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Fonte: articolo riportato dall'Internet
ASTRONAUTI AMMALATII virus si propagano anche nello Spazio?
(Image: © NASA)
Che cosa accadrebbe se il coronavirus si diffondesse
in una navicella della NASA? Affronta l'argomento
un interessante articolo scientifico di Chelsea Gohd,
"Getting sick in space: How would NASA handle an
astronaut disease outbreak?" (Ammalarsi nello Spazio:
come affronterebbe la NASA il caso di un astronauta
che si ammala?) pubblicato su Space.com.
Nella foto di apertura: Gli astronauti della Expedition
62 all'interno di una navicella di rifornimento SpaceX
Dragon CRS-20 in visita alla Stazione Spaziale Internazionale.
Le maschere che indossano servono a proteggere da
particelle e sostanze irritanti che potrebbero essersi
staccate all'interno del Dragon durante il volo.
(Image: © NASA)
Ammalarsi nello Spazio: le risposte della NASA
«In rare occasioni nel corso della storia dei voli spaziali
è successo che gli astronauti si siano ammalati durante
la loro permanenza nello Spazio.
Mentre erano in orbita, alcuni di loro hanno sofferto di
infezioni delle vie respiratorie superiori o di raffreddori,
infezioni del tratto urinario e infezioni della pelle» ha
detto a Space.com Jonathan Clark, ex medico
dell'equipaggio del programma Space Shuttle della NASA
e attuale professore associato di neurologia e medicina
spaziale presso il Center for Space Medicine del Baylor
College of Medicine.
Durante la missione Apollo 7, nel 1968, l'equipaggio
prese il raffreddore e il fatto ebbe un impatto significativo
sul programma.
Molto probabilmente il comandante Wally Schirra salì a
bordo con un leggero raffreddore e lo diffuse agli altri
membri dell'equipaggio.
Gli astronauti finirono i medicinali presenti a bordo e
i fazzoletti... e hanno avuto problemi a indossare il
casco durante il rientro nell'atmosfera terrestre.
Analoghi casi di raffreddore si sono registrati tra gli
astronauti di Apollo 8 e Apollo 9.
Quarantena pre-volo
A seguito di queste esperienze, la NASA ha introdotto
nella pianificazione delle missioni una quarantena pre-volo
per gli equipaggi delle navicelle spaziali.
Inoltre, ha cominciato a studiare degli scenari più complessi.
Per esempio, potrà succedere in futuro che gli equipaggi
di missioni spaziali debbano combattere malattie ben più
gravi e in ambienti potenzialmente più difficili, per esempio
sulla base lunare del programma Artemis.
all'opera durante lo studio delle possibili cause di patologie
neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer.
Parmitano sta esaminando campioni di proteine per la forma-
zione di amiloidi che differiscono dai campioni osservati sulla
Terra.
I risultati possono suggerire terapie preventive per la popolazione
sulla Terra e gli astronauti in missioni a lungo termine.
(Image: © NASA)
Per quanto riguarda le emergenze mediche, gli astronauti sono
stati finora curati a distanza all'assistenza medica a terra, grazie
alle crescenti capacità di comunicazione.
Per esempio, i medici del Centro di Controllo sono stati in grado
di trattare un astronauta che ha subito un coagulo di sangue
mentre era a bordo della stazione spaziale.
Come cambiano virus e batteri nello Spazio
I modi in cui le infezioni si diffondono e come si comportano i
virus e le malattie nel corpo cambiano quando gli esseri umani
vanno nello spazio.
A causa dello stress fisico in un ambiente confinato senza la
gravità, anche le malattie banali come il raffreddore possono
assumere un aspetto diverso per gli astronauti.
I cambiamenti nei livelli degli ormoni dello stress e altre
ripercussioni fisiche del volo spaziale causano un cambiamento
del sistema immunitario.
Mentre un astronauta potrebbe avere un buon sistema
immunitario sulla Terra, potrebbe essere più suscettibile a
malattie o addirittura a reazioni allergiche mentre è nello
Spazio.
