Un popolo distrutto

Napoli ai tempi di Masaniello


Nel Seicento lo spettacolo offerto dalla città era impressionante per la moltitudine, la vivacità e la sonorità che la animavano. Scrive il Capaccio “Vado per la città e oltre a gli arteggiani che assistono che sono innumerabili, oltre a quei che rimangono nell’habitationi,veggo per ogni strada, ogni vico, ogni cantone, tanta frequenza di popolo che mi urtano,mi calpestano e hò difficoltà di uscir di mezzo a loro. Vado nelle chiese dove si predica, che sono tante e le ritrovo pienissime di popolo, e per lacittà pare che non manchi alcuno. Vado ne i tribunali, è un miracolo veder tanta radunanza, e pur le strade non una o diece, ma tutte pienissime di gente a piedi, a cavallo, in carrozze, con un sussurro per tutto come fusse il bombo dell’api, sì che nessuna cosa mi è più difficile che l’andare attorno per Napoli; e vada pur dove si voglia, e in qualunque hora del giorno”.
Già nel corso del Cinquecento Napoli era diventata una enorme metropoli, e per la sua popolazione era inferiore nell’Europa occidentale solo a Parigi. Erano stati i privilegi della città ad attrarre tante persone da tutte le province del Regno. I cittadini napoletani potevano essere citati in giudizio solo a Napoli. Non pagavano le imposte dirette come gli altri abitanti del Regno ma solo imposte,tasse e gabelle comunali. Alla città era assicurato un costante e sufficiente rifornimento di grano per cui non si avvertiva il peso della carestia che frequentemente colpiva a quei tempi la popolazione. Il pane aveva un prezzo politico e non di mercato. Gli spagnoli avevano elargito questi privilegi perché avevano individuato nella città la chiave del controllo di tutto il paese:controllare e possedere Napoli significava controllare e possedere il Regno. Per questo motivo vi avevano concentrato l’amministrazione regia e fatto in modo che tutto il paese guardasse alla capitale come al centro dell’intera vita meridionale. L’aristocrazia delle province, in particolare il baronaggio, antagonista tradizionale della monarchia fu indotta, per dimostrare la propria lealtà politica, a trasferirsi nella capitale. Sorsero grandi palazzi nobiliari e lo stessoPalazzo Reale, che ospitava il viceré, fu ingrandito e reso tra i più imponenti dell’epoca. Nell’antica reggia normanna e sveva di Castel Capuano furono concentrati tutti i tribunali. La reggia angioina e aragonese di Castel Nuovo fu trasformata in una potente fortezza. Da questa fortificazione insiemea Castel dell’Ovo, il Torrione del Carmine e il Castello di S. Elmo la città era fortemente difesa contro i nemici esterni e anche contro le agitazioni e i disordini interni.         
L’eruzione del 1631 suscitò un’impressione fortissima nella città. Da secoli il vulcano non manifestava la sua potenza eruttiva. I danni subiti a seguito della attività vulcanica non furono lievi come evidenzia uno dei migliori cronisti napoletani dell’epoca Antonio Bulifon : ... la mattina osservato (16 dicembre 1631) fu dalla cima del monte alzarsi in aria densissima nube che, tortuosamente raggirandosi, tanto in alto s’ergea che non potea talora raffigurarsi dall’occhio. Si diffuse poscia e si sparse a poco a poco sopra lacittà in maniera che cangiò quel giorno, tutto che sereno fosse, in oscurissima notte. Vomitò alla fine dopo l’apertura d’una immensa voragine con tanta furia il monte torrenti di fiamme, di cenere e di pietre, che inondando tutto il paese, ne portarono seco con rapidissimo corso diciassette terre, tra le quali la Torre dell’Annunziata, quella del Greco, Bosco, Nola, Resina, Portici, Somma Ottaviano, Marigliano, Aversa, Pomigliano d’Arco e molte altre vicine, con una gran quantità d’alberghi ed abitanti".  Fu ancora Bulifon a ricordare nel maggio 1639 la morte di Tommaso Campanella, che dopo 27 anni passati in prigione a Napoli per la rivolta organizzata in Calabria nel 1599, divenuto nemico della monarchia spagnola da lui in un primo tempo esaltata, si era rifugiato in Francia acquistandovi prestigio culturale e politico.
