Per legittimare l’annessione militare sabauda degli antichi Stati italiani, che si voleva sottrarre con la forza al governo dei legittimi Prìncipi, amatissimi dalle rispettive popolazioni, il Gabinetto di Torino, massoni e la minoranza liberale nelle province occupate orchestrarono diversi plebisciti, ai quali per le modalità con cui avvennero le consultazioni ben s’addice la definizione di plebisciti-truffa. Il plebis scitum (decreto della plebe) antica fonte del diritto della Roma antica, fu riportato in onore prima da Napoleone I e in seguito dal nipote Napoleone III, in entrambi i casi per legittimare i rispettivi colpi di Stato del 1799 e del 1851. In proposito giova ricordare che in età moderna “non si dà esempio di un plebiscito il quale riuscisse contrario a coloro che lo proposero”. La Lombardia fu piemontesizzata nel 1859, al tempo della seconda guerra risorgimentale, senza celebrazione di plebisciti: a mano a mano che le truppe imperiali si ritiravano, i municipi lombardi, incalzati ad adeguarsi dalla fazione liberale e dai sopraggiungenti eserciti franco-piemontesi, si pronunziavano per Vittorio Emanuele, e questi, con propri decreti, iniziava a governare le nuove province. I plebisciti risorgimentali chiamarono alle urne (dal 1860 al 1870) solo una minima percentuale della popolazione (il 19% a Napoli, fino ad un massimo del 26% in Veneto); in secondo luogo si svolsero senza la minima garanzia d’imparzialità e segretezza, senza nessuna supervisione internazionale, indetti e gestiti dall’occupante piemontese, sotto il suo diretto controllo militare e poliziesco, in un clima di propaganda giornalistica asfissiante in favore dell’annessione e d’intimidazione continua specie nei riguardi del clero cattolico. In Toscana, ad esempio, dal Ricasoli fu vietata la libertà di stampa e di parola a chi non era del partito piemontese fino alla sera del giorno che precedette le votazioni; impossibile naturalmente in così breve giro di ore mettere in piedi giornali o comitati per il no; a differenza dei fautori del no, che erano o esiliati o incarcerati, i liberali poterono organizzare comitati per l’annessione in ogni Comune e inviare in ognuno una trentina di uomini armati per atterrire i contadini, minacciati dai padroni liberali di licenziamento dalle loro terre, se si fossero pronunziati per l’amato Granduca. Per parte sua la stampa risorgimental-massonica dichiarava reo di morte chi non avesse votato per l’annessione. I tipografi toscani furono diffidati dallo stampare scritti contrari all’annessione e “avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato”. Stesso cliché nelle Legazioni (Bologna, Ferrara e Romagne) che furono strappate al Papa dopo che i liberali vi avevano artatamente provocato rivolte per offrire al Governo piemontese un facile pretesto per ingerirsi e imporvi i suoi Commissari regi. Anche qui s’indisse il plebiscito per la loro annessione al regno sardo e anche qui “estorto contro ogni diritto un suffragio popolare a forza di pecunia, di minacce, di terrore e d’altri astuti artifici, [il Governo di Torino] non dubitò punto d’invadere le menzionate Nostre province, di occuparle e ridurle in sua potestà e signoria. Vengono meno le parole per riprovare condegnamente tanto delitto, nel quale solo si comprendono misfatti molti e gravissimi”. Nell’ex Ducato estense e nella città di Ferrara in particolare, parecchi giorni prima del voto la polizia perquisì le abitazioni di molti sudditi fedeli al Santo Padre; si sprecarono le stampe empie contro il Papa; i preti venivano minacciati di morte col pugnale; le guardie civiche ebbero l’ordine di distribuire alle singole case le schede in favore dell’annessione in numero dieci volte maggiore rispetto a quelle con le quali si sarebbe optato per lo Stato della Chiesa; i poveri e i deboli furono minacciati qualora non si fossero manifestati col loro voto per il Piemonte e così pure fecero fattori e possidenti con i loro contadini e operai, minacciati di licenziamento; gli artigiani furono comprati con un po’ di denaro, vino e acquavite; furono poi “in gran numero coloro che prezzolati o comparvero più volte o in una volta deposero più schede”; il Rettore dell’Università ammonì i suoi studenti che mancare al sì era mostrarsi traditori della patria e si recò insieme con loro alle urne per suffragare i Savoia. I vari commissari o dittatori regi, che nel nome di Vittorio Emanuele II reggevano le province allora definite redente, fecero a gara affinché l’esito della consultazione risultasse appunto il più plebiscitario possibile, talvolta anche a prezzo del ridicolo. L’imposizione del voto palese e le sfacciate pressioni esercitate sugli elettori acquistarono un particolare profilo di gravità, anche internazionale, in Veneto. Infatti il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866 poneva fine alla terza guerra risorgimentale: l’Impero, pure vincitore sul nazionalismo sabaudo sui campi di Custoza e nelle acque dell’Adriatico a Lissa, cedeva le terre venete (chiamate dall’Arciduca Alberto nel suo proclama alle truppe “la più bella gemma della Corona del Nostro Augusto Monarca” non ai Savoia, ma alla Francia di Napoleone III, cessione alla quale l’Impero era costretto dalla sconfitta subita dai Prussiani a Sadowa, il 3 luglio 1866. Il trattato di Vienna disponeva testualmente che la cessione del Veneto (con Mantova e Udine) dovesse aversi “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate” e per fingere di rispettare le clausole di quel trattato, il decreto sabaudo sull’organizzazione del plebiscito veneto, prevedeva agli artt. 5 e 9-12 il suffragio a scrutinio segreto, la suggellatura dell’urna da parte del seggio e lo spoglio dei voti da effettuarsi dal Pretore, che avrebbe dovuto conservare gli atti nell’archivio, redigerne verbale da trasmettere alla Presidenza del Tribunale d’Appello di Venezia, la quale a sua volta doveva comunicare i risultati parziali spogliati al Ministro della Giustizia. Come avvennero in realtà le votazioni in Veneto e in tutte le altre regioni annesse? Ammessi al suffragio erano i ventunenni maschi (ma garibaldini, fuoriusciti politici e soldati risorgimentali votavano senza limiti d’età); erano invece esclusi i compromessi con la causa dell’Imperatore. Per comprarsi la complicità dei pubblici impiegati, questi furono conservati in servizio e gratificati dello stipendio con decorrenza retroattiva. In occasione del plebiscito toscano i patrioti offrivano in mano agl’illetterati e specie a chi non sapeva leggere la sola scheda del sì; a taluni davano ad intendere che era soltanto una richiesta per avere il pane ad un prezzo più conveniente; ad altri che vi era l’obbligo di deporre la scheda del sì nell’urna, sotto pena altrimenti di uno scudo di multa e di diversi giorni di carcere. Qualche analfabeta fu ingannato, assicurandolo che quel biglietto del sì voleva dire sì al ritorno del Granduca. Nei seggi, i pochi oppositori rimasti, i più recalcitranti venivano schiaffeggiati e minacciati di morte col pugnale alla gola. I teppisti dell’annessione si divertivano invece a votare in più seggi o a gettare nell’urna un bel mucchietto di schede ciascuno, oppure a votare sfruttando il nome di persone che sapevano ammalate o assenti o che si volevano astenere dal votare, ben consci che, quale estrema risorsa, sarebbe rimasto in ogni caso il broglio elettorale a trarli d’impaccio. Il povero elettore veneto o di altra regione, doveva anzitutto dichiarare le proprie generalità al seggio e sotto l’occhio vigile dei nazionalisti risorgimentali, portare al Presidente del seggio una delle due schede che gli venivano offerte: o quella con il sì o quella con il no. La scheda veniva depositata in una delle due urne separate, una per il sì e l’altra per il no, in modo da rendere perfettamente palese l’espressione della volontà di chi votava sia al seggio sia a tutti i presenti, esponendo automaticamente il temerario oppositore dell’unità sabauda ad ogni genere di ritorsioni e di vendette. Il nome dell’elettore che votava no veniva segnato in un registro diverso e separato da quello su cui venivano annotati i nomi di quelli che si erano espressi per il sì. Per meglio assicurare la pubblicità del voto e il controllo dei riottosi, in talune località si giunse addirittura a colorare diversamente le schede del sì da quelle del no. La sala adibita a seggio traboccava di scritte inneggianti all’unità e i nazionalisti giravano fregiandosi della scritta sì sul cappello. Per sorvegliare il ceto contadino e i sacerdoti si era provveduto a: intimidire i parroci (quelli che erano rimasti, giacché alcuni, come l’arciprete di Cerea, nel veronese, per sfuggire alle violenze degl’iniqui, avevano dovuto seguire l’esercito imperiale in Tirolo); imporre loro di predicare durante la messa in favore del sì; impedire che i contadini votassero in sezioni troppo piccole dove potessero sentirsi di casa, cioè al sicuro e non sufficientemente condizionati dal regime. Il contadino illetterato soggiaceva poi ad un’ulteriore pressione, costretto com’era a farsi scrivere il voto dal padrone risorgimentale, sotto i cui occhi doveva esprimersi per il sì o per il no. La piena pubblicità dei suffragi rende inutile lo spoglio finale delle schede e in alcuni centri il personale del seggio conclude le operazioni di voto e il relativo protocollo al grido di “Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja”. Il quesito fu più o meno il medesimo in tutte le province annesse: “Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti?” Naturalmente i suffragi per il sì raggiunsero picchi (poteva essere diversamente?) mai più toccati neppure da Stalin: chi può credere che il 99,99% dei veneti coltivasse sinceri sentimenti unitari e che solo un elettore su diecimila celasse simpatie per l’Impero, quando ancora il giorno innanzi la battaglia di Custoza la popolazione veronese accorreva in massa per le strade a ristorare le truppe di Francesco Giuseppe stremate dal caldo e dalla fatica? A Napoli l’unanimità del voto fu garantita dai bastoni dei camorristi, chiamati dai liberali a sostenere il nuovo governo, a forza di violenze e corruzione. Garibaldi e risorgimentali si divertirono andando a votare più volte e le modalità del voto scandalizzarono i pur benevoli osservatori stranieri. A Roma dopo l’ingresso delle truppe sabaude il 20 settembre, il 2 ottobre 1870, giorno fissato per il plebiscito, si ripeterono le stesse scene già viste altrove. Sinistri personaggi che votavano più volte in seggi diversi; drappelli di teppisti non meno sinistri che stazionavano presso i seggi, offrendo ai votanti le due schede col sì e col no. Naturalmente la patriottica masnada applaudiva freneticamente chi prendeva la prima scheda, mentre erano fischi e ingiurie per chi osava pigliare la seconda, manifestando così il suo coraggio. Pur essendo del tutto scontato l’esito della (truccatissima) consultazione, i liberali in segno di giubilo suonano a distesa la grande campana del Campidoglio e il giorno seguente violano la reggia pontificia del Quirinale e la occupano, scassinano le porte con l’aiuto di alcuni fabbri, sfrattando con mala grazia due cardinali.Gli antisabaudi e chi votava no se la vedeva brutta: a Napoli un contadino gridò Viva Francesco II! e fu ucciso all’istante. Nel trevigiano un tale Angelo Tempesta osa gridare Evviva l’Austria! e subito è arrestato e incarcerato a Castelfranco. D’altra parte la stampa del regime liberal-massonico, spuntata un po’ ovunque e tutta al soldo dei nazionalisti, l’aveva scritto a chiare lettere: “Chi dice SÌ mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio dell’Italia. Chi dice NO fa prova d’anima di schiavo nato al bastone croato. Il SÌ, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, con la gioja nell’anima, con la benedizione di Dio! Il NO, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria! ”Naturalmente i verbali dei risultati e le schede sparirono subito e già nel 1903 non si trovavano più né presso le preture né presso i municipi. Vediamoli comunque questi risultati truccati, regione per regione. I. Toscana (11-12 marzo 1860): SÌ 566.571. NO 14.925. Annessionisti: 97,43 % Contrari: 2,56 % II. Parma, Modena e Romagne (11-12 marzo 1860): SÌ 426.006. NO 756. Annessionisti: 99,82 % Contrari: 0,17 % III. Napoli e province (21 ottobre 1860): SÌ 1.302.064. No 10.512. Annessionisti:99,19 % Contrari: 0,80 % IV. Sicilia (21 ottobre 1860): SÌ 432.053. No 667. Annessionisti: 99, 84 % Contrari: 0,15% V. Marche (4-5 novembre 1860): SÌ 133.807. NO 1212. Annessionisti: 99,10 %Contrari: 0,89% VI. Umbria (4-5 novembre 1860): SÌ 97.040. NO 380. Annessionisti: 99,60 % Contrari: 0,39 % VII. Veneto, Mantova e Udine (21-22 ottobre 1866): SÌ 641.758. NO 69.Annessionisti: 99,98 % Contrari: 0,01 % VIII. Roma e Lazio (2 ottobre 1870): SÌ 133.681. NO 1507. Annessionisti: 98,88% Contrari: 1,11 % Ma ammesso (senza concederlo) che i plebisciti si fossero svolti in maniera del tutto regolare, vi è un argomento giuridico contrario ancora più forte: i vari decreti di annessione furono emanati dal governo subalpino sul presupposto che le province inglobate nel regno sardo si erano offerte a Vittorio Emanuele (lasciamo stare ora quanto spontaneamente) e che questi aveva dovuto accettarle. Ma chi può offrire ciò che non gli appartiene? E se è giusto non riconoscere neppure ai popoli toscano, emiliano, romagnolo ecc. la cosiddetta autodeterminazione, la quale è dottrina liberale conseguente all’infausto principio della sovranità popolare, parto velenoso della rivoluzione francese, in forza del quale la metà più uno fa la verità e il potere proviene non già da Dio bensì dal basso, ebbene quale legittimazione ad unirsi al Piemonte e a disporre di ciò che loro non apparteneva potevano mai avere quattro settari che con l’inganno e con la violenza avevano usurpato le legittime Autorità degli antichi Stati italiani? Senza dire che sia i preliminari di Villafranca dell’11 luglio 1859, sia il trattato di Zurigo (10 novembre 1859) che poneva fine alla seconda guerra risorgimentale, conservavano interi i loro Stati ai Duchi di Parma, di Modena e al Papa. D’altra parte, ammoniva Pio IX, “è noto all’universo mondo come in questi luttuosi tempi, gl’infestissimi nemici della Chiesa e di questa Santa Sede, resi abominevoli nei loro disegni e parlanti menzogna nella loro ipocrisia, conculcando ogni diritto umano e divino, si sforzino iniquamente di spogliarla del civil Principato, di cui essa gode; e ciò procaccino di conseguire […] con moti popolari, maliziosamente eccitati […]. In queste subdole e perverse macchinazioni, che Noi lamentiamo, ha parte precipua il Governo subalpino; dal quale oggimai tutti sanno quanto gravi e quanto deplorevoli offese e danni furono recati in quel regno alla Chiesa, a’ suoi diritti ed a’ suoi ministri”. E qualche anno più tardi, dopo il sacco e l’occupazione militare piemontese di Roma, aggiungeva: “quel Governo, seguendo i consigli rovinosi delle sètte, ha compiuto contro ogni diritto, con la forza delle armi, la sacrilega invasione già da gran tempo premeditata di questa Nostra alma città e delle altre città che Ci erano rimaste dopo la precedente usurpazione.” “Dalla stessa enormità del delitto veniamo tratti a sperare che finalmente sorgerà Dio e giudicherà la sua causa; tanto più vedendo essere Noi privi d’ogni umano soccorso per opporci a sì gran male”.L’augurio del Beato Pio IX, formulato in quel tempestoso 1870 lo facciamo nostro, affinché l’alba del terzo millennio, secondo le promesse della Santa Vergine a Fatima, conosca la restaurazione e il trionfo della Chiesa e della Tradizione Cattolica su tutti i nemici. Maurizio G. Ruggiero
I PLEBISCITI (truffa)
