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ECCO  COM'E'  LA POLITICA  AMERICANA

Post n°525 pubblicato il 11 Agosto 2008 da carinci
 

“Confessioni di un sicario economico” – di John Perkins
Venivamo preparati per il nostro lavoro, che era quello di costruire
l’impero americano. Dovevamo creare delle situazioni in cui la maggior
parte possibile di risorse fluisse verso il nostro paese, verso le
nostre corporations, il nostro governo, e in questo abbiamo avuto un
grande successo.
Abbiamo costruito il più grande impero nella storia dell’umanità. Ciò
è accaduto negli ultimi cinquant’anni, a partire dalla seconda guerra
mondiale, e con un uso assolutamente minimo di forza militare.
Soltanto in casi eccezionali, come quello dell’Iraq, si utilizza
l’esercito come ultima risorsa.
Questo impero, a differenza di ogni altro impero nella storia, è stato
costruito prima di tutto attraverso la manipolazione economica,
attraverso l’inganno, attraverso la frode, attraverso la seduzione
degli altri verso il nostro modo di vita, e attraverso l’uso dei
sicari economici come me.
Fui reclutato in una scuola di economia, sul finire degli anni 60,
dalla NSA (National Security Agency), la più grande e meno compresa
organizzazione di spionaggio nazionale. Ma in ultima analisi lavoravo
per le corporations private.
Il primo vero sicario economico risale agli anni 50: era Kermit
Roosevelt, il nipote di Teddy, che rovesciò il governo dell’Iran - un
governo democraticamente eletto – di Mossadegh. Kermit fu così bravo
nell’ottenere quel risultato senza versare una goccia di sangue – beh,
un po’ di sangue fu versato, ma non vi fu un intervento militare – e
con una spesa di alcuni milioni di dollari rimpiazzammo Mossadegh con
lo Scià dell’Iran. A quel punto capimmo che questa idea del sicario
economico era ottima.
Quando agivamo in questo modo, non dovevamo preoccuparci della Russia.
Il problema è che Roosevelt era un agente della CIA, era un impiegato
del governo, e se fosse stato scoperto avrebbe causato notevoli
complicazioni. A quel punto si prese la decisione di utilizzare le
organizzazioni come la CIA e la NSA solo per reclutare potenziali
sicari economici come me, per poi mandarli a lavorare per compagnie
private di consulenza, società di ingegneria, compagnie di
costruzione, in modo che se fossimo stati scoperti non vi sarebbe
stato alcun collegamento con il governo
Io lavoravo per una compagnia chiamata Chas. T. Main di Boston, nel
Massachusetts. Eravamo circa 2 mila impiegati, e io ero il capo del
settore economico. Sono arrivato ad avere fino a 50 persone che
lavoravano per me. Ma il mio vero lavoro era quello di concludere
affari. Facevo dei prestiti ad altre nazioni, prestiti enormi, molto
più grandi di quelli che avrebbero mai potuto ripagare. Una delle
condizioni del prestito – diciamo ad esempio un miliardo di dollari,
ad un paese come l’Indonesia o l’Ecuador - era che il paese avrebbe
dovuto restituire il 90% del denaro a una società americana che
costruisse le sue infrastrutture, come la Halliburton o la Bechtel,
che erano le più grandi.
Queste società andavano nel paese e costruivano un sistema elettrico,
dei porti, o delle autostrade, che in realtà servivano solo alle poche
famiglie benestanti del paese, mentre la povera gente restava con un
debito sulla gobba che non avrebbe mai potuto ripagare. Un paese come
l’Ecuador oggi deve versare più del 50% per suo prodotto lordo
nazionale per pagare i suoi debiti, e in realtà non ce la può fare.
Con loro abbiamo quindi il coltello dalla parte del manico. Se un
giorno, ad esempio, vogliamo più petrolio, andiamo in Ecuador e
diciamo: “Voi non siete in grado di ripagare vostro debito, per cui
date alle nostre società le vostre foreste amazzoniche, che sono piene
di petrolio”. Dopodichè noi arriviamo, distruggiamo la foresta
dell’Amazzonia e obblighiamo l’Ecuador a darla noi, a causa del debito
che ha accumulato.
Quando facciamo questi grandi prestiti, la maggior parte dei soldi
torna comunque negli Stati Uniti, mentre il paese rimane con il
debito, più un interesse enorma da pagare, e questi diventano
praticamente i nostri servi, i nostri schiavi. È un impero, non c’è
altro modo di definirlo. È un impero enorme, e in questo noi abbiamo
avuto grande successo.
