CARINCI PAOLO BLOG

ECCO COM'E' LA POLITICA AMERICANA


“Confessioni di un sicario economico” – di John Perkins Venivamo preparati per il nostro lavoro, che era quello di costruire l’impero americano. Dovevamo creare delle situazioni in cui la maggior parte possibile di risorse fluisse verso il nostro paese, verso le nostre corporations, il nostro governo, e in questo abbiamo avuto un grande successo. Abbiamo costruito il più grande impero nella storia dell’umanità. Ciò è accaduto negli ultimi cinquant’anni, a partire dalla seconda guerra mondiale, e con un uso assolutamente minimo di forza militare. Soltanto in casi eccezionali, come quello dell’Iraq, si utilizza l’esercito come ultima risorsa. Questo impero, a differenza di ogni altro impero nella storia, è stato costruito prima di tutto attraverso la manipolazione economica, attraverso l’inganno, attraverso la frode, attraverso la seduzione degli altri verso il nostro modo di vita, e attraverso l’uso dei sicari economici come me. Fui reclutato in una scuola di economia, sul finire degli anni 60, dalla NSA (National Security Agency), la più grande e meno compresa organizzazione di spionaggio nazionale. Ma in ultima analisi lavoravo per le corporations private. Il primo vero sicario economico risale agli anni 50: era Kermit Roosevelt, il nipote di Teddy, che rovesciò il governo dell’Iran - un governo democraticamente eletto – di Mossadegh. Kermit fu così bravo nell’ottenere quel risultato senza versare una goccia di sangue – beh, un po’ di sangue fu versato, ma non vi fu un intervento militare – e con una spesa di alcuni milioni di dollari rimpiazzammo Mossadegh con lo Scià dell’Iran. A quel punto capimmo che questa idea del sicario economico era ottima. Quando agivamo in questo modo, non dovevamo preoccuparci della Russia. Il problema è che Roosevelt era un agente della CIA, era un impiegato del governo, e se fosse stato scoperto avrebbe causato notevoli complicazioni. A quel punto si prese la decisione di utilizzare le organizzazioni come la CIA e la NSA solo per reclutare potenziali sicari economici come me, per poi mandarli a lavorare per compagnie private di consulenza, società di ingegneria, compagnie di costruzione, in modo che se fossimo stati scoperti non vi sarebbe stato alcun collegamento con il governo Io lavoravo per una compagnia chiamata Chas. T. Main di Boston, nel Massachusetts. Eravamo circa 2 mila impiegati, e io ero il capo del settore economico. Sono arrivato ad avere fino a 50 persone che lavoravano per me. Ma il mio vero lavoro era quello di concludere affari. Facevo dei prestiti ad altre nazioni, prestiti enormi, molto più grandi di quelli che avrebbero mai potuto ripagare. Una delle condizioni del prestito – diciamo ad esempio un miliardo di dollari, ad un paese come l’Indonesia o l’Ecuador - era che il paese avrebbe dovuto restituire il 90% del denaro a una società americana che costruisse le sue infrastrutture, come la Halliburton o la Bechtel, che erano le più grandi. Queste società andavano nel paese e costruivano un sistema elettrico, dei porti, o delle autostrade, che in realtà servivano solo alle poche famiglie benestanti del paese, mentre la povera gente restava con un debito sulla gobba che non avrebbe mai potuto ripagare. Un paese come l’Ecuador oggi deve versare più del 50% per suo prodotto lordo nazionale per pagare i suoi debiti, e in realtà non ce la può fare. Con loro abbiamo quindi il coltello dalla parte del manico. Se un giorno, ad esempio, vogliamo più petrolio, andiamo in Ecuador e diciamo: “Voi non siete in grado di ripagare vostro debito, per cui date alle nostre società le vostre foreste amazzoniche, che sono piene di petrolio”. Dopodichè noi arriviamo, distruggiamo la foresta dell’Amazzonia e obblighiamo l’Ecuador a darla noi, a causa del debito che ha accumulato. Quando facciamo questi grandi prestiti, la maggior parte dei soldi torna comunque negli Stati Uniti, mentre il paese rimane con il debito, più un interesse enorma da pagare, e questi diventano praticamente i nostri servi, i nostri schiavi. È un impero, non c’è altro modo di definirlo. È un impero enorme, e in questo noi abbiamo avuto grande successo. Quando mi hanno reclutato, quelli della NSA mi hanno sottoposto a una