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Sogno di una notte di fine estate


In quel tempo, peregrinavo ramingo, deprecato dagli onesti, inviso agli stessi delinquenti, disperso in una selva di luci artificiali, parzialmente accecato dall’alternarsi di riverberi improbabili a più cupe ombre, quand’ecco che, da lungi, come un tempo il gentil canto di sirene in altro procelloso mare, così ridestommi dal grigio incedere una sorridente voce: “toh! Chi si vede”. Restituito il saluto (difficile mi è sfuggire la mia naturale indole di gentiluomo, eccetto allorquando… me lo dimentico), da più vicino rimirai il dolce viso del tenero agnellino che, ignaro, mi fissava, forse stanco, ma sereno dopo tanto percuotere. Mi misi allor comodo e iniziammo a discorrere, non ricordo di cosa, ora, ma anche adesso rimembro le lievi palpitazioni, le mie dita irrequiete, e la curiosità pervadentemi. Così, lieti trascorsero fugaci minuti. Ma ad un tratto, tra il compiersi di quasi magici processi alchemici in un mondo scandito da vibrazioni subatomiche, incombente una nuova presenza si affacciò, tanto oscura quanto chiara la prima, anch’essa a me nota da tempo, l’effige riconosciuta tra tante, errando, compagna ormai di più d’una notte, più che una semplice notte. Fu la prima a segnalarne l’arrivo, e si salutarono, e io la salutai. Poi, per un po’, tacqui. E stetti ad osservare. Scrutavo, in silenzio, le loro movenze, i gesti, i pensieri, in uno spazio in cui, al contrarsi di una dimensione, altre, dendritiche, si estroflettevano, e nel frattempo mi abituavo alla loro presenza. Poi… la mia mente vacilla, i ricordi si fanno confusi, si accavallano nell’inutile tentativo di dare un ordine cronologico, insensato e innaturale, a quanto accadde… in quella notte, o forse nelle successive… rammento che molto parlammo, di come capirsi, di come spiegarsi (dispiegarsi…), non di chi questo possa leggere, intendendo, e lacrime e risa a formare un unico disegno, dipinto, affresco di un qualcosa che non può esistere, che non potrebbe, almeno… Cominciammo a con-prenderci, in un avvilupparsi e svilupparsi quasi frenetico di eros e tanathos, dolci e bugiarde frasi d’amore sussurrate, bisbigliate, senza suono, sincere. Un forse grottesco e cavernoso corpo sussultante, forse, perché ignoto, forse l’anima, trepidante, speleiforme, anelante un vellutato rifugio, ora di ridere al cielo, e di irridersi. Le due eteree e muliebri creature cominciarono dipoi a fronteggiarsi, impavide, avide del mio corpo, pronte a sfidarsi non in acque fangose, pure e fresche forse, fin quasi a colpirsi con federe imbottite di biscotti inzuppati nel latte. Le insultai e vilipesi, feci loro promesse, forse, che vorrò mantenere, gli chiesi perdono, contrito, ancora e ancora… mi chiesero denaro, per ciò che mi donarono, parte del più intimo loro io, e spazio, per maggiormente poter dare. Mi librai e ricaddi, su morbidi e aulenti asciugamani, bianco tenebroso essere concepito da qualcuno a copiare, distorta, la natura. Abbracciai, o lo volli, non stringendo che aria, in verità, un’intimità a 11… uomini e donne, e un bimbo. Mi inchinai alfine alle my fair ladies, prostrato, prosciugato, sfinito, la bocca dolente, lucidi gli occhi, se avessi potuto, forse, avrei pianto, in un modo… o in un altro. Finzioni abusate, fantasie, presero forma ma non sostanza dinanzi a me, non ancora… Sostanza... Per quella volta resi grazie, resi lo spirito, arreso, vincitore un po’, e, con buone maniere, diedi lor la buonanotte, e un bacio. E uscii a riveder le stelle. (sardaukhar)