Il dott. Clark ha spiegato che virus come l'influenza o il
COVID19 potrebbero essere trasmessi più facilmente in
un ambiente a microgravità, come sulla Stazione Spaziale
Internazionale: «L'assenza di gravità impedisce alle particelle
di depositarsi, quindi rimangono sospese nell'aria e
potrebbero essere trasmesse più facilmente.
Per evitare questo, i compartimenti sono ventilati e il
sistema di areazione è dotato di filtri HEPA che rimuovono
le particelle».
Il risveglio dei virus dormienti
Gli scienziati hanno scoperto che i virus dormienti reagiscono
alle sollecitazioni del volo spaziale.
È stato accertato che virus come l'Herpes Simplex si riattivano
durante il volo spaziale.
Inoltre, gli studi in corso hanno ipotizzato che una maggiore
virulenza batterica nello spazio possa rendere meno efficaci i
trattamenti antibiotici.
Per questo, in particolare nel caso di missioni extra-planetarie,
l'equipaggio verrebbe messo in quarantena al ritorno sulla
Terra, proprio come avveniva nelle missioni di ritorno
dalla Luna.
all'interno del modello di navicella Orion, allo Johnson
Space Center della NASA a Houston, Texas.
(NASA/Bill Ingalls)
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Fonte: articolo riportato dall'Internet
Coronavirus, era già tutto scritto
Armando Gariboldi
Èormai da settimane l'argomento di apertura di tutti i notiziari
e delle prime pagine dei giornali: il nuovo Coronavirus (2019-nCoV),
il letale morbo proveniente dalla Cina autore della nuova pandemia
di questo inizio di anni Venti del terzo millennio.
I coronavirus sono una grande famiglia di virus che possono causare
diverse infezioni, dal comune raffreddore a malattie più gravi come
la sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) e la sindrome
respiratoria acuta grave (SARS).
Il "salto" di specie
Spesso questi ceppi virali si selezionano e vivono all'interno di varie
specie animali, senza contaminare l'uomo.
Tuttavia in alcuni casi possono comparire nuovi virus che, precedentemente
circolanti solo nel mondo animale, ad un certo momento subiscono una muta-
zione e diventano patogeni anche per la nostra specie.
È un fenomeno ben noto (chiamato spill-over o salto di specie) e si pensa
che possa essere alla base anche dell'origine di quest'ultimo coronavirus
proveniente dalla Cina.
Al momento la comunità scientifica sta ancora cercando di identificare con
sicurezza la fonte dell'infezione: si parla di pipistrelli, di serpenti ed anche
di una specie di pangolino.
Fatto sta che sembrerebbe che i primi focolai si siano sviluppati nel grande
mercato del bestiame della città di Wuhan, capoluogo e città più popolosa
della provincia di Hubei, alla confluenza del Fiume Azzurro e del fiume
Han (e quindi in un punto geograficamente già predisposto alla diffusione
ed agli scambi).
Evento previsto anni fa, seguendo i cacciatori di virus
Questo fatto che oggi sta allarmando l'opinione pubblica mondiale e che
viene dipinto come uno sfortunato evento eccezionale, in realtà era stato
ampiamente previsto, con impressionante precisione e dovizia di particolari,
sin dal 2012 dal giornalista e divulgatore scientifico David Quammen,
collaboratore del National Geographic.
Infatti nel suo libro "Spillover", ora pubblicato anche in italiano da Adelphi,
Quammen aveva previsto tutto, compreso il fatto che la "prossima pandemia"
sarebbe partita da un mercato del sud della Cina. Ma Quammen non è un
indovino: è solo un abile cronista che ha indagato con straordinaria efficacia
tra gli squilibri a cui abbiamo costretto il pianeta Terra, dedicandosi in
particolare al lavoro, spesso oscuro, dei "cacciatori di virus".
Con il fiato sospeso per capire il meccanismo di diffusione
Scrive Quammen: «Non vengono da un altro pianeta e non nascono
dal nulla.
I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono virus che
oggi colpiscono gli animali, ma che potrebbero da un momento all'altro
fare un salto di specie - uno spillover in gergo tecnico - e colpire anche
gli esseri umani...».