Quando mi hanno reclutato, quelli della NSA mi hanno sottoposto a una
lunga serie di test della verità. Hanno scoperto tutte le mie
debolezze, e mi hanno immediatamente sedotto. Hanno usato le droghe
più potenti della nostra cultura, il sesso il potere e i soldi, per
convincermi a passare dalla loro parte.
Se non avessi vissuto la vita di un sicario economico, farei molta
fatica a credere che queste cose accadano. Ora invece ho scritto
questo libro perché il nostro paese ha bisogno di capire: se la gente
di questa nazione capisce come funziona davvero la nostra politica
economica, che cosa è l’aiuto ai paesi poveri, come funzionano le
nostre corporations, dove vanno a finire i soldi delle nostre tasse,
so che esigerà un cambiamento.
Ricordate, quando all’inizio degli anni ‘70 l’OPEC faceva tutto quello
che voleva, e ci razionava le importazioni di petrolio? Noi facevamo
lunghe code in macchina alla stazione di servizio, e il paese aveva
paura di dover affrontare un'altra depressione come quella del ’29.
Questo per noi era inaccettabile, e a quel punto il Ministero del
Tesoro ha reclutato me e alcuni altri sicari economici, e siamo
partiti per l’Arabia Saudita.
Sapevamo che l'Arabia Saudita era la chiave di volta per uscire dalla
nostra schiavitù e prendere in mano la situazione. E così abbiamo
messo a punto un accordo, grazie al quale la Reale Casa saudita
avrebbe rispedito negli Stati Uniti la maggior parte dei
petroldollari, e li avrebbe investiti in titoli governativi. Il
Ministero del Tesoro avrebbe usato gli interessi di questi titoli per
finanziare società americane che costruissero in Arabia Saudita nuove
città e nuove infrastrutture -cosa che abbiamo fatto.
La Casa Reale saudita si impegnava a mantenere il prezzo del petrolio
entro limiti accettabili per noi - cosa che negli anni ha sempre fatto
- mentre noi ci impegnavamo a mantenere al potere la Reale Casa
saudita.
Questo è uno dei motivi principali per cui siamo scesi in guerra con
l’Iraq. In Iraq avevamo provato a implementare lo stesso tipo di
strategia che aveva avuto così tanto successo in Arabia Saudita, ma
Saddam Hussein non ci era cascato.
Quando i sicari economici falliscono nel loro obiettivo, entrano in
gioco gli sciacalli, ovvero gli agenti della CIA, che si infiltrano
nel paese e cercano di fomentare un colpo di stato, o una rivoluzione.
Se anche quello non funziona, provano con l’assassinio vero e proprio.
Ma nel caso dell’Iraq non riuscivano a colpire Saddam Hussein, che
aveva molti sosia e delle ottime guardie del corpo, e non si riusciva
a farlo fuori. A quel punto è subentrata la terza linea strategica,
nella quale i nostri giovani uomini e donne vengono mandati a uccidere
ed essere uccisi, che è quello che chiaramente è successo in Iraq.
Ho sempre lavorato molto, molto da vicino con la Banca Mondiale. La
Banca Mondiale fornisce la maggior parte dei soldi che vengono usati
dai sicari economici. Ma dopo l’11 settembre qualcosa è cambiato
dentro di me. Sapevo che questa storia andava raccontata, perché
quello che è accaduto l’11 settembre è il diretto risultato del lavoro
dei sicari economici. E l’unico modo in cui torneremo a sentirci
sicuri in questo paese, l’unico modo in cui torneremo a sentirci bene,
è usando i sistemi che abbiamo messo in atto per creare un cambiamento
positivo nel mondo. Sono profondamente convinto che questo sia
possibile. Io credo che la Banca Mondiale e altre istituzioni possano
essere re-indirizzate a fare quello che dovevano fare originariamente,
e cioè aiutare a ricostruire le parti più devastate del mondo. Aiutare
la povera gente. Ci sono 24 mila esseri umani che muoiono di fame ogni
giorno, e noi questo possiamo cambiarlo.
 
Il racconto di Robert Fisk, il celebre giornalista britannico inviato a
Bagdad
La guerra è una frode. Non mi riferisco all'inesistenza delle armi di
distruzione di massa e dei rapporti tra Saddam Hussein e Al Qaeda, né a
tutte le altre bugie che sono servite da casus belli. Penso piuttosto alle
nuove menzogne.
Infatti, se prima della guerra i governi ci avvertivano di minacce
inesistenti, oggi ci nascondono minacce che esistono davvero. Gran parte
dell'Iraq è ormai fuori dal controllo del governo fantoccio imposto dagli
Stati Uniti a Bagdad, eppure non ci viene detto. Le truppe statunitensi
subiscono centinaia di attacchi al mese, ma nessuno ci avverte, a meno che
non muoia un americano. Il mese scorso, il bilancio delle vittime nella sola
Bagdad è stato di oltre 700 morti, il mese peggiore dalla fine
dell'invasione. Eppure, non ce l'hanno detto.
