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ARRESTO CARDIACO e IPOTERMIA

Post n°1 pubblicato il 31 Dicembre 2013 da bart1974

ARRESTO CARDIACO e IPOTERMIA: PUSH HARD, PUSH FAST, STAY...COOL? Gianfrancesco Alberto, MD - Associate Editor MedEmIt
Gli scandinavi e il freddo: epicrisi di un rapporto
 
Certi articoli potrebbero essere letti in chiave psicoanalitica anche quando niente hanno a che fare con le profondità della mente umana. Che c'entra? Vediamo. Una ventina di giorni fa, in occasione del meeting annuale dell'AHA, è stato pubblicato un articolo online su NEJM a cura di un gruppo scandinavo a proposito dell'efficacia dell'ipotermia nei pazienti post-arresto cardiaco.
 
Sottoporre i pazienti ad una ipotermia controllata (32-34°C) per 12-24 ore dopo il ripristino di una circolazione spontanea se incoscienti è pratica diffusa e raccomandata dalle linee guida AHA del 2010 in classe I (livello di evidenza B) se l'arresto cardiaco era secondario ad una fibrillazione ventricolare (FV) o in classe IIb (livello di evidenza B) se secondario ad un arresto secondario a ritmo non defibrillabile. Due dei pilastri che supportano il raffreddamento dei pazienti nel post-arresto sono stati due articoli pubblicati sempre su NEJM nel 2002 a opera di due gruppi indipendenti. Persino la Cochrane collaboration nel 2009 e nel 2012 ha confermato la qualità delle evidenze disponibili, supportando questa pratica clinica
 
Eppure qualcuno, gli autori del presente articolo e altri non erano convinti: in fondo poco meno di 500 pazienti non sembravano sufficienti a giudicare conclusive le prove, senza contare che molti pazienti nel gruppo normotermia in realtà erano ipertermici, condizione notoriamente associata con un outcome sfavorevole.
 
Tra novembre 2010 e gennaio 2013 sono stati arruolati 950 pazienti randomizzati in due gruppi: uno sottoposto a trattamento per un target ipotermico (33°C) e uno in cui il target era il mantenimento dell'eutermia (36°C) prevenendo e trattando l'ipertermia con l'obiettivo di valutare la sopravvivenza  (outcome primario) e la performance neurologica dei sopravvissuti, ça va sans dire, come outcome secondario a 180 giorni. Un protocollo per la sospensione del supporto vitale è stato predefinito all'inizio dello studio per evitare di creare bias di risultati in termini di sopravvivenza. I risultati sono stati statisticamente analizzati secondo la modalità dell'intention to treat (senza cioè tenere conto se i pazienti assegnati ad un certo gruppo venivano poi trattati effettivamente secondo il protocollo) e del “per-protocol” (cioè tenendo conto solo dei pazienti che sono stati davvero trattati secondo protocollo).
 
I risultati sostanzialmente capovolgono quanto finora accertato.
 
Non solo infatti non ci sono differenze nella mortalità ma neppure nella performance neurologica. E questo vale analizzando i risultati con entrambe le modalità statistiche citate. Gli autori sottolineano nella discussione che il loro è il primo trial che individua una temperatura obiettivo anche nel gruppo normotermia con il chiaro scopo di evitare episodi febbrili.
 
In rete sono immediatamente comparsi commenti a firma di autorevoli esponenti del mondo accademico, del mondo degli autori dei blog e dei supporter della FOAM. I più sottolineano, in coro con gli autori, l'importanza di evitare l'ipertermia, senz'altro un take home message che mi sento di sostenere. Altri suggeriscono che in alcuni sottogruppi di pazienti, quelli con maggiore compromissione neurologica dopo il ripristino del ritmo spontaneo per esempio, potrebbero beneficiare ancora del “raffreddamento” a 33°C. Ma su questo mancano chiari indizi probanti e l'ipotesi andrà verificata in modo rigoroso.
 
Dopo aver letto l'articolo, i commenti e aver analizzato i dati dei trials pubblicati nel 2002, qualcosa non mi tornava. Così ho deciso di creare la seguente tabella:
 
 
Ho guardato e riguardato questa tabella, poi un ipotesi si è affacciata: a quasi sostanziale parità di tutte le altre variabili tra i 3 trial, una differenza balza all'occhio. La percentuale di rianimazioni cardiopolmonari eseguite dal testimone dell'arresto sono nettamente aumentate nel corso degli anni.
 
Molti di voi obietteranno correttamente che la percentuale delle CPR in uno dei bracci (normotermia) di uno degli studi del 2002 è sostanzialmente uguale rispetto a quello del 2013. La differenza in termini di mortalità e di performance neurologica è nettamente diversa. Cosa è cambiato allora negli ultimi 10 anni?
 
È cambiato il modo con cui facciamo la CPR! I lavori pubblicati nel 2002 seguivano le linee guida precedenti il 2000 (fidatevi: ho controllato le date di esecuzione dei trials), quello del 2013 segue le linee guida 2005 e 2010 che hanno apportato sostanziali differenze mettendo molta più enfasi ed importanza sulla corretta esecuzione del BLS ed in particolare del massaggio cardiaco.
 
Una più efficace CPR avrebbe pertanto ridotto il danno neurologico indotto dall'arresto, annullando l'efficacia dell'ipotermia.
 
È solamente una ipotesi, andrebbe verificata. Ma può essere un interessante spunto di riflessione e, mi permetto di dire, un altro potenziale tassello che conferma quanto in letteratura è sempre più confermato: una CPR di buona qualità è l'unica vera procedura, insieme con la defibrillazione precoce, realmente evidence based. Ecco l'altro take home message.
 
Il BLS è una procedura relativamente semplice, mnemonica e in certo senso automatica, che può e deve essere conosciuta e praticata anche da operatori non sanitari. Forse proprio per questo pur considerandola utile, viene in qualche modo snobbata da noi medici, abituati a considerare manovre più complesse, costose e che richiedono competenze e abilità tecniche molto raffinate riservate a personale sanitario molto esperto e formato. Pensiamoci: questo pregiudizio ha risvolti importanti, talvolta determinanti, nella nostra pratica quotidiana.
 
Concludo: siamo abituati a combattere il freddo, l'ipotermia in ospedale (politraumi, assideramento...) per i danni agli organi che essa può provocare. Il freddo, in genere, non ci piace. Molti di noi hanno ancora nelle orecchie i richiami delle nostre mamme quando bambini ci ostinavamo a voler uscire in inverno poco coperti. E molti di noi, ora genitori, ripetono gli stessi inviti ai propri figli. Gli Scandinavi vivono nel freddo per molti mesi all'anno: si adattano ma non lo amano. Oggi ci hanno dato un buon motivo in più, se non proprio per odiarlo, almeno per diffidarne.
 
Gianfrancesco Alberto, Associate editor MedEmIt, Dirigente Medico Medicina d'Urgenza A.O. Ordine Mauriziano di Torino
 
REFERENCES
(1) Nielsen N, Wetterslev J, Cronberg T, et al. Targeted temperature management at 33°C versus 36°C after cardiac arrest. N Engl J Med 2013. DOI: 10.1056/NEJMoa1310519.
(2) Bernard SA, Gray TW, Buist MD, et al. Treatment of comatose survivors of out-of-hospital cardiac arrest with induced hypothermia. N Engl J Med 2002;346:557-563
(3) The Hypothermia after Cardiac Arrest Study Group. Mild therapeutic hypothermia to improve the neurologic outcome after cardiac arrest. N Engl J Med 2002;346:549-556[Erratum, N Engl J Med 2002;346:1756.]
 
 
 
 

 
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