lunga serie di test della verità. Hanno scoperto tutte le mie debolezze, e mi hanno immediatamente sedotto. Hanno usato le droghe più potenti della nostra cultura, il sesso il potere e i soldi, per convincermi a passare dalla loro parte. Se non avessi vissuto la vita di un sicario economico, farei molta fatica a credere che queste cose accadano. Ora invece ho scritto questo libro perché il nostro paese ha bisogno di capire: se la gente di questa nazione capisce come funziona davvero la nostra politica economica, che cosa è l’aiuto ai paesi poveri, come funzionano le nostre corporations, dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse, so che esigerà un cambiamento. Ricordate, quando all’inizio degli anni ‘70 l’OPEC faceva tutto quello che voleva, e ci razionava le importazioni di petrolio? Noi facevamo lunghe code in macchina alla stazione di servizio, e il paese aveva paura di dover affrontare un'altra depressione come quella del ’29. Questo per noi era inaccettabile, e a quel punto il Ministero del Tesoro ha reclutato me e alcuni altri sicari economici, e siamo partiti per l’Arabia Saudita. Sapevamo che l'Arabia Saudita era la chiave di volta per uscire dalla nostra schiavitù e prendere in mano la situazione. E così abbiamo messo a punto un accordo, grazie al quale la Reale Casa saudita avrebbe rispedito negli Stati Uniti la maggior parte dei petroldollari, e li avrebbe investiti in titoli governativi. Il Ministero del Tesoro avrebbe usato gli interessi di questi titoli per finanziare società americane che costruissero in Arabia Saudita nuove città e nuove infrastrutture -cosa che abbiamo fatto. La Casa Reale saudita si impegnava a mantenere il prezzo del petrolio entro limiti accettabili per noi - cosa che negli anni ha sempre fatto - mentre noi ci impegnavamo a mantenere al potere la Reale Casa saudita. Questo è uno dei motivi principali per cui siamo scesi in guerra con l’Iraq. In Iraq avevamo provato a implementare lo stesso tipo di strategia che aveva avuto così tanto successo in Arabia Saudita, ma Saddam Hussein non ci era cascato. Quando i sicari economici falliscono nel loro obiettivo, entrano in gioco gli sciacalli, ovvero gli agenti della CIA, che si infiltrano nel paese e cercano di fomentare un colpo di stato, o una rivoluzione. Se anche quello non funziona, provano con l’assassinio vero e proprio. Ma nel caso dell’Iraq non riuscivano a colpire Saddam Hussein, che aveva molti sosia e delle ottime guardie del corpo, e non si riusciva a farlo fuori. A quel punto è subentrata la terza linea strategica, nella quale i nostri giovani uomini e donne vengono mandati a uccidere ed essere uccisi, che è quello che chiaramente è successo in Iraq. Ho sempre lavorato molto, molto da vicino con la Banca Mondiale. La Banca Mondiale fornisce la maggior parte dei soldi che vengono usati dai sicari economici. Ma dopo l’11 settembre qualcosa è cambiato dentro di me. Sapevo che questa storia andava raccontata, perché quello che è accaduto l’11 settembre è il diretto risultato del lavoro dei sicari economici. E l’unico modo in cui torneremo a sentirci sicuri in questo paese, l’unico modo in cui torneremo a sentirci bene, è usando i sistemi che abbiamo messo in atto per creare un cambiamento positivo nel mondo. Sono profondamente convinto che questo sia possibile. Io credo che la Banca Mondiale e altre istituzioni possano essere re-indirizzate a fare quello che dovevano fare originariamente, e cioè aiutare a ricostruire le parti più devastate del mondo. Aiutare la povera gente. Ci sono 24 mila esseri umani che muoiono di fame ogni giorno, e noi questo possiamo cambiarlo.  