Il libro è unico nel suo genere e davvero attualissimo: un misto tra un
saggio sulla storia della medicina ed un reportage, è stato scritto in sei
anni di lavoro nei quali l'autore ha seguito gli scienziati al lavoro nelle
foreste congolesi, nelle fattorie australiane e nei mercati delle affollate
città cinesi.
Quammen ha intervistato centinaia di testimoni, medici e sopravvissuti,
ha investigato e raccontato con stile quasi da poliziesco la corsa alla
comprensione dei meccanismi delle malattie.
E tra le pagine più avventurose, che tengono il lettore con il fiato sospeso
come quelle di un romanzo noir, è riuscito a cogliere la preoccupante
peculiarità di queste malattie.
Ovvero la continua ricerca, da parte di organismi estremamente adattabili
e resistenti quali sono i virus, di un nuovo equilibrio per poter sopravvivere.
L'uomo come "ospite perfetto"
Un nuovo efficace equilibrio tra gli squilibri causati dall'Uomo, che
stermina direttamente o indirettamente intere popolazioni di virus e
che di fatto li obbliga a cercare freneticamente nuove possibilità di
sopravvivenza tra le alterazioni degli ecosistemi indotte dall'azione
antropogenica!
Ovvero il virus fa ciò che fa per necessità di sopravvivenza.
E la scelta della specie umana come nuovo ospite è quasi ovvia: è un
mammifero (ideale portatore), appartenente alla specie più popolosa e
diffusa del Pianeta (che tra l'altro mangia altri animali di diverse specie),
si muove molto e ovunque (e quindi facilita la diffusione del virus) ed è
a stretto contatto con molte specie animali sia domestiche sia selvatiche,
anche a causa della distruzione e trasformazione degli habitat.
Insomma gli spillover o salti di specie di patogeni ci sono sempre stati
e continueranno ad esserci.
Non tutti diventeranno per fortuna pandemie, ma ancora una volta, la loro
letalità potenziale e la loro velocità di diffusione non saranno frutto del caso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM
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Fonte: articolo riportato dall'Internet
Trasformare la CO2 in roccia per frenare il riscaldamento globale
Le rocce basaltiche islandesi.
ANDREA DI PIAZZA2 SETTIMANE FA
L'idea di trasformare la CO2 in roccia per frenare
il riscaldamento globale non è una novità, ma se
anziché riuscirci in migliaia di anni lo si fa in tempi
record ecco che la cosa si fa davvero interessante.
La notizia arriva dall'Islanda. Ecco di cosa si tratta.
Iniettare la CO2 nel sottosuolo e trasformarne il 90%
in minerali nel giro di soli due anni.
Sono questi gli eccellenti risultati raggiunti dal progetto
Carbfix in Islanda, uno dei venti finalisti candidati ad
ottenere il prestigioso Keeling Curve Prize.
Il progetto, che va avanti ormai da diversi anni, sfrutta i
basalti islandesi come volume geologico per lo stoccaggio
del gas, una scelta che si è rivelata efficace e sicura e
che apre nuove prospettive per la lotta al riscaldamento
globale.
I basalti d'Islanda
Gran parte dei progetti di cattura e stoccaggio dell'anidride
carbonica sfruttano le rocce sedimentarie come volume
serbatoio per l'immagazzinamento del gas che penetra nei
pori della roccia e può dissolversi nelle acque sotterranee o
reagire con la roccia incassante formando minerali carbonatici.
Tuttavia il processo richiede migliaia di anni, rendendo questa
soluzione sfavorevole per mineralizzare la CO2 abbastanza
velocemente da soddisfare la potenziale domanda o da evitare
che eventi geologici improvvisi come i terremoti possano
provocare fughe di gas.
Una soluzione a questo problema arriva dalle rocce magmatiche
basiche come i basalti che, oltre ad essere ampiamente diffusi
su tutto il Pianeta, contengono alte concentrazioni di calcio e
magnesio, ioni che possono reagire facilmente con la CO2 producendo
minerali di calcite, dolomite e magnesite. Con l'obiettivo dunque
di testare la capacità di immagazzinamento dell'anidride carbonica
da parte di alcuni dei basalti più famosi del mondo il sito della
centrale geotermica di Hellisheiði in Islanda è diventato il cuore
pulsante del progetto Carbfix.
