I Borbone persero il regno, perché non erano più in grado di conservarlo, e Garibaldi e i suoi furono gli "eroici" protagonisti di un’impresa eroica (?). E va bene. Ma che i metodi con cui i piemontesi realizzarono l’unificazione facessero pensare più a una occupazione che a una liberazione, lo sospettarono gli osservatori stranieri, lo dissero ufficiali e soldati dell’esercito piemontese, lo dimostrarono le stragi di Gioia del Colle, di Teramo, di Casalduni, di Pontelandolfo. Lo dimostrò l’eccidio di Somma. Il 22 luglio 1861 una compagnia di bersaglieri, comandata dal capitano Federico Bosco, conte di Ruffina, entrò in Somma, alla caccia di briganti e di manutengoli della banda Barone. I bersaglieri arrestarono otto persone, con l’ accusa di “compromissione“ con i briganti: è probabile che i loro nomi fossero forniti al Bosco dal Dicastero di Polizia. In seguito, davanti al Tribunale Militare di Torino, il generale Genova di Revel dichiarò che nella notte tra il 22 e il 23 il capitano aveva tenuto un consiglio di guerra con le autorità civili e militari di Somma, e con il Giudice regio, e che la sentenza di condanna a morte era stata unanime. Il che non era del tutto vero. Già il 24, poche ore dopo l’eccidio, il Giudice Regio trasmise al Procuratore Generale della Gran Corte Criminale una dura protesta contro l’ufficiale che aveva fatto fucilare gli arrestati senza avvertire gli organi di Giustizia. Il 23 luglio 1861, alle ore 15, al largo Mercato, vennero passati per le armi Francesco Mauro, Saverio Scozio, Angelo Granato, Giuseppe Iervolino, Luigi Romano, Vincenzo Fusco. Don Felice Mauro, canonico della Collegiata, e un altro sacerdote, furono sottratti, all’ultimo momento, al plotone di esecuzione. In una nota ufficiale le autorità civili di Somma dichiararono che Granato e Iervolino erano stati sempre "veri liberali e attaccati all’unità italiana". Nessuno dei fucilati apparteneva alle famiglie compromesse con il brigantaggio, di cui i carabinieri e i giudici Fusco e Mezzacapo prepararono una lista completa nell’agosto del ’61. In nome dell’idea di unità nazionale, i democratici napoletani sostennero incondizionatamente il Luogotenente Generale Enrico Cialdini, che mandò sotto processo il Bosco solo per le pressioni della stampa estera. Quando l’on. Ricciardi, comprendendo che non si poteva più tacere, chiese provvedimenti rapidi e severi contro i responsabili dell’eccidio di Somma, Cialdini rispose con una punta d’ironia: "In ogni modo, ella comprenderà, signor Conte, che essendosi stabilita un’inchiesta, può la coscienza pubblica rimanere tranquilla per il corso regolare della giustizia". Ma accadde quello che la coscienza pubblica temeva: il 30 novembre 1861 il Tribunale militare assolse Bosco di Ruffina, ritenendo provato che i sei sommesi messi al muro erano complici dei briganti. Ma fu un episodio, un incidente, si potrebbe obiettare: la storiografia è spesso una disciplina cinica, che mostra di aver pietà dei drammi degli individui, ma si consola argomentando che i casi dei singoli non intaccano la bontà dei principi generali. Gli esuli della "consorteria", Silvio Spaventa, Giuseppe Pisanelli, Nicola Nisco, Stanislao Mancini, tornati a Napoli, amministrarono la cosa pubblica e orientarono le scelte di politica interna.
L’ECCIDIO DI SOMMA VESUVIANA IN NOME DELL’UNITÀ D’ITALIA
I Borbone persero il regno, perché non erano più in grado di conservarlo, e Garibaldi e i suoi furono gli "eroici" protagonisti di un’impresa eroica (?). E va bene. Ma che i metodi con cui i piemontesi realizzarono l’unificazione facessero pensare più a una occupazione che a una liberazione, lo sospettarono gli osservatori stranieri, lo dissero ufficiali e soldati dell’esercito piemontese, lo dimostrarono le stragi di Gioia del Colle, di Teramo, di Casalduni, di Pontelandolfo. Lo dimostrò l’eccidio di Somma. Il 22 luglio 1861 una compagnia di bersaglieri, comandata dal capitano Federico Bosco, conte di Ruffina, entrò in Somma, alla caccia di briganti e di manutengoli della banda Barone. I bersaglieri arrestarono otto persone, con l’ accusa di “compromissione“ con i briganti: è probabile che i loro nomi fossero forniti al Bosco dal Dicastero di Polizia. In seguito, davanti al Tribunale Militare di Torino, il generale Genova di Revel dichiarò che nella notte tra il 22 e il 23 il capitano aveva tenuto un consiglio di guerra con le autorità civili e militari di Somma, e con il Giudice regio, e che la sentenza di condanna a morte era stata unanime. Il che non era del tutto vero. Già il 24, poche ore dopo l’eccidio, il Giudice Regio trasmise al Procuratore Generale della Gran Corte Criminale una dura protesta contro l’ufficiale che aveva fatto fucilare gli arrestati senza avvertire gli organi di Giustizia. Il 23 luglio 1861, alle ore 15, al largo Mercato, vennero passati per le armi Francesco Mauro, Saverio Scozio, Angelo Granato, Giuseppe Iervolino, Luigi Romano, Vincenzo Fusco. Don Felice Mauro, canonico della Collegiata, e un altro sacerdote, furono sottratti, all’ultimo momento, al plotone di esecuzione. In una nota ufficiale le autorità civili di Somma dichiararono che Granato e Iervolino erano stati sempre "veri liberali e attaccati all’unità italiana". Nessuno dei fucilati apparteneva alle famiglie compromesse con il brigantaggio, di cui i carabinieri e i giudici Fusco e Mezzacapo prepararono una lista completa nell’agosto del ’61. In nome dell’idea di unità nazionale, i democratici napoletani sostennero incondizionatamente il Luogotenente Generale Enrico Cialdini, che mandò sotto processo il Bosco solo per le pressioni della stampa estera. Quando l’on. Ricciardi, comprendendo che non si poteva più tacere, chiese provvedimenti rapidi e severi contro i responsabili dell’eccidio di Somma, Cialdini rispose con una punta d’ironia: "In ogni modo, ella comprenderà, signor Conte, che essendosi stabilita un’inchiesta, può la coscienza pubblica rimanere tranquilla per il corso regolare della giustizia". Ma accadde quello che la coscienza pubblica temeva: il 30 novembre 1861 il Tribunale militare assolse Bosco di Ruffina, ritenendo provato che i sei sommesi messi al muro erano complici dei briganti. Ma fu un episodio, un incidente, si potrebbe obiettare: la storiografia è spesso una disciplina cinica, che mostra di aver pietà dei drammi degli individui, ma si consola argomentando che i casi dei singoli non intaccano la bontà dei principi generali. Gli esuli della "consorteria", Silvio Spaventa, Giuseppe Pisanelli, Nicola Nisco, Stanislao Mancini, tornati a Napoli, amministrarono la cosa pubblica e orientarono le scelte di politica interna.