Per legittimare l’annessione militare sabauda degli antichi Stati italiani, che si voleva sottrarre con la forza al governo dei legittimi Prìncipi, amatissimi dalle rispettive popolazioni, il Gabinetto di Torino, massoni e la minoranza liberale nelle province occupate orchestrarono diversi plebisciti, ai quali per le modalità con cui avvennero le consultazioni ben s’addice la definizione di plebisciti-truffa. Il plebis scitum (decreto della plebe) antica fonte del diritto della Roma antica, fu riportato in onore prima da Napoleone I e in seguito dal nipote Napoleone III, in entrambi i casi per legittimare i rispettivi colpi di Stato del 1799 e del 1851. In proposito giova ricordare che in età moderna “non si dà esempio di un plebiscito il quale riuscisse contrario a coloro che lo proposero”. La Lombardia fu piemontesizzata nel 1859, al tempo della seconda guerra risorgimentale, senza celebrazione di plebisciti: a mano a mano che le truppe imperiali si ritiravano, i municipi lombardi, incalzati ad adeguarsi dalla fazione liberale e dai sopraggiungenti eserciti franco-piemontesi, si pronunziavano per Vittorio Emanuele, e questi, con propri decreti, iniziava a governare le nuove province. I plebisciti risorgimentali chiamarono alle urne (dal 1860 al 1870) solo una minima percentuale della popolazione (il 19% a Napoli, fino ad un massimo del 26% in Veneto); in secondo luogo si svolsero senza la minima garanzia d’imparzialità e segretezza, senza nessuna supervisione internazionale, indetti e gestiti dall’occupante piemontese, sotto il suo diretto controllo militare e poliziesco, in un clima di propaganda giornalistica asfissiante in favore dell’annessione e d’intimidazione continua specie nei riguardi del clero cattolico. In Toscana, ad esempio, dal Ricasoli fu vietata la libertà di stampa e di parola a chi non era del partito piemontese fino alla sera del giorno che precedette le votazioni; impossibile naturalmente in così breve giro di ore mettere in piedi giornali o comitati per il no; a differenza dei fautori del no, che erano o esiliati o incarcerati, i liberali poterono organizzare comitati per l’annessione in ogni Comune e inviare in ognuno una trentina di uomini armati per atterrire i contadini, minacciati dai padroni liberali di licenziamento dalle loro terre, se si fossero pronunziati per l’amato Granduca. Per parte sua la stampa risorgimental-massonica dichiarava reo di morte chi non avesse votato per l’annessione. I tipografi toscani furono diffidati dallo stampare scritti contrari all’annessione e “avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato”. Stesso cliché nelle Legazioni (Bologna, Ferrara e Romagne) che furono strappate al Papa dopo che i liberali vi avevano artatamente provocato rivolte per offrire al Governo piemontese un facile pretesto per ingerirsi e imporvi i suoi Commissari regi. Anche qui s’indisse il plebiscito per la loro annessione al regno sardo e anche qui “estorto contro ogni diritto un suffragio popolare a forza di pecunia, di minacce, di terrore e d’altri astuti artifici, [il Governo di Torino] non dubitò punto d’invadere le menzionate Nostre province, di occuparle e ridurle in sua potestà e signoria. Vengono meno le parole per riprovare condegnamente tanto delitto, nel quale solo si comprendono misfatti molti e gravissimi”. Nell’ex Ducato estense e nella città di Ferrara in particolare, parecchi giorni prima del voto la polizia perquisì le abitazioni di molti sudditi fedeli al Santo Padre; si sprecarono le stampe empie contro il Papa; i preti venivano minacciati di morte col pugnale; le guardie civiche ebbero l’ordine di distribuire alle singole case le schede in favore dell’annessione in numero dieci volte maggiore rispetto a quelle con le quali si sarebbe optato per lo Stato della Chiesa; i poveri e i deboli furono minacciati qualora non si fossero manifestati col loro voto per il Piemonte e così pure fecero fattori e possidenti con i loro contadini e operai, minacciati di licenziamento; gli artigiani furono comprati con un po’ di denaro, vino e acquavite; furono poi “in gran numero coloro che prezzolati o comparvero più volte o in una volta deposero più schede”; il Rettore dell’Università ammonì i suoi studenti che mancare al sì era mostrarsi traditori della patria e si recò insieme con loro alle urne per suffragare i Savoia. I vari commissari o dittatori regi, che nel nome di Vittorio Emanuele II reggevano le province allora definite redente, fecero a gara affinché l’esito della consultazione risultasse appunto il più plebiscitario possibile, talvolta anche a prezzo del ridicolo. L’imposizione del voto palese e le sfacciate pressioni esercitate sugli elettori acquistarono un particolare profilo di gravità, anche internazionale, in Veneto. Infatti il trattato di Vienna del 3 ottobre 1866 poneva fine alla terza guerra risorgimentale: l’Impero, pure vincitore sul nazionalismo sabaudo sui campi di Custoza e nelle acque dell’Adriatico a Lissa, cedeva le terre venete (chiamate dall’Arciduca Alberto nel suo proclama alle truppe “la più bella gemma della Corona del Nostro Augusto Monarca” non ai Savoia, ma alla Francia di Napoleone III, cessione alla quale l’Impero era costretto dalla sconfitta subita dai Prussiani a Sadowa, il 3 luglio 1866. Il trattato di Vienna disponeva testualmente che la cessione del Veneto (con Mantova e Udine) dovesse aversi “sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate” e per fingere di rispettare le clausole di quel trattato, il decreto sabaudo sull’organizzazione del plebiscito veneto, prevedeva agli artt. 5 e 9-12 il suffragio a scrutinio segreto, la suggellatura dell’urna da parte del seggio e lo spoglio dei voti da effettuarsi dal Pretore, che avrebbe dovuto conservare gli atti nell’archivio, redigerne verbale da trasmettere alla Presidenza del Tribunale d’Appello di Venezia, la quale a sua volta doveva comunicare i risultati parziali spogliati al Ministro della Giustizia. Come avvennero in realtà le votazioni in Veneto e in tutte le altre regioni annesse? Ammessi al suffragio erano i ventunenni maschi (ma garibaldini, fuoriusciti politici e soldati risorgimentali votavano senza limiti d’età); erano invece esclusi i compromessi con la causa dell’Imperatore. Per comprarsi la complicità dei pubblici impiegati, questi furono conservati in servizio e gratificati dello stipendio con decorrenza retroattiva. In occasione del plebiscito toscano i patrioti offrivano in mano agl’illetterati e specie a chi non sapeva leggere la sola scheda del sì; a taluni davano ad intendere che era soltanto una richiesta per avere il pane ad un prezzo più conveniente; ad altri che vi era l’obbligo di deporre la scheda del sì nell’urna, sotto pena altrimenti di uno scudo di multa e di diversi giorni di carcere. Qualche analfabeta fu ingannato, assicurandolo che quel biglietto del sì voleva dire sì al ritorno del Granduca. Nei seggi, i pochi oppositori rimasti, i più recalcitranti venivano schiaffeggiati e minacciati di morte col pugnale alla gola. I teppisti dell’annessione si divertivano invece a votare in più seggi o a gettare nell’urna un bel mucchietto di schede ciascuno, oppure a votare sfruttando il nome di persone che sapevano ammalate o assenti o che si volevano astenere dal votare, ben consci che, quale estrema risorsa, sarebbe rimasto in ogni caso il broglio elettorale a trarli d’impaccio. Il povero elettore veneto o di altra regione, doveva anzitutto dichiarare le proprie generalità al seggio e sotto l’occhio vigile dei nazionalisti risorgimentali, portare al Presidente del seggio una delle due schede che gli venivano offerte: o quella con il sì o quella con il no. La scheda veniva depositata in una delle due urne separate, una per il sì e l’altra per il no, in modo da rendere perfettamente palese l’espressione della volontà di chi votava sia al seggio sia a tutti i presenti, esponendo