Il team, guidato dal Reykjavik Energy, ha ideato il sistema che
dissolve la CO2 catturata dal processo industriale nelle acque
reflue dell'impianto, iniettando poi il tutto a centinaia di metri di
profondità nelle rocce basaltiche.
Alla fine del 2018, il sistema aveva catturato e stoccato circa
66.000 t di gas (sia CO2 che H2S), ovvero oltre il 40% delle
emissioni generate dalla centrale.
Secondo i risultati ottenuti, oltre il 90% del gas iniettato si è
trasformato in minerale nel giro di un paio d'anni.
Un processo estremamente rapido ma con qualche punto critico,
l'acqua innanzitutto: per l'iniezione di una tonnellata di anidride
carbonica ne servono 25 di acqua.
Il metodo, inoltre, va testato anche in altri basalti del Pianeta,
piccole variazioni composizionali della roccia ospite possono
portare a ben differenti tassi di mineralizzazione.
Di certo i rapidi tempi di stoccaggio dei gas iniettati candidano
i basalti islandesi come uno dei migliori serbatoi naturali al
mondo.
Un processo naturale
Grazie alle loro proprietà chimiche, rocce basiche e ultrabasiche
come basalti e peridotiti sono l'ambiente ideale per i processi
di carbonatazione naturale.
È stato stimato per esempio che l'alterazione dei basalti presenti
sulle terre emerse del nostro Pianeta, dovuta agli agenti atmosferici,
contribuisce per il 30% alla rimozione naturale della CO2
dall'atmosfera.
Allo stesso modo in natura la mineralizzazione della CO2 è un
processo che avviene costantemente in ambienti vulcanici.
I basalti dei sistemi vulcanici e geotermici sottomarini, per esempio,
ricevono costantemente grandi quantità di anidride carbonica dal
magma che degassa in profondità.
È il caso delle dorsali oceaniche, dove la circolazione idrotermale
coinvolge il primo km di crosta oceanica con una conseguente
interazione CO2-acqua-basalto: soltanto in questo spazio si riescono
a mineralizzare circa 40Mt di anidride carbonica all'anno.
Proprio in Islanda, porzione emersa della dorsale medio atlantica,
è stato stimato che un basalto fresco può immagazzinare naturalmente
oltre 100 kg di CO2 per metro cubo.
Sulla base di questa stima, la capacità teorica di stoccaggio lungo
le dorsali oceaniche (ammesso che la composizione del basalto non
vari grandemente) e dell'ordine di 100.000 - 250.000 Gt di CO2,
diversi ordini di grandezza in più rispetto alla quantità di anidride
carbonica che ogni anno viene liberata a livello globale dalle attività
umane (circa 36,8 Gt nel 2019).
Teoricamente dunque le capacità di immagazzinamento della CO2
da parte dei basalti oceanici e terrestri sono enormi e con la
tecnologia giusta, potrebbero essere una delle soluzioni determinanti
per lo stoccaggio definitivo dell'anidride carbonica e per la lotta
al riscaldamento globale.
Prossimo passo: sottrarre CO2 all'atmosfera
Ad oggi i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 esistenti (Carbon
Capture and Storage, CCS) riescono a processare circa 40 Mt di gas
ogni anno e sono applicati principalmente a determinati processi
industriali.
Per rispettare l'Accordo di Parigi e contenere la crescita della
temperatura media globale a 1.5°C, bisognerebbe però catturare e
stoccare almeno 190 Gt di anidride carbonica.
Una quantità enorme che richiederebbe un aumento del numero di
impianti CCS esistenti di almeno 2.500 unità entro il 2040, ma
soprattutto la cattura della CO2 direttamente in aria.
Ciò è possibile attraverso i sistemi di cattura diretta dell'aria
(Direct Air Capture, DAC), che filtrano direttamente l'aria
attraverso un solido o un liquido capace di rimuovere selet-
tivamente l'anidride carbonica sfruttando processi di assorbi-
mento e adsorbimento. Combinando i due sistemi ed instal-
landoli nei pressi di un serbatoio basaltico, esattamente come
si sta sperimentando nel progetto Carbonfix, sarà possibile
creare siti di stoccaggio in grado di rimuovere grandi quantità
di CO2 dall'atmosfera.
