Un popolo distrutto

Un paese di ricordi personali, mai condivisi.......


Intervista completa di Paolo Mereghetti allo storico Mario Isnenghi pubblicata il primo agosto sul “Corriere della Sera”, sul rapporto tra storia, memoria collettiva e ricordo individuale. Mario Isnenghi è lo storico italiano che forse più di tutti ha lavorato sul tema della memoria rispetto alla storia dell’Italia. Il tema, fondamentale per gli studiosi di storia, ma anche essenziale per la costruzione di un’identità nazionale, ci pare particolarmente interessante per cercare di comprendere il dibattito culturale e politico sviluppatosi in questi giorni attorno alla celebreazioni per 150° anniversario dell’Unità d’Italia.È vero che l’Italia è un paese senza memoria?«Lo è il Paese-Italia, l’insieme, la collettività. Ma al plurale, se ci spostiamo ai frammenti, le memorie invece pullulano, si rigenerano o semplicemente si inventano, confliggendo o ignorandosi reciprocamente. E così oggi, al mercato delle parole, la “memoria” tira: memorie di valle e di quartiere, al servizio di assessorati e pro loco, a ciascuno la sua memoria, che, essendo “sua”, è insindacabile. Perciò, francamente, no, non credo affatto che questo punto il problema sia quello che poteva apparire nei primi anni Novanta, cioè l’azzeramento delle memorie. Anzi il problema è divenuto quello dell’affollamento, un affollamento che determina irrilevanza, autoreferenzialità, cacofonia. L’effetto di questo sovrappiù di soggettività rammemoranti e commemoranti – ognuna a se stessa – si ritorce in assenza, indisponibilità, indifferenza a una memoria comune: che sarebbe poi, nel nostro caso, quella chiamata ad avvicinarsi il più possibile alla storia d’Italia».Quali sono le cause di questo appannamento della memoria storica?«Se parlassimo un po’ più di storia, e un po’ meno di memorie? Voglio dire, parliamo di qualche cosa di più fattuale e meno fantastico nei percorsi di ciascuno. Il punto è che – se fai storia – incontri subito le ragioni che rendono difficile il costruirsi nel nostro Paese di una memoria, non dico addirittura “riconciliata” – come si pretenderebbe -, ma esito comune di un conflitto che ha coinvolto in diversa maniera tutti. Con la storia che ci ritroviamo, gli omissis della memoria sono una forma di sopravvivenza».C’è un modo per ricordare senza cadere nella retorica o nella propaganda?«Macché retorica, qui c’è semmai la retorica dell’antiretorica. Non mi pare che si “celebri” molto, per quanto riguarda i momenti forti e fondanti della storia. Non vediamo a ogni 4 novembre le cortorsioni a cui ci si condanna per non “ricordare e celebrare” la vittoria dell’Italia nella Grande Guerra? Qualcuno dirà che non si celebrano le stragi: magari ci fosse da “ricordare e celebrare” il rifiuto unanime alla guerra da parte del popolo nel 1915. Però non è andata così. E non essendo andata così, non sarebbe meglio ricordare la storia come è andata davvero? E riconoscere e far memoria di un avvenimento comunque straordinario e coinvolgente in cui il Paese tenne, nella prova più grande e perigliosa di tutta la sua storia?».Quali sono gli elementi della nostra storia nazionale che andrebbero assolutamente ricordati? e quali magari messi un po’ da parte se non proprio dimenticati?«Riassumo. La genesi dell’Italia unita: del Risorgimento stiamo sempre lì a lamentare le mancanze, ma assieme all’acqua sporca buttiamo via il bambino. Naturalmente fu una nascita contrastata, che come tale va ricordata, non furono rose e fiori. Fu un grande movimento e l’Europa civile restava attonita davanti al “popolo dei morti” che si risvegliava. Poi la strordinaria esperienza della Grande Guerra, da cui scaturì il Fascismo, ma non era scritto, portava dentro tante cose. Poi la guerra civile strisciante: l’Italia ha inventato il Fascismo e non se ne è liberata da sola, ma ha avuto la forza di contribuire al cambiamento con l’antifascismo e con la Resistenza. Ci fosse stata solo la “zona grigia”, avremmo perso – anche più di quanto sia avvenuto – la faccia, oltre che la guerra. Questi mi sembrano gli elementi minimi di un alfabeto civico comune. Su di essi si può tentare, con discrezione, di costruire una politica della memoria. Non vedo l’opportunità di una politica dell’oblio. Quello funziona – anche troppo – per conto suo».