Il racconto di Robert Fisk, il celebre giornalista britannico inviato a Bagdad La guerra è una frode. Non mi riferisco all'inesistenza delle armi di distruzione di massa e dei rapporti tra Saddam Hussein e Al Qaeda, né a tutte le altre bugie che sono servite da casus belli. Penso piuttosto alle nuove menzogne. Infatti, se prima della guerra i governi ci avvertivano di minacce inesistenti, oggi ci nascondono minacce che esistono davvero. Gran parte dell'Iraq è ormai fuori dal controllo del governo fantoccio imposto dagli Stati Uniti a Bagdad, eppure non ci viene detto. Le truppe statunitensi subiscono centinaia di attacchi al mese, ma nessuno ci avverte, a meno che non muoia un americano. Il mese scorso, il bilancio delle vittime nella sola Bagdad è stato di oltre 700 morti, il mese peggiore dalla fine dell'invasione. Eppure, non ce l'hanno detto. La regia della catastrofe irachena è stata fin troppo evidente anche in occasione del "processo" a Saddam. L'esercito degli Usa non si è limitato a censurare le registrazioni cancellando le voci degli altri 11 imputati, ma ha anche fatto credere a Saddam (fino al suo arrivo in aula) che sarebbe stato giustiziato. Quando è entrato in aula, pensava che il giudice avrebbe sentenziato la sua condanna a morte: del resto, i tribunali di Saddam funzionavano così. Non c'è da meravigliarsi quindi se all'inizio sembrava "disorientato" - tempestiva precisazione della Cnn - anche perché era proprio così che lo si voleva rappresentare, e noi abbiamo fatto in modo che le aspettative non andassero deluse. Ecco perché Saddam ha chiesto al giudice Juhi: «Lei è un avvocato? . Siamo a un processo?». E subito, non appena si è accorto che si trattava dell'udienza preliminare - e non dei preliminari della sua impiccagione - ha assunto un atteggiamento bellicoso. Ma non pensiate che ci verranno date molte altre informazioni in merito alle prossime apparizioni di Saddam in tribunale. Salem Chalabi, il cui fratello Ahmed è stato condannato per frode, nominato dagli americani a capo del tribunale, ha informato la stampa irachena già due settimane fa che i giornalisti non potranno assistere alle prossime udienze. Non mi è difficile capire il perché. Se Saddam si comporterà come Slobodan Milosevic, vorrà parlare dei reali rapporti che il suo regime intratteneva con eserciti e intelligence, specialmente con quelli degli Stati Uniti. Trascorrere queste settimane in Iraq è un'esperienza insolita e pericolosa. Mi dirigo in macchina verso Najaf. L'autostrada 8 è uno dei luoghi peggiori di tutto il paese, dove gli occidentali vengono trucidati e l'asfalto è ingombro di auto della polizia e di camion americani bruciati. Tutti i posti di polizia in 110 km sono stati abbandonati. Nonostante tutto, poche ore più tardi, mi trovo nella mia stanza a Bagdad e alla televisione vedo Tony Blair alla Camera dei Comuni con un sorrisetto da primo della classe: e il rapporto Butler, dov'è finito? In questi giorni, guardare qualunque rete televisiva occidentale da Bagdad è come sintonizzarsi con Marte. Ma possibile che Blair non si accorga che l'Iraq sta per implodere su sé stesso? E Bush, neanche lui se ne accorge? Il "governo" nominato dagli americani controlla soltanto alcune zone di Baghdad, dove pure ministri e funzionari cadono vittime di imboscate e vengono assassinati. Le città di Baquba, Samara, Kut, Mahmoudiya, Hilla, Fallujah e Ramadi sono tutte sfuggite al controllo dell'autorità. Ayad Allawi, il "primo ministro", è poco più che un sindaco di Baghdad. «Qualche giornalista - annuncia Blair - sembra quasi desiderare che in Iraq si verifichi un disastro». Non vuole proprio capire che il disastro è già in atto. Quando i kamikaze vanno a schiantarsi in automobile contro centinaia di reclute a pochi passi da una stazione di polizia, come si fa anche solo a pensare di poter svolgere le elezioni in gennaio? Anche la Conferenza nazionale per la nomina dei responsabili delle elezioni è stata posticipata per ben due volte. E sfogliando i miei appunti delle ultime cinque settimane, mi accorgo che nessuna delle tante persone con cui ho parlato, né un iracheno, né un solo soldato americano, e nemmeno un mercenario - americano, inglese o sudafricano - crede davvero che a gennaio si terranno le elezioni. Tutti mi hanno detto che l'Iraq peggiora di giorno in giorno e la maggioranza mi ha chiesto come mai noi giornalisti non lo diciamo. Ma a Bagdad, accendo la televisione e vedo Bush che arringa i Repubblicani dicendo che in Iraq va sempre meglio, che gli iracheni stanno con la "coalizione", che sosterranno il nuovo governo forgiato dagli Usa, che la "guerra al terrorismo" è ormai vinta, che gli americani ora sono più sicuri. Poi vado su Internet e vedo due uomini incappucciati che tagliano la testa a un americano a Riad, che fendono con un coltello le vertebre di un altro americano che si trovava in