automaticamente il temerario oppositore dell’unità sabauda ad ogni genere di ritorsioni e di vendette. Il nome dell’elettore che votava no veniva segnato in un registro diverso e separato da quello su cui venivano annotati i nomi di quelli che si erano espressi per il sì. Per meglio assicurare la pubblicità del voto e il controllo dei riottosi, in talune località si giunse addirittura a colorare diversamente le schede del sì da quelle del no. La sala adibita a seggio traboccava di scritte inneggianti all’unità e i nazionalisti giravano fregiandosi della scritta sì sul cappello. Per sorvegliare il ceto contadino e i sacerdoti si era provveduto a: intimidire i parroci (quelli che erano rimasti, giacché alcuni, come l’arciprete di Cerea, nel veronese, per sfuggire alle violenze degl’iniqui, avevano dovuto seguire l’esercito imperiale in Tirolo); imporre loro di predicare durante la messa in favore del sì; impedire che i contadini votassero in sezioni troppo piccole dove potessero sentirsi di casa, cioè al sicuro e non sufficientemente condizionati dal regime. Il contadino illetterato soggiaceva poi ad un’ulteriore pressione, costretto com’era a farsi scrivere il voto dal padrone risorgimentale, sotto i cui occhi doveva esprimersi per il sì o per il no. La piena pubblicità dei suffragi rende inutile lo spoglio finale delle schede e in alcuni centri il personale del seggio conclude le operazioni di voto e il relativo protocollo al grido di “Viva l’Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja”. Il quesito fu più o meno il medesimo in tutte le province annesse: “Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti?” Naturalmente i suffragi per il sì raggiunsero picchi (poteva essere diversamente?) mai più toccati neppure da Stalin: chi può credere che il 99,99% dei veneti coltivasse sinceri sentimenti unitari e che solo un elettore su diecimila celasse simpatie per l’Impero, quando ancora il giorno innanzi la battaglia di Custoza la popolazione veronese accorreva in massa per le strade a ristorare le truppe di Francesco Giuseppe stremate dal caldo e dalla fatica? A Napoli l’unanimità del voto fu garantita dai bastoni dei camorristi, chiamati dai liberali a sostenere il nuovo governo, a forza di violenze e corruzione. Garibaldi e risorgimentali si divertirono andando a votare più volte e le modalità del voto scandalizzarono i pur benevoli osservatori stranieri. A Roma dopo l’ingresso delle truppe sabaude il 20 settembre, il 2 ottobre 1870, giorno fissato per il plebiscito, si ripeterono le stesse scene già viste altrove. Sinistri personaggi che votavano più volte in seggi diversi; drappelli di teppisti non meno sinistri che stazionavano presso i seggi, offrendo ai votanti le due schede col sì e col no. Naturalmente la patriottica masnada applaudiva freneticamente chi prendeva la prima scheda, mentre erano fischi e ingiurie per chi osava pigliare la seconda, manifestando così il suo coraggio. Pur essendo del tutto scontato l’esito della (truccatissima) consultazione, i liberali in segno di giubilo suonano a distesa la grande campana del Campidoglio e il giorno seguente violano la reggia pontificia del Quirinale e la occupano, scassinano le porte con l’aiuto di alcuni fabbri, sfrattando con mala grazia due cardinali.Gli antisabaudi e chi votava no se la vedeva brutta: a Napoli un contadino gridò Viva Francesco II! e fu ucciso all’istante. Nel trevigiano un tale Angelo Tempesta osa gridare Evviva l’Austria! e subito è arrestato e incarcerato a Castelfranco. D’altra parte la stampa del regime liberal-massonico, spuntata un po’ ovunque e tutta al soldo dei nazionalisti, l’aveva scritto a chiare lettere: “Chi dice SÌ mostra sentirsi uomo libero, padrone in casa propria, degno figlio dell’Italia. Chi dice NO fa prova d’anima di schiavo nato al bastone croato. Il SÌ, lo si porta all’urna a fronte alta, sotto lo sguardo del sole, con la gioja nell’anima, con la benedizione di Dio! Il NO, con mano tremante, di nascosto come chi commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria! ”Naturalmente i verbali dei risultati e le schede sparirono subito e già nel 1903 non si trovavano più né presso le preture né presso i municipi. Vediamoli comunque questi risultati truccati, regione per regione. I. Toscana (11-12 marzo 1860): SÌ 566.571. NO 14.925. Annessionisti: 97,43 % Contrari: 2,56 % II. Parma, Modena e Romagne (11-12 marzo 1860): SÌ 426.006. NO 756. Annessionisti: 99,82 % Contrari: 0,17 % III. Napoli e province (21 ottobre 1860): SÌ 1.302.064. No 10.512. Annessionisti:99,19 % Contrari: 0,80 % IV. Sicilia (21 ottobre 1860): SÌ 432.053. No 667. Annessionisti: 99, 84 % Contrari: 0,15% V. Marche (4-5 novembre 1860): SÌ 133.807. NO 1212. Annessionisti: 99,10 %Contrari: 0,89% VI. Umbria (4-5 novembre 1860): SÌ 97.040. NO 380. Annessionisti: 99,60 % Contrari: 0,39 % VII. Veneto, Mantova e Udine (21-22 ottobre 1866): SÌ 641.758. NO 69.Annessionisti: 99,98 % Contrari: 0,01 % VIII. Roma e Lazio (2 ottobre 1870): SÌ 133.681. NO 1507. Annessionisti: 98,88% Contrari: 1,11 % Ma ammesso (senza concederlo) che i plebisciti si fossero svolti in maniera del tutto regolare, vi è un argomento giuridico contrario ancora più forte: i vari decreti di annessione furono emanati dal governo subalpino sul presupposto che le province inglobate nel regno sardo si erano offerte a Vittorio Emanuele (lasciamo stare ora quanto spontaneamente) e che questi aveva dovuto accettarle. Ma chi può offrire ciò che non gli appartiene? E se è giusto non riconoscere neppure ai popoli toscano, emiliano, romagnolo ecc. la cosiddetta autodeterminazione, la quale è dottrina liberale conseguente all’infausto principio della sovranità popolare, parto velenoso della rivoluzione francese, in forza del quale la metà più uno fa la verità e il potere proviene non già da Dio bensì dal basso, ebbene quale legittimazione ad unirsi al Piemonte e a disporre di ciò che loro non apparteneva potevano mai avere quattro settari che con l’inganno e con la violenza avevano usurpato le legittime Autorità degli antichi Stati italiani? Senza dire che sia i preliminari di Villafranca dell’11 luglio 1859, sia il trattato di Zurigo (10 novembre 1859) che poneva fine alla seconda guerra risorgimentale, conservavano interi i loro Stati ai Duchi di Parma, di Modena e al Papa. D’altra parte, ammoniva Pio IX, “è noto all’universo mondo come in questi luttuosi tempi, gl’infestissimi nemici della Chiesa e di questa Santa Sede, resi abominevoli nei loro disegni e parlanti menzogna nella loro ipocrisia, conculcando ogni diritto umano e divino, si sforzino iniquamente di spogliarla del civil Principato, di cui essa gode; e ciò procaccino di conseguire […] con moti popolari, maliziosamente eccitati […]. In queste subdole e perverse macchinazioni, che Noi lamentiamo, ha parte precipua il Governo subalpino; dal quale oggimai tutti sanno quanto gravi e quanto deplorevoli offese e danni furono recati in quel regno alla Chiesa, a’ suoi diritti ed a’ suoi ministri”. E qualche anno più tardi, dopo il sacco e l’occupazione militare piemontese di Roma, aggiungeva: “quel Governo, seguendo i consigli rovinosi delle sètte, ha compiuto contro ogni diritto, con la forza delle armi, la sacrilega invasione già da gran tempo premeditata di questa Nostra alma città e delle altre città che Ci erano rimaste dopo la precedente usurpazione.” “Dalla stessa enormità del delitto veniamo tratti a sperare che finalmente sorgerà Dio e giudicherà la sua causa; tanto più vedendo essere Noi privi d’ogni umano soccorso per opporci a sì gran male”.L’augurio del Beato Pio IX, formulato in quel tempestoso 1870 lo facciamo nostro, affinché l’alba del terzo millennio, secondo le promesse della Santa Vergine a Fatima, conosca la restaurazione e il trionfo della Chiesa e della Tradizione Cattolica su tutti i nemici. Maurizio G. Ruggiero