Tuttavia ad oggi le tecnologie di tipo DAC sono abbastanza
poco mature (al momento la capacità di filtraggio è dell'ordine
delle migliaia di t di CO2 per anno) e anche piuttosto costose
(da 90 a 900$ per tonnellata di CO2), si tratta infatti di
tecnologie estremamente energivore. Ricercatori e aziende,
intraviste le grandi potenzialità di queste tecnologie, si stanno
impegnando per renderle più competitive ed operative in
un immediato futuro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE
E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM
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Sulle specie aliene
di Daniele Paganelli*
L'altra sera guardavo un documentario
in televisione e, in una delle scene, si
vedeva una piccola gazzella (vertebrato
carino e tenero) che veniva predata da
un ghepardo (predatore implacabile).
Una scena molto comune nei filmati
naturalistici, ma le persone che erano
con me hanno immediatamente reagito
quasi con orrore all'uccisione della preda.
Nella scena seguente invece si vedeva
una zanzara (invertebrato fastidioso
per l'uomo a qualsiasi latitudine) che
veniva predata da un pipistrello appena
emersa dal suo stadio larvale acquatico.
In questo caso, però, non c'è stata nessuna
reazione; anzi i pochi commenti nasconde-
vano quasi una certa soddisfazione nel
vedere la zanzara che veniva predata.
Come mai molte persone si immedesimano
più facilmente nell'animale più fragile,
soprattutto se quest'ultimo è "carino"
e non ci dà fastidio?
Questa è solo una piccola esperienza che
sottolinea ancora una volta come l'opinione
pubblica reagisca in maniera diversa alla
soppressione di un vertebrato piuttosto che
a quella di un invertebrato.
Gestione delle specie aliene invasive
Nel caso della gestione delle specie aliene
invasive, questo tipo di reazione può
rappresentare un problema anche da un
punto di vista pratico.
Se una specie aliena è "bella e simpatica" e,
soprattutto, non ci dà alcun fastidio diretto,
perché va eliminata?
Anzi: perché non rilasciarla in Natura così
da regalarle la libertà?
Qui entra in gioco l'empatia verso l'animale,
ma anche una certa visione antropocentrica
della Natura: l'uomo che aiuta l'animale e
gli concede la libertà.
Lo stesso però potrebbe essere detto per le
azioni di controllo delle specie aliene.
La gestione delle specie aliene viene vista
da alcuni come l'affermazione del concetto
di superiorità dell'uomo nei confronti della
Natura.
Chi siamo noi per decidere se un animale
deve vivere o no? Se ormai gli individui
di una certa specie sono presenti in un
ambiente, che colpa ne hanno loro?
La gestione delle specie aliene dovrà
inevitabilmente affrontare questi inter-
rogativi di natura etica, individuando la
strategia comunicativa più opportuna.
Se è stato semplice attivare l'opinione pub-
blica su problemi ambientali quali gli sversa-
menti di idrocarburi nelle acque, o l'utilizzo
di pesticidi tossici, più difficile e complesso
sarà convincere il cittadino che anche le
specie aliene sono degli ‘inquinanti nocivi'
che alterano seriamente la biodiversità.
Sicuramente sarà un processo lungo ma,
continuando l'opera di informazione, le
generazioni future potranno meglio
comprendere il problema e accettare più
consapevolmente le azioni, talvolta drastiche,
di gestione delle specie aliene.
Il concetto che dovrebbe essere trasmesso è:
le specie aliene stanno invadendo i nostri
ecosistemi.
Ho usato la parola invasione proprio perché
questo termine viene quasi sempre percepito
dall'opinione pubblica in modo negativo.
Fino a che le specie aliene non creano problemi
diretti o indiretti all'uomo (vedi gli esempi
recenti di Xylella fastidiosa o della cimice
asiaticaHalyomorpha halys), è difficile avere
l'attenzione dell'opinione pubblica sul fatto
che specie aliene, magari pure "carine",
impoveriscano la biodiversità di un ecosistema,
con danni anche permanenti.