Iraq. Ogni giorno, i giornali locali fanno il nome di qualche impresa edile che abbandona il paese. E io scendo a salutare i lavoratori dell'obitorio di Bagdad, così gentili e tragicamente tristi: laggiù, ogni giorno, vedo decine di quegli iracheni che in teoria siamo venuti a liberare, intenti a piangere, gemere e imprecare mentre trasportano in spalla i loro cari rinchiusi in squallidi feretri. Andare in guerra può essere una decisione terribile: anche Neville Chamberlain la pensava così, ma per lui non è stata affatto una decisione difficile, proprio perché quando i nazisti hanno invaso la Polonia, era la cosa giusta da fare. Guidando per le strade di Bagdad, osservando il terrore delle sentinelle americane e avvertendo, all'alba, il fragore dell'ennesima esplosione che squassa porte e finestre, capisco che cosa intende Blair. Entrare in guerra contro l'Iraq con l'invasione dell'anno scorso è stata la sua decisione più difficile perché pensava - non a torto - che potesse essere una scelta sbagliata. Non dimenticherò mai quando, a Bassora, disse all'esercito britannico che il sacrificio dei soldati inglesi non sarebbe stato un film di Hollywood, ma «vera carne e vero sangue». Infatti, il sangue sparso e la carne straziata erano veri, ma non lo erano le armi di distruzione di massa per cui tutto questo è avvenuto. «È ammesso l'uso della forza letale», si legge a tutti i checkpoint di Baghdad. Ma "ammesso" da chi? Non è chiaro a chi si debba rendere conto. Sempre più spesso, sulle grandi superstrade alle porte della città, i soldati ì urlano contro gli automobilisti e aprono il fuoco al minimo sospetto. «L'altro giorno sono venuti al nostro checkpoint degli uomini dei corpi speciali della Marina», mi ha detto un sergente della prima divisione di cavalleria. «Ci hanno chiesto se avevamo dei problemi, e io ho risposto di sì, perché ci sparavano da una casa, e gli ho indicato la direzione. Uno di loro mi ha chiesto: "Quella casa? ", e noi abbiamo detto di sì. Avevano tre jeep e molte armi al titanio: hanno preso le macchine e si sono diretti verso la casa. Più tardi sono ripassati e hanno detto: "Tutto a posto". Da allora non ci hanno più sparato». Che cosa vorrà dire? Gli americani si vantano per l'assedio di Najaf. Il tenente colonnello Garry Bishop del primo battaglione della 37° divisione corazzata la giudica una battaglia «ideale» (anche se non è riuscito a uccidere né a catturare Moqtada al-Sadr). «Ideale», ha spiegato Bishop, perché gli americani hanno evitato di danneggiare i luoghi sacri degli Imam Ali e Hussein. Che idea dovrebbero farsene gli iracheni? Che cosa direbbero gli inglesi se un esercito musulmano occupasse il Kent e bombardasse Canterbury, per poi vantarsi di non aver danneggiato la cattedrale? Dovrebbero ringraziare? E che dire poi di una guerra descritta in modo fantasioso dai suoi stessi autori? Mentre gli stranieri fuggono dall'Iraq per paura di morire, il Segretario di Stato americano Colin Powell afferma in conferenza stampa che la presenza degli ostaggi sta avendo un «effetto» sulla ricostruzione. Quale? Le esplosioni degli oleodotti sono ormai all'ordine del giorno, non meno delle interruzioni dell'elettricità. In alcuni quartieri di Bagdad, l'elettricità funziona solo per quattro ore al giorno; le strade pullulano di mercenari stranieri che esibiscono il fucile alla finestra lanciando ultimatum a tutti gli iracheni che non spariscono subito dalla loro vista. C'è da chiedersi se il governo britannico abiti su questo pianeta. Prendiamo ad esempio il processo a Saddam. Tutta la stampa araba - compresa quella di Bagdad - pubblica il nome del giudice, lo stesso che ha rilasciato interviste dopo aver accolto le accuse di omicidio a carico di Moqtada al-Sadr. Si è perfino fatto fotografare sui giornali, ma quando ho scritto il suo nome sull'Indipendent, il portavoce del governo britannico mi ha censurato formalmente. Salem Chalabi mi ha anche minacciato di querela. Allora, ricapitoliamo: invadiamo illegalmente l'Iraq e uccidiamo 11mila cittadini iracheni. A questo punto, entra in scena Chalabi, nominato dagli americani, e mi comunica ufficialmente che sono reo di «incitazione all'omicidio». Penso di aver detto tutto. Robert Fisk (traduzione di Sabrina Fusari)