Un popolo distrutto

IL FOTOGRAFO DEI BRIGANTI


Il casertano Russi, fotografo di professione, servì l’esercito dal 1864 al 1870. Gli fu chiesto di riprendere i briganti nelle pose più svariate, ma anche di preparare bei ritratti di soldati e guardie nazionali. Bisognava far sapere fuori dalle zone infestate dalle bande che i ribelli erano rozzi criminali, violenti e crudeli. Che i soldati erano laggiù al servizio della civiltà, per assicurare il progresso e la vita delle persone per bene. Quale mezzo migliore della fotografia? Russi viene agevolato in ogni modo nel suo lavoro: mezzi di trasporto, segnalazioni in anteprima di imminenti arresti e fucilazioni. Documentò per tre volte i successi delle truppe di Pallavicini contro le bande Ciccone, Guerra, Fuoco e Giordano. Il generale che sconfisse definitivamente il brigantaggio utilizzava ogni moderno strumento per vincere la sua guerra. Anche le armi della propaganda. Era consapevole che la fotografia possedeva una sua forza deterrente e poteva valorizzare in maniera ineguagliata l’azione repressiva dei militari. (…)Russi, così come gli altri fotografi che lavoravano su incarico di prefetti e comandi militari, poteva riprendere non solo i briganti morti, ma anche quelli imprigionati in attesa di giudizio. Il loro lavoro, che doveva fissare la verità ufficiale di quella guerra, venne anche utilizzato per studi antropologici sulla natura e l’intelligenza di quei ribelli del Sud. Molte considerazioni «scientifiche» sulle tare ereditarie dei briganti, sulla loro predestinazione fisica alla crudeltà utilizzarono anche quelle immagini fotografiche riprese sul campo. Lo psichiatra Cesare Lombroso, insieme con il sociologo Alfredo Niceforo, scrisse a più riprese che «la ragione dell’inferiorità meridionale risiedeva in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale». [Nota nel testo originale: Pedio, Perché briganti][Gigi Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia]