio, olio e peperoncino. Tanto peperoncino. Forse troppo. Alla prima forchettata vi si infiamma la bocca. Bevete immediatamente un bicchiere d’acqua ma la sensazione di bruciore addirittura peggiora. Sappiate che è tutta colpa della capsaicina, una sostanza chimica della famiglia degli alcaloidi, e di sostanze simili chiamate capsaicinoidi contenute nel peperoncino. I peperoncini hanno origine in Bolivia e in alcune parti del Brasile. Da lì vengono propagati in tutte le Americhe dagli uccelli, immuni all’azione della capsaicina. Gli Atzechi furono i primi ad incorporare il peperoncino nel loro cibo e nei loro rituali religioni, e sono documentate coltivazioni di questa pianta già nel 5500 a.C. Dal nuovo continente il peperoncino giunge in Europa con Cristoforo Colombo, e in seguito viene diffuso in Africa e in Asia, dove in alcuni paesi è ormai parte della tradizione culinaria locale, come successo anche in molte regioni del Sud d’Italia. Nel 1912 il chimico Wilbur Scoville decise di istituire una scala empirica di “bruciore” causato dalla capsaicina chiamando un gruppo di assaggiatori di peperoncino e sottoponendogli un estratto della sostanza a diverse diluizioni. Scoville fissò arbitrariamente la capsaicina pura a 16 milioni di “gradi Scoville”,che indicano il rapporto di diluizione necessario a far perdere piccantezza al peperoncino analizzato. Il peperone normale è in fondo alla scala, con 0 gradi. Un Jalapeño è solitamente attorno ai 3000 gradi Scoville, mentre il terribile Habanero può superare i 300.000 e si dice venga addirittura raccolto con i guanti. La capsaicina risiede principalmente nel tessuto placentale a cui i semi sono attaccati e non nei semi stessi, come molti pensano. Se siete particolarmente avventurosi da addentare e masticare un tipico peperoncino calabrese da 15.000 gradi Scoville, vi sentirete la bocca in fiamme. Sappiate però che la temperatura della vostra bocca non è aumentata. In generale, quando percepiamo una sensazione di “caldo” o “freddo” vengono stimolati dei termorecettori del nostro corpo che si attivano quando la temperatura raggiunge un certo valore di soglia. In pratica una proteina siede su una cellula nervosa della pelle o della bocca e quando la temperatura supera un certo valore la proteina induce la cellula nervosa a mandare un segnale al cervello. Due recettori recentemente scoperti, chiamati VR1 e VRL-1, si attivano quando la temperatura supera rispettivamente i 43 °C e i 52 °C. Tuttavia la capsaicina ha la forma giusta per interagire con questi recettori, e agendo come una chiave, apre un canale nella membrana cellulare che permette l’immissione di ioni calcio. Questi causano la trasmissione di un segnale di “dolore” che raggiunge il cervello, ingannato così dalla capsaicina. Il “piccante” quindi non è un sapore fondamentale, come il dolce, il salato, l’aspro, l’amaro e l’umami che sono dotati di recettori propri, ma agisce ingannando i recettori della temperatura. La stessa cosa fanno alcune molecole, come il mentolo, sui sensori di freddo. Ecco perché mangiando una caramella alla menta abbiamo una sensazione di “freschezza” in bocca. La Capsaicina non è solubile in acqua, quindi è perfettamente inutile berne a litri per alleviare il bruciore. È meglio mangiare del pane, che rimuove per azione fisica la capsaicina dai recettori. La buon solubilità in alcool della diabolica sostanza può suggerire una birra ghiacciata come rimedio, tuttavia la birra non è abbastanza alcolica, e sconsiglierei, a metà pasto, un bicchierone di limoncello ghiacciato . Tuttavia la capsaicina si scioglie ancor meglio nei grassi, per cui potete provare ad attenuare la piccantezza dei vostri spaghetti con una robusta grattugiata di parmigiano o di grana. In più la caseina agisce da “spazzino”, avvolgendo la capsaicina e rimovendola dai recettori. Per cui, se ancora ce ne fosse bisogno, cosa c’è di meglio a fine pasto di una generosa porzione di gelato alla panna per placare l’azione urticante di un’aglio, olio e peperoncino sfuggito al controllo del cuoco?

 
 
 

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