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Post N° 34


L’IPPOGRIFO.Dopo il poker - tensioni immani per bluff da duemila lire ma era in gioco la reputazione - si andava in macchina su fino al parcheggio di San Luca e lì si faceva “La Partenza del Palio di Siena”. Cinque studenti basiti di alcool e/o altro che si fingevano cavalli sulla linea di partenza, con la moina per accaparrarsi la migliore posizione vicino al cordone e uno che imitava la telecronaca di Frajese. Uno spasso di finti nitriti, passettini, colpi di zoccolo, finte partenze, scorreggione equine, reciproci insulti e sfottò. Carlo che dice a Toni “ah ah ah!!! Tunonlofaibenenonlofaibeneilcavallo: cazzofaimaguardati” e questo che si incazza davvero, “comenoguardamisembroAceto-stronzo”. Coppiette seminude in auto prima spaventate, poi sgomente, poi scocciate o divertite. Testine che ridono dietro il parabrezza, qualcuno accende il mezzo e se ne va altrove.C’era la luna piena in quella notte d’autunno e io me la godevo scalpicciando sull’asfalto.Ma quella notte presi la cosa molto seriamente, siore e siori.Io, Achille Sforza, ero l’unico dei cinque a sentirmi cavallo. Un cavallo con le ali, un purosangue bianco volante, un puledro riottoso e indomabile.Nervoso, scattante, senza un filo di grasso. E con un membro così.La fede muove le montagne e io sapevo di essere un ippogrifo dal garretto solido, dalle lunghe ciglia e con occhi cangianti dal castano al verde, con maestose ali dall’ampia apertura e il walkman con Miles Davis (Tutu) a pieno volume.Gli altri non si accorgevano di nulla: il mio involucro se ne stava ancora lì con loro, concluse la sceneggiata con loro, e con loro salì in macchina per chiudere la notte col bombolone ripieno alla crema, in Via Mazzini.Ma la mia anima di ippogrifo li abbandonò, e se ne volò via, indugiando a lungo sui tetti bolognesi e a lungo sbirciando nelle poche finestre illuminate prima di infilare l’autostrada per la luna piena.Lungo la via sostavano puledre di una bellezza sfolgorante, ma non mi vedevano.Sulla luna mi attendevano i tre libri: il primo per vedere il futuro, un secondo per comprendere il passato. Il terzo era un portolano, pieno di mappe e indicazioni con glosse scritte a mano. Ne potevo prendere solo uno. Tralasciai i primi due, e scelsi il terzo.Trascorsi il non tempo che mi era rimasto, dove i secondi sono ore e le ore secoli, a imprimermi quei segni nell’anima, tatuandola e incidendola, ridandole forma e vigore.Dopo averla tornita e indurita, la cromai.L’ animo femminile non avrebbe più avuto segreti per me, ora: che farsene degli altri due libri?Sulla via del ritorno le puledre si innamoravano delle mie ciglia e delle mie pupille castano-verdi. Una la ingravidai. Un’altra morì dal languore. Una terza è ancora là che mi aspetta.
Atterrai in via Mazzini per ricongiungermi col mio me.Appena in tempo per gustarmi la crema che già mi stava colando lungo il gargarozzo.In fede.Achille Sforza.                                                                         scritto da vulcanoinaffittodisegno di Andrea Pazienza