Un altro evento importante per la città fu senza dubbio la rivolta del 7 luglio 1647. La pressione fiscale e il costo della vita furono alla base della rivolta; altri motivi concorsero alla ribellione: l’avversione al peso feudale, il tentativo di rovesciare il rapporto di forza con il baronaggio, la secolare contesa tra il Popolo e la Nobiltà della città di Napoli, il disorientamento della nobiltà, il disagio dell' apparato amministrativo, varie correnti di avversione alla Spagna tra cui la Chiesa che cercò di rinforzare i propri privilegi giurisdizionali. Masaniello rimase sulla scena  della rivolta per dieci giorni; il 17 luglio egli moriva e con lui la giovane rivoluzione. Il suo nome rimase come emblema di quel movimento e fu il nome napoletano più noto nel Seicento e nel Settecento. La peste del 1656 fu senza dubbio una delle catastrofi più grosse chela città ha dovuto subire. Narra il Parrino “Ma vi voleva altro, che Lazzaretto, per ricevere tutti gli infermi della Città; e nel mentovato di San Gennaro for delle mura, dove s’erano preparat icinquecento letti, v’entrarono in due giorni mille, e cinquecento ammalati. Così fu necessario prendere tutte le case di quella valle,ed empiere non solamente tutti gli Spedali, ma aprirne due altri... Riuscirono però vani questi disegni; con cio sia cosa chè attaccata si la pestilenza non solamente in tutti i quartieri, ma in tutte le case della Città, con morte d’otto, e diecimila persone al giorno, si vide Napoli in un momento ridotta in un miserabile Lazzaretto, in un’orribile cimiterio”. Napoli avrebbe impiegato molto tempo a ripopolarsi. Il livello del 1630 non fu raggiunto che due secoli dopo. La ripresa economica non fu meno difficile; più rapidamente si sviluppò una nuova fioritura culturale che avrebbe accompagnato la città già nella seconda metà del Seicento. Copre quasi tutto l’arco del Seicento la vita di Domenico Gargiulo, detto Micco “Spadaro” dal mestiere del padre, fabbricante d’armi. Nacque a Napoli nel1609/1610. Non sono numerosi i dati cronologici e le opere documentate, la maggior parte delle notizie sulla sua vita sono ricavate dalla vivace biografia che gli dedicò, nel 1744, Bernardo De Dominici. Alla fine degli anni Trenta, cacciato da casa per non aver voluto proseguire il mestiere del padre, Gargiulo riuscì ad entrare con l’aiuto di Carlo Coppola, che aveva ammirato la sua valenza di disegnatore, nella bottega di Aniello Falcone, frequentata da altri giovani artisti, Paolo Porpora, Andrea de Lione e per un breve periodo da Salvator Rosa. In quella bottega studiò lei ncisioni di Stefano Della Bella e Jacques Callot presenti nella ricca collezione del Falcone, appropriandosi soprattutto del modo particolare di realizzare le figurine abbozzate e le affollate composizione del maestro francese. L’incontro con il giovane Salvator Rosa servì per affrontare la pittura di paesaggio o meglio la ripresa dal vero di ”paesie marine”. Nel 1639 S. Rosa lasciò Napoli “trascinato dalla mania classicista e dal gusto scenografico” allontanandosi dalla precedente impostazione di questo genere artistico. Spadaro, invece, proseguì su questa via, informandosi su quanto in quegli anni veniva praticato a Roma. Risale, infatti, a quel periodo, l’approccio alla pittura dei bamboccianti romani e dei paesaggisti nordici e francesi attivi aRoma negli anni ’20 e ’30 e presenti con i loro quadri nelle grandi raccolte private napoletane, dai paesaggisti italiani, francesi e nordici. Spadaro diventa ben presto un riferimento cruciale quanto a “scene di genere“ paesaggi e vedute; nelle sue opere traspaiono una moderna concezione naturalistica dellospazio, un contatto diretto con la realtà. Lunga fu la collaborazione con un altro artista dell’epoca Viviano Codazzi. L’artista bergamasco, pittore di architetture ed originale innovatore nel settore, lavorò a Napoli per oltre dieci anni dal 1634 al 1647, ebbe occasione di apprezzare “...con maraviglia le graziose figure che Domenico dipingeva la onde volle che ad alcune sue prospettive le figurine accordasse”. Le architetture di Codazzi furono animate ed esaltate dall’elegante intervento figurativo edalla finezza decorativa di Gargiulo. La Villa di Poggioreale, la Prospettiva di un circo romano e la Veduta di un tempio rotondo ne sono magnifica testimonianza. Gargiulo aggiungendo la parte figurativa e paesaggistica alle scenografie architettoniche del Codazzi inseriva in quelle