Riuscire a far passare questo concetto è uno dei
compiti più difficili che chi lavora in questo
ambito (penso, per esempio, ai ricercatori o ai
gestori di aree protette) deve affrontare.
La terminologia usata quando si parla di specie
aliene è fondamentale: potrebbe essere una carta
vincente da usare per convincere l'opinione
pubblica che con alcuni comportamenti si va
ad impoverire la biodiversità e le specie autoctone
sono le prime ad essere danneggiate.
Attenzione però a non esagerare: l'uso di termini
con accezione troppo violenta, come ad esempio
"combattere le specie aliene", o "un'arma
contro le specie aliene", potrebbe ottenere
reazioni contrastanti, e in alcuni soggetti anche
l'effetto opposto.
Piuttosto sarebbe meglio puntare su concetti
positivi come ad esempio "conservare/favorire
le specie autoctone" oppure "proteggere le
specie autoctone" dalle specie aliene.
I progetti finanziati
Negli ultimi tempi il tema delle specie aliene
invasive ha assunto una rilevanza sempre
maggiore.
Non a caso sono molti i progetti finanziati
che hanno come obiettivo quello di migliorare
il livello di informazione (come LIFE ASAP)
gestito da ISPRA e di arginare l'avanzata delle
specie aliene con azioni concrete di monitoraggio
e contenimento, come Life Gestire 2020 -
Natura che vale - di Regione Lombardia.
Questi progetti svolgono di sicuro un ruolo
importante nell'affrontare le problematiche
causate dalle specie aliene ma purtroppo si
scontrano sempre più spesso con difficoltà
come la carenza di fondi e personale specializ-
zato e a volte una applicazione del Regolamento
Europeo 1143/2014 non sempre di facile
attuazione.
Per cercare di risolvere questi problemi, la
Comunità Europea ha finanziato il progetto
INTERREG INVALIS (Protecting European
Biodiversity from Invasive Alien Species), di
cui laFondazione Lombardia per l'Ambiente
è unico partner italiano.
INVALIS ha tra i suoi obiettivi quello di
implementare le politiche europee sulla gestione
delle specie aliene invasive portando all'attenzione
della Comunità Europea le difficoltà incontrate
dagli Stati Membri nell'applicazione del regola-
mento Europeo, ma anche esempi di buone
pratiche che potrebbero essere condivise per
raggiungere l'obiettivo comune di arginare
in modo efficace e sostenibile l'invasione
delle specie aliene.
Oltre a questo, INVALIS ha lo scopo di potenziare
l'attività informativa, coinvolgendo nei suoi
Regional Meetings svariati portatori di interesse,
come ad esempio Enti Regionali,
Guardie ecologiche, scuole, associazioni
naturalistiche e Università.
Il prossimo Regional Meeting si terrà il 14
novembre presso Palazzo Lombardia (Milano)
e avrà come tema principale la gestione dei conflit-
ti di interesse nella gestione delle specie aliene
invasive, un tema che coinvolge molti interessi
economici ma anche aspetti culturali e sociali.
Consapevoli che soluzioni facili e di immediato
successo non esistono per un problema così
complesso, la condivisione delle idee sarà utile
per affrontare le differenti sfaccettature dei
problemi relativi alla gestione delle specie aliene.
*Daniele Paganelli, PhD. Lombardy Foundation
for the Environment - University of Pavia -
Department of Earth and Environmental Sciences.
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Pubblicato da PRONTE CHE SI VIAGGIA il 28 GIUGNO 2017
Vi è mai capitato di essere stanche di fare lo stesso
tipo di viaggio, di voler provare qualcosa di nuovo?
A me è successo dopo tante estati passate zaino in
spalla in Asia: avevo bisogno di fare qualcosa di nuovo.
Così sono finita aNew York stile Sex and the city, e l'anno
dopo in Irlanda a lavorare in un ostello! Come sempre
non c'è un modo di viaggiare, ce ne sono mille.
Se anche voi avete bisogno di qualche stimolo, ve ne
propongo alcuni, anzi li propongo pure a me stessa visto
che molti non li ho ancora fatti!
