Quando scriviamo, la gioia di esprimerci sembra più pura: cogliamo un pensiero, afferriamo un’immagine, e cerchiamo di fermarli per sempre – netti, definitivi. Sappiamo bene che la gioia maggiore non è nella precisione: ma nella voce lontana che parla in noi, nel remoto vento che ci trascina, giungendo da chissà dove, e ci obbliga a dire cose che non sapevamo. Quando parliamo questa voce è meno forte, ma non è spenta. A volte discorriamo per ore, posatamente, all’esterno di noi, comunicando notizie e informazioni. Ma se siamo con amici, o anche con persone estranee che vogliamo divertire e affascinare, allora quale vento si leva dentro di noi. La voce lontana si risveglia, e all’improvviso diciamo cose che ignoravamo, gorghi di immagini felici vengono alla luce, accecanti intrichi sintattici ci attraversano, scopriamo pensieri che non avevamo mai pensato, e che dimenticheremo cinque minuti dopo. Qualcuno ha detto che la conversazione è soltanto un esercizio superficiale. Non è vero: perché nei momenti di vera ebbrezza dialogica, le parole escono dalle profondità, prorompono dalle tenebre, esattamente come nella letteratura. Allora, diceva Barbey d’Aurevilly, “l’Angelo della conversazione ci prende per i capelli come un profeta”. Pietro Citati, L’Arte della Conversazione