composizioni il racconto di una ‘storia’. Nel 1638 venne chiamato dai monaci della Certosa di San Martino per affrescare il Coro dei Frati Conversi con storie bibliche e storie dei Certosini su finti arazzi inseriti in elementi architettonici dipinti. Il risultato è una decorazione che ricorda certi schemi tardomanieristi ma ricca di inventiva e di originalità. Nella lunetta sopra l’ingresso raffigurante Mosè chefa scaturire l’acqua dalla rupe si evidenzia il primo accostamento all’originale pittore tedesco Johann Heinrich Schönfeld presente a Napoli dal 1639 al1647. Si può parlare di una reciproca influenza dei due pittori, particolarmente evidente nei quadri realizzati dal Gargiulo negli anni ’40 e nei numerosi dipinti raffiguranti martirii di santi. Nel 1642 i Certosini di San Martino incaricarono il pittore di affrescare l’appartamento del Priore con scene sacre inseriti in ampi e splendidi paesaggi. La grande notorietà del Gargiulo è legata soprattutto ai dipinti raffiguranti fatti di cronaca napoletana della prima metà del Seicento. Pienamente consapevole e protagonista delle principali tendenze artistiche e culturali, si afferma, quale pittore di storie, attento illustratore e scrupoloso cronista di episodi legati alla realtà napoletana del proprio tempo. Sono opere incui a una meticolosa ricostruzione scenografica degli ambienti, che consentedi fruire di spazi ormai perduti, si unisce la vivace rappresentazione di una folla individuata in singole figurine attent ealle più disparate attività. Fra le opere più celebri, incredibilmente evocative, si ricordano L’eruzione del Vesuvio del 1631, la Rivolta di Masaniello e Piazza Mercatello durante la peste del 1656 opera, quest’ultima, che l’artista dipinse poco dopo la fine della pestilenza, durante la quale aveva trovato rifugio proprio dai monaci della Certosa di San Martino. Nell’Eruzione del Vesuvio del 1631 la processione che accompagnava il busto di San Gennaro è composta dal Viceré, dal Cardinale, dai prelati e dagli aristocratici, il popolo fittissimo assiste, affollando la piazza, i tetti e le terrazze “..in atto di penitenza con diverse bellissime azioni pietose implorare la Divina Misericordia”. Uno quadro della Revoluzione di mano di Spadaro: è questa, con tutta probabilità, la prima citazione del celeberrimo dipinto, ora a San Martino, rintracciato nell’ inventario dei beni del nobiluomo Giovanni Battista Capece Piscicelli redatto nel 1690. Ileana Creazzo, così inizia la descrizione di questa opera studiata per la fonte inesauribile di dati documentari sulla storia, la topografia ed il costume di Napoli nel periodo che va dal7 al 16 luglio 1647 quando Masaniello diventa “capitano generale del popolo”. Gargiulo intende dare testimonianza di questa vicenda racchiudendo nel breve spazio della tela l’ampia estensione di piazza Mercato, il Vesuvio sullo sfondo, una quinta di edifici tra cui si riconosce, sullo sfondo, come arringatore vestito ancora da popolano, e, al centro, ormai levatosi a protagonista della rivolta, riccamente abbigliato su un cavallo nero. Secondo un recente, articolato saggio di Christopher Marshall (1998) il dipinto non sarebbe stato concepito come una semplice descrizione di eventi né vi si riscontra un atteggiamento ironico e neppure, come accade invece nell’Eruzione del Vesuvio e nella Peste che spesso gli vengono affiancati, è previsto l’intervento divino che viene a salvare la città dal disastro. Un profondo significato politico pervaderebbe la tela di Gargiulo che certamente, come pittore, proveniva da quella classe media che espresse ideatori e fiancheggiatori della rivolta, ma lavorava per vari committenti aristocratici sicuramente nemici della rivoluzione. E le scene, le azioni sono infinite nella grande tela dedicata alla Peste del ’56, che l’artista dipinse poco dopo la fine della pestilenza. L’ambiente prescelto è largo del Mercatello, l’odierna piazza Dante, che trovandosi allora fuori della cinta urbana si prestava a cogliere, come in un lazzaretto a cielo aperto moribondi e cadaveri. I numerosi dipintiche Micco Spadaro realizza negli ultimi anni di attività costituiscono un corpus documentario imprescindibile sulla vita nel viceregno di Napoli durante la seconda metà del XVII secolo. Micco Spadaro morì a Napoli nel 1675. La produzione finale costituita da quadri di piccolo formato era rivolta a raffinati committenti privatie alla Corte del Viceré di Spagna.Carmine Negro