La regia della catastrofe irachena è stata fin troppo evidente anche in
occasione del "processo" a Saddam. L'esercito degli Usa non si è limitato a
censurare le registrazioni cancellando le voci degli altri 11 imputati, ma
ha anche fatto credere a Saddam (fino al suo arrivo in aula) che sarebbe
stato giustiziato. Quando è entrato in aula, pensava che il giudice avrebbe
sentenziato la sua condanna a morte: del resto, i tribunali di Saddam
funzionavano così. Non c'è da meravigliarsi quindi se all'inizio sembrava
"disorientato" - tempestiva precisazione della Cnn - anche perché era
proprio così che lo si voleva rappresentare, e noi abbiamo fatto in modo che
le aspettative non andassero deluse. Ecco perché Saddam ha chiesto al
giudice Juhi: «Lei è un avvocato? . Siamo a un processo?». E subito, non
appena si è accorto che si trattava dell'udienza preliminare - e non dei
preliminari della sua impiccagione - ha assunto un atteggiamento bellicoso.
Ma non pensiate che ci verranno date molte altre informazioni in merito alle
prossime apparizioni di Saddam in tribunale. Salem Chalabi, il cui fratello
Ahmed è stato condannato per frode, nominato dagli americani a capo del
tribunale, ha informato la stampa irachena già due settimane fa che i
giornalisti non potranno assistere alle prossime udienze. Non mi è difficile
capire il perché. Se Saddam si comporterà come Slobodan Milosevic, vorrà
parlare dei reali rapporti che il suo regime intratteneva con eserciti e
intelligence, specialmente con quelli degli Stati Uniti.
Trascorrere queste settimane in Iraq è un'esperienza insolita e pericolosa.
Mi dirigo in macchina verso Najaf. L'autostrada 8 è uno dei luoghi peggiori
di tutto il paese, dove gli occidentali vengono trucidati e l'asfalto è
ingombro di auto della polizia e di camion americani bruciati. Tutti i posti
di polizia in 110 km sono stati abbandonati. Nonostante tutto, poche ore più
tardi, mi trovo nella mia stanza a Bagdad e alla televisione vedo Tony Blair
alla Camera dei Comuni con un sorrisetto da primo della classe: e il
rapporto Butler, dov'è finito?
In questi giorni, guardare qualunque rete televisiva occidentale da Bagdad è
come sintonizzarsi con Marte. Ma possibile che Blair non si accorga che
l'Iraq sta per implodere su sé stesso? E Bush, neanche lui se ne accorge? Il
"governo" nominato dagli americani controlla soltanto alcune zone di
Baghdad, dove pure ministri e funzionari cadono vittime di imboscate e
vengono assassinati. Le città di Baquba, Samara, Kut, Mahmoudiya, Hilla,
Fallujah e Ramadi sono tutte sfuggite al controllo dell'autorità. Ayad
Allawi, il "primo ministro", è poco più che un sindaco di Baghdad. «Qualche
giornalista - annuncia Blair - sembra quasi desiderare che in Iraq si
verifichi un disastro». Non vuole proprio capire che il disastro è già in
atto.
Quando i kamikaze vanno a schiantarsi in automobile contro centinaia di
reclute a pochi passi da una stazione di polizia, come si fa anche solo a
pensare di poter svolgere le elezioni in gennaio?
Anche la Conferenza nazionale per la nomina dei responsabili delle elezioni
è stata posticipata per ben due volte. E sfogliando i miei appunti delle
ultime cinque settimane, mi accorgo che nessuna delle tante persone con cui
ho parlato, né un iracheno, né un solo soldato americano, e nemmeno un
mercenario - americano, inglese o sudafricano - crede davvero che a gennaio
si terranno le elezioni. Tutti mi hanno detto che l'Iraq peggiora di giorno
in giorno e la maggioranza mi ha chiesto come mai noi giornalisti non lo
diciamo.
Ma a Bagdad, accendo la televisione e vedo Bush che arringa i Repubblicani
dicendo che in Iraq va sempre meglio, che gli iracheni stanno con la
"coalizione", che sosterranno il nuovo governo forgiato dagli Usa, che la
"guerra al terrorismo" è ormai vinta, che gli americani ora sono più sicuri.
Poi vado su Internet e vedo due uomini incappucciati che tagliano la testa a
un americano a Riad, che fendono con un coltello le vertebre di un altro
americano che si trovava in Iraq.
Ogni giorno, i giornali locali fanno il nome di qualche impresa edile che
abbandona il paese.
E io scendo a salutare i lavoratori dell'obitorio di Bagdad, così gentili e
tragicamente tristi: laggiù, ogni giorno, vedo decine di quegli iracheni che
in teoria siamo venuti a liberare, intenti a piangere, gemere e imprecare
mentre trasportano in spalla i loro cari rinchiusi in squallidi feretri.
Andare in guerra può essere una decisione terribile: anche Neville
Chamberlain la pensava così, ma per lui non è stata affatto una decisione
difficile, proprio perché quando i nazisti hanno invaso la Polonia, era la
cosa giusta da fare.
Guidando per le strade di Bagdad, osservando il terrore delle sentinelle
americane e avvertendo, all'alba, il fragore dell'ennesima esplosione che
squassa porte e finestre, capisco che cosa intende Blair. Entrare in guerra
contro l'Iraq con l'invasione dell'anno scorso è stata la sua decisione più
difficile perché pensava - non a torto - che potesse essere una scelta
sbagliata. Non dimenticherò mai quando, a Bassora, disse all'esercito
britannico che il sacrificio dei soldati inglesi non sarebbe stato un film
di Hollywood, ma «vera carne e vero sangue». Infatti, il sangue sparso e la
carne straziata erano veri, ma non lo erano le armi di distruzione di massa
per cui tutto questo è avvenuto.
«È ammesso l'uso della forza letale», si legge a tutti i checkpoint di
Baghdad. Ma "ammesso" da chi? Non è chiaro a chi si debba rendere conto.
Sempre più spesso, sulle grandi superstrade alle porte della città, i
soldati ì urlano contro gli automobilisti e aprono il fuoco al minimo
sospetto. «L'altro giorno sono venuti al nostro checkpoint degli uomini dei
corpi speciali della Marina», mi ha detto un sergente della prima divisione
di cavalleria. «Ci hanno chiesto se avevamo dei problemi, e io ho risposto
di sì, perché ci sparavano da una casa, e gli ho indicato la direzione. Uno
di loro mi ha chiesto: "Quella casa? ", e noi abbiamo detto di sì. Avevano
tre jeep e molte armi al titanio: hanno preso le macchine e si sono diretti
verso la casa. Più tardi sono ripassati e hanno detto: "Tutto a posto". Da
allora non ci hanno più sparato».
Che cosa vorrà dire? Gli americani si vantano per l'assedio di Najaf. Il
tenente colonnello Garry Bishop del primo battaglione della 37° divisione
corazzata la giudica una battaglia «ideale» (anche se non è riuscito a
uccidere né a catturare Moqtada al-Sadr). «Ideale», ha spiegato Bishop,
perché gli americani hanno evitato di danneggiare i luoghi sacri degli Imam
Ali e Hussein. Che idea dovrebbero farsene gli iracheni? Che cosa direbbero
gli inglesi se un esercito musulmano occupasse il Kent e bombardasse
Canterbury, per poi vantarsi di non aver danneggiato la cattedrale?
Dovrebbero ringraziare?
E che dire poi di una guerra descritta in modo fantasioso dai suoi stessi
autori? Mentre gli stranieri fuggono dall'Iraq per paura di morire, il
Segretario di Stato americano Colin Powell afferma in conferenza stampa che
la presenza degli ostaggi sta avendo un «effetto» sulla ricostruzione.
Quale? Le esplosioni degli oleodotti sono ormai all'ordine del giorno, non
meno delle interruzioni dell'elettricità. In alcuni quartieri di Bagdad,
l'elettricità funziona solo per quattro ore al giorno; le strade pullulano
di mercenari stranieri che esibiscono il fucile alla finestra lanciando
ultimatum a tutti gli iracheni che non spariscono subito dalla loro vista.
C'è da chiedersi se il governo britannico abiti su questo pianeta.
Prendiamo ad esempio il processo a Saddam. Tutta la stampa araba - compresa
quella di Bagdad - pubblica il nome del giudice, lo stesso che ha rilasciato
interviste dopo aver accolto le accuse di omicidio a carico di Moqtada
al-Sadr. Si è perfino fatto fotografare sui giornali, ma quando ho scritto
il suo nome sull'Indipendent, il portavoce del governo britannico mi ha
censurato formalmente. Salem Chalabi mi ha anche minacciato di querela.
Allora, ricapitoliamo: invadiamo illegalmente l'Iraq e uccidiamo 11mila
cittadini iracheni. A questo punto, entra in scena Chalabi, nominato dagli
americani, e mi comunica ufficialmente che sono reo di «incitazione
all'omicidio». Penso di aver detto tutto.
Robert Fisk
(traduzione di Sabrina Fusari)

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