Un popolo distrutto

IL CONFORMISTA BENIGNI AL FESTIVAL DELLA MENZOGNA ITALIANA


Memorabile, come l'aggettivo che ha utilizzato fino allo sfinimento durante il suo show a Sanremo. Stiamo parlando ovviamente di Roberto Benigni, il popolare comico toscano di Castiglion Fiorentino che dal palco dell'Ariston ha intrattenuto al grido di “Viva l'Italia” poco meno di 20 milioni di telespettatori. Osannato da tutti per la sua interpretazione (non sono mancati i complimenti anche da parte del Presidente della Repubblica), il toscanaccio nazionale con la sua solita passionalità ha tentato di unire gli italiani intorno alla sacralità del processo unitario. Si può affermare che l'intento è riuscito, a prezzo ancora una volta della verità storica. Non me ne vogliano i fan sfegatati dell'attore, regista e sceneggiatore: non mi interessa discutere la bravura presunta o meno del personaggio, nè intendo affrontare la questione del compenso percepito dall'artista per la sua performance. Trovo doveroso però far notare la serie di falsità e bugie - queste sì memorabili - trasmesse in diretta nazionale da mamma Rai. 
Nulla di nuovo o inedito, sia chiaro, si tratta del solito repertorio retorico risorgimentale che tanto dà il voltastomaco. Benigni è solo uno dei tanti ad aver prestato la propria credibilità e la propria dignità affinché la storia scritta dai vincitori e insegnata sui banchi di scuola continui a non essere messa in discussione. Ma fino a quando ci si ostinerà a voler creare un sentimento nazionale unitario basandosi sulla menzogna, si continuerà al contrario ad alimentare i separatismi e si impedirà all'Italia di fare i conti con il proprio passato, lasciando sempre di più incancrenire la ferita originaria. Il Risorgimento, ben lungi dal rappresentare “le nostre radici”, fu sostanzialmente una campagna di conquista da parte del Piemonte. E solo un ignorante, o un bugiardo, può sostenere che si trattò di un sollevamento che venne dal basso, dal volgo. In realtà l'unificazione dell'italica penisola fu decisa e pianificata a tavolino nelle alte sfere della politica (massonica) internazionale. La “liberazione dei popoli oppressi” è semplicemente propaganda di guerra spacciata per verità storica. Ho trovato semplicemente ridicolo l'elogio di Casa Savoia, dipinta come la dinastia reale più gloriosa d'Europa. Classica la citazione di Vittorio Emanuele II, il re galantuomo che di galante in realtà non aveva nulla. Parlava e pensava in dialetto torinese, si arrangiava con il francese e con l'italiano (orale, s'intende, perché a scrivere era in seria difficoltà). Considerava lo studio una perdita di tempo e i libri lo innervosivano. Le sue inclinazioni erano primitive, quasi animalesche. Fu un amatore instancabile, si hanno notizie di almeno una decina di figli illegittimi tanto che circolava tra la gente il detto scherzoso che egli fosse “fin troppo il padre del suo popolo”. Si racconta che, dovendo partire per Parigi e tutto eccitato dalla notizia che le parigine non portavano le mutande, lacerato dal dubbio se fosse vero bisbigliò all'orecchio dell'imperatrice Eugenia chiedendo conferma. Le cronache dell’epoca riportano, inoltre, che la regina d’Inghilterra fu costretta ad aprire le danze con lui stando per tutto il tempo con il collo storto per non essere investita in pieno “dalla puzza di mal lavato e di sigaro” che usciva dalla giacca del sovrano del Piemonte. Nei salotti internazionali era considerato un vero e proprio barbaro. Il festival della retorica è proseguito poi con la doverosa menzione di Camillo Benso di Cavour, insignito del titolo di più grande statista italiano. Descritto come politico disinteressato, in realtà il caro conte, alfiere del liberismo assoluto di stampo inglese, era il maggiore azionista della “Società Anonima Molini Anglo-Americani” di Collegno, il più grande ente privato granario della penisola. E nel 1853, col raccolto scarso e la fame che infuriava, mentre i principati “oppressori” vietarono l’esportazione dei grani per nutrire le proprie popolazioni, il Piemonte la consentì, così che i produttori locali poterono realizzare forti profitti dalle esportazioni del prodotto rincarato. Numerosi disordini avvennero davanti all’abitazione di Cavour, e furono stroncati dalla polizia e dall'esercito a fucilate. Un deputato dell'epoca (Angelo Brofferio) accusò indegnamente il nostro eroe: “Sotto il governo del conte di Cavour ingrassano illecitamente i monopolisti, i magazzinieri, i borsaiuoli, gli speculatori, mentre geme e soffre l’universalità dei cittadini sotto il peso delle tasse e delle imposte”, non mancando di far notare il conflitto d’interessi dovuto alle sue attività di “magazziniere di grano e di farina”. Taccio per amor di patria su Garibaldi, il ladro di cavalli che portava i capelli lunghi per nascondere le mutilazioni alle orecchie (all'epoca in Argentina non si usavano tanti riguardi nei confronti dei delinquenti). Taccio e concludo qui il discorso, che potrebbe continuare a lungo, tra fitti intrecci di vicende ignobili cancellate dalla memoria e relegate nell'oblio: l'Italia ancor non s'è desta.Antonio Schiavone da  http://www.ilgazzettinolocale.com