BiRipenZiero

il lavoro educativo/1


“La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri.” (Taylor, 2005)*     La semplicità di questa frase stupisce quanto la sua concretezza nell’ esperienza umana di ogni giorno. Con la forza di una verità rivelata, ci mostra l’ovvietà del nostro essere esseri sociali, svelandoci una delle chiavi di lettura più efficaci del nostro lavoro nel progetto Biriciclabile, e in generale, dei rapporti che si costruiscono nella vita di tutti i giorni. La nostra esperienza ci ha mostrato come la connotazione amicale del nostro gruppo (le persone abili e disabili che hanno iniziato questo lavoro e ne fanno parte ad oggi) abbia significato la possibilità di creare relazioni particolari, basate sullo scambio e la condivisione delle dinamiche di gruppo. Basta pensare per esempio a questioni pratiche come il regolamento interno scritto tutti insieme, la scelta dei turni o l’organizzazione di incontri come nel caso del lavoro con gli Scout locali. Ma ancora di più, il rapporto amicale diventa un valore aggiunto, nel confronto quotidiano con i piccoli grandi problemi della scuola, delle relazioni amorose, i litigi, i problemi, l’aiuto reciproco. Riconoscere a questi ragazzi il diritto di essere normali, ha implicitamente valorizzato la fiducia sulla quale si sono costruiti i rapporti. E questo a sua volta ci ha dato la possibilità di un confronto dialogico, nel quale la messa in discussione delle categorie date, dei comportamenti accettati e dei valori condivisi, hanno attivato un processo di educazione informale continuo ed estremamente pratico. La partecipazione attiva a questo percorso, ha restituito ad ognuno la possibilità di rielaborare la propria identità, a partire dal proprio lavoro. La possibilità concreta di mettersi alla prova, in un contesto in cui lo spazio e il tempo diventavano funzionali alla persona, e non il contrario, ha restituito una dimensione propria del vivere. In poche parole ha permesso ad ognuno di trovare il proprio modo di essere e di esprimersi. Naturalmente questo va poi rivalutato alla luce del peso di questa esperienza su ogni ragazzo, a partire dall’incisività dell’intervento stesso, data dal rapporto quantitativo del tempo speso nel progetto, con quello vissuto in altri contesti, e dalla particolare esperienza biografica di ognuno, che modificano in modo importante le risposte individuali. Ma anche il fatto di poter lavorare settimanalmente per un tempo relativamente breve, ha rafforzato il carattere di gruppo e ha permesso di valorizzare la diversità del nostro lavoro. La novità di potersi sentire coinvolti e responsabili è diventata un appuntamento da non perdere. E la partecipazione e la condivisione sono diventati i veri strumenti di un’educazione alla normalità, che ha coinvolto tutte le persone che hanno orbitato nel progetto. Perché come ho sentito dire da più parti, visto da vicino nessuno è normale. Ma come aggiungerei io, visti da vicino tutti abbiamo il desiderio di sentirci normali, accettati e soddisfatti di noi stessi.   Ora vorrei aprire in qualche modo la discussione chiedendo se noi possiamo o meno definirci educatori, e in che senso. Personalmente ritengo che tutte le persone che hanno gestito l’officina e il servizio di prestito, abbiano ricoperto questo ruolo, in quanto esempio, riferimento, ma allo stesso tempo facilitatori, giudici e arbitri delle dinamiche di gruppo. Il fatto di avere in mente un percorso, di conoscere i limiti e le difficoltà dei ragazzi, e di mettere alla prova sé stessi e loro, di sfidare il concetto proprio di normalità, di mettere in discussione le categorie e il metro di giudizio, ci ha resi molto più educatori di quanto magari non avremmo voluto. Naturalmente poi ognuno ha avuto un ruolo diverso nei confronti dei ragazzi, e quindi una diversa presa su di loro, il che ha fatto variare notevolmente l’efficacia degli interventi. Ma ciò in fondo succede anche all’interno di un gruppo di amici, come di una famiglia. Per cui la mia risposta è si, siamo educatori fin dove lavoriamo e ci impegniamo per costruire un vivere comune, delle regole e dei valori nei quali rispecchiarci. Questo non vuol dire che salveremo qualcuno o che possiamo guarire qualcun altro, ma al limite che cercheremo di trovare il modo per farlo sentire un po’ più normale.      *Taylor, 2005, Multiculturalismo - Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli