Un popolo distrutto

Trattativa mafia-Stato «Borsellino lo sapeva glielo dissi a Bari»


PALERMO - Alla fine della sua autodifesa, evidentemente soddisfatto, si lascia andare e racconta del protagonista di un romanzo dei primi del '900, il soldato Schweik, militare austriaco, con evidenti deficit intellettivi, ufficialmente bollato dall’esercito come ebete notorio. «In quest’aula – ghigna Mario Mori, generale dell’Arma in pensione, accusato di avere trattato con la mafia all’epoca delle stragi del '92 – di ebeti notori ce ne è più d’uno». Un modo colorito per additare chi crede ancora a Massimo Ciancimino, suo grande accusatore. 
Tutto il suo intervento, ieri, era finalizzato a questo: distruggere la credibilità del figlio dell’ex sindaco mafioso, Vito Ciancimino (morto 8 anni fa), dimostrando che i documenti da lui consegnati ai Pm sono dei clamorosi falsi. Con tanto di «power-point» il generale ha cercato di smontare la verità del superteste, sostenendo che, attraverso magici taglia e incolla, ha inserito, in brani realmente scritti dal padre, parti estrapolate da altri manoscritti, sempre riconducibili a don Vito, stravolgendo il suo pensiero: una rappresentazione di grande effetto, la sua, che ha fatto passare in secondo piano la tanto attesa deposizione di Liliana Ferraro, ex direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia. Eppure la Ferraro, chiamata in via Arenula da Giovanni Falcone nel 1991, dal banco dei testi ha ribadito un dato importante per il processo: Paolo Borsellino sapeva che i carabinieri del Ros, di cui allora Mori era vicecomandante, stavano cercando di avvicinare l’ex sindaco, attraverso il figlio, per indurlo a collaborare. Era stata lei stessa a dirlo al magistrato il 28 giugno del 1992, meno di un mese prima della sua morte all’aero - porto di Bari. «L'avevo saputo da De Donno (ex braccio destro di Mori - n.d.r. ) una settimana prima – ha raccontato Ferraro – e gli avevo detto di parlarne con Borsellino. Cosa che feci io stessa». Ma Borsellino, non si sarebbe mostrato sorpreso della notizia e avrebbe detto alla donna: «me ne occupo io». Una reazione che cozza con la tesi investigativa secondo la quale il giudice si sarebbe opposto alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, i cui protagonisti sarebbero stati Mori e don Vito, e proprio per questo sarebbe stato ucciso. 
Dunque il dato certo è che Borsellino seppe dell’intenzione del Ros di contattare l’ex sindaco un mese dopo l’eccidio di Capaci. Mentre il generale ha sempre detto di avere avviato i colloqui con don Vito ad agosto del '92, dopo l’eccidio di via D’Amelio. «Ferraro non riferì al giudice di colloqui già avvenuti – replica la difesa di Mori, che non vede alcuna contraddizione tra le due verità – ma solo della volontà dei carabinieri di avvicinare un esponente di spicco di “Cosa nostra” per convincerlo a collaborare e fare cessare la stagione di sangue inaugurata da “Cosa nostra”». Sulla deposizione della Ferraro Mori fa un breve commento: «mai ebbe a manifestare perplessità o sfiducia sul Ros». La sua attenzione è tutta sulle manipolazioni dei documenti fatte da Massimo Ciancimino. Il generale fa vari esempi di quella che definisce «truffa» messa su dal dichiarante: uno per tutti la lettera che don Vito avrebbe scritto a Berlusconi. «Su di un foglio bianco sottostante, nella parte superiore, – spiega – è stato incollato l’indirizzo relativo a Berlusconi, avendo cura, nell’applicarvi anche il documento originario, di tagliare di netto l’estremità inferiore della pagina per farla restare nelle dimensioni del foglio, così provocando però l'eliminazione delle ultime quattro righe e quella parziale della quint'ultima». La parola ora passa ai periti chiamati a esprimersi sui documenti consegnati da Massimo Ciancimino: il 12 ottobre quelli del Pm, che non hanno notato nessuna manipolazione, si scontreranno in aula con quelli dei legali.Da http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it