Ovviamente il viaggio in solitaria lo salto, su questo
blog direi che lo possiamo dare per scontato! Nel caso
in cui invece aveste dei dubbi, qui vi spiego il perché
bisogna farlo almeno una volta nella vita. Partiamo
dunque con la mia special trip list!
1 - VOLONTARIATO
Questo va assolutamente al primo posto perché credo
sia una delle esperienze che arricchiscono di più al mondo.
Ci penso da anni, ma ancora non mi sono decisa.
Penso si debba trovare la giusta forza interiore per non farsi
travolgere dall'emotività
(anche voi siete giusto un attimo emotive?) e poter dare così
il meglio di sé. Una mia amica è stata in un orfanotrofio in
Tanzania, un'altra nelle favelas brasiliane e in Kenya, e anche
se erano agli angoli opposti del globo, mi hanno trasmesso
la stessa gioia immensa peraver aiutato qualcuno.
E non solo quello: si sono immerse completamente in un'altra
cultura, traendone tutti i benefici che possiamo immaginare.
2 - LAVORO
Qui invece la mia esperienza ce l'ho! Vi ho già spiegato come
funziona Workaway con cui ho lavorato due volte (tra poco tre...)
ma altrettanto famosa è WWOOF.
La cosa in comune tra le due community è che lavoriamo in
cambio di vitto e alloggio; la differenza è che mentre con la
prima vengono offerti lavori di diverso tipo, nella seconda
si sta prettamente in fattorie, in una visione green e sostenibile
della vita.
In entrambi i casi, la cosa bella è che possiamo fare un viaggio
e non una semplice vacanza.
Lavorando entriamo in contatto con la vita vera del Paese che
andiamo a visitare, con i suoi abitanti e la sua quotidianità.
3 - TRENO
Come non pensare alla Transiberiana? Attraversare la Russia
per raggiungere la Mongolia e la Cina? Che meraviglia! Ma come
questo viaggio ce ne sono innumerevoli sparsi per il mondo, tutti
accomunati dalla stessa cosa: a parte i paesaggi lungo centinaia
di chilometri che ci scorrono davanti agli occhi, sui treni, ovunque
ci troviamo, possiamo incontrare una gran varietà di persone,
dagli stranieri come noi ai locali, ognuno con la propria storia alle spalle.
Un viaggio di questo tipo evoca sicuramente un'esperienza
romantica e d'altri tempi, in cui una volta tanto rinunciamo
alla rapidità dell'aereo per una sana lentezza su rotaie.
4 - CAMMINO A PIEDI
In Europa il cammino di Santiago de Compostela è il più gettonato,
ma in Italia abbiamo la Via Francigena ad esempio che non ha
nulla da invidiare (ho conosciuto una tedesca ventenne che ha
fatto un lungo tratto insieme al suo cagnolino ed è tornata entusiasta).
Per non parlare di altri percorsi del resto del mondo, citando ad
esempio la famosa Pacific Crest Trail tra in America.
C'è chi lo fa come pellegrinaggio, chi semplicemente come ricerca
interiore, sta di fatto che camminare per raggiungere una meta
ogni santo giorno può essere un modo particolarmente catartico
di viaggiare e di (ri)trovare noi stesse.
5 - LAST MINUTE
Non dico che anche questo viaggio mi manca perché comincio
a inquietarmi... parliamo di un viaggio in cui non abbiamo
praticamente potere decisionale, ma ci affidiamo alla migliore
offerta che il destino ci mette sotto il naso.
Ci possono essere due o tre opzioni fra cui scegliere, magari
destinazioni a cui non avevamo lontanamente pensato, facendoci
conoscere parti di mondo mai prese in considerazione.
E così dobbiamo correre per comprare costume e crema solare,
oppure scarpe da trekking e felpa termica, perché dopo pochi
giorni il nostro aereo spicca il volo, e noi con lui! Direi che tutto
ciò sa molto di avventura! Perché come sempre, l'importante è
andare.
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Inviato da: cassetta2
il 30/04/2020 alle 12:34
Inviato da: cassetta2
il 20/08/2019 alle 21:06
Inviato da: amico_per_sempre1964
il 